Cinema, Teatro, Arte, Spettacolo

Monicelli, la vita e il cinema
Messaggio del 20-11-2007 alle ore 08:44:17
grazie jena
copiato e archiviato, stasera so cosa leggere
Messaggio del 19-11-2007 alle ore 20:47:10
up for atelkin
Messaggio del 17-11-2007 alle ore 15:39:02

Abbiamo subito chiesto al regista di raccontare brevemente della sua famiglia. 

Sono nato a Viareggio nel maggio del 1915 e sono figlio dello scrittore e giornalista Tommaso, amico e parente dei Mondadori. In realtà sono mantovano e in casa mia non si è fatto altro che parlare di libri, articoli e giornali. Mio padre, socialista, è stato persino direttore dell’Avanti e poi interventista nella Grande Guerra. Ha avuto – spiega sornione – una infatuazione nazionalista, ma il delitto Matteotti lo ha riportato alla realtà delle cose ed è tornato ad essere socialista vero. Prestissimo siamo venuti a vivere a Roma. 

Che cosa è successo con il cinema? Come è nata la passione? 

Da bambino, mia madre mi infilava dentro il “cinemino” vicino a casa e io rimanevo tutto il pomeriggio a guardare quelle straordinarie e misteriose immagini in movimento. Una cosa bellissima. Guardavo le comiche due o tre volte. Attenzione: il cinema era ancora muto. Le prime esperienze le avevo poi fatte a Tirrenia, dove c’erano i primi stabilimenti cinematografici. Un mio amico di scuola era il figlio del direttore degli studi. 

E a Roma? 

Ho continuato nei miei contatti, mi sono occupato di documentari e ho cominciato a scrivere testi per le riviste di Totò e Macario. Ho realizzato, nel 1935, anche una specie di documentario dal titolo: I ragazzi della via Paal. Più tardi sono finito sotto le armi. In cavalleria. Pensavo: almeno imparo ad andare a cavallo. E così è stato. Devo dire che c’erano molti ragazzi che andavano volentieri a fare il militare. Così – pensavano – almeno giro il mondo. Ricordatevi che in Italia, il 70-75 per cento delle persone, erano poveri analfabeti. 

Qualcuno mormora e un signore, in fondo, dice: “Che cosa sta dicendo, che i soldati andavano volentieri alla guerra?”. Monicelli risponde: 

Non dico questo. Ma cerco di far capire che quella era la situazione. Io l’ho vista così. Non dimenticate che ero in divisa in quei mesi. Insomma, stavo tra i soldati. 

Lei dov’era il 25 luglio del ’43, quando Mussolini fu arrestato per ordine del re, e l’8 settembre, quando fu annunciato l’armistizio e l’esercito si sfasciò? 

Prima in Jugoslavia, dove i serbi e i croati già si stavano scannando, e poi in Africa. Che ho fatto? Arrivato in Italia, mi sono messo in borghese e mi sono avviato verso Roma, camminando sui binari del treno, insieme ad altre migliaia di soldati. Quindi non ho visto la battaglia di Porta San Paolo o altro. Ho trovato i nazisti in casa e basta. Ho trovato i nazisti in casa e basta. Ricordo i rastrellamenti, la storia del Ghetto, la strage delle Ardeatine. Non sapevo che fare e sono andato da un mio vecchio amico anarchico che si chiamava Comunardo. 

Un nome è un programma, azzardiamo. Spiega ancora Monicelli: 

Con Comunardo non abbiamo fatto molto. Distribuivamo manifestini antifascisti e la stampa socialista e comunista. La mia guerra è tutta qui. Verso l’alba, il 4 giugno del ’44, nella semioscurità ho visto, in centro, l’arrivo di migliaia di americani che avanzavano nel buio senza fare alcun rumore. Io, abituato al fracasso degli scarponi dei soldati italiani, ero allibito. Gli americani erano armatissimi. Accanto, avevo un venditore di “bruscolini” e castagne al quale stavo consegnando manifestini antinazisti. Anche lui era silenzioso. Poi sbottò: “Ahò, ma guarda un po’ a chi avemo dichiarato guerra con i nostri quattro fucilini”. Tornai subito negli ambienti di Cinecittà. Era appena uscito Roma città aperta che aveva avuto un gran successo all’estero. Rossellini aveva preso, per lavorare, spezzoni di pellicola in mezza Roma. Ricominciai a scrivere per Totò in collaborazione con Steno. Poi Ponti ci disse che dovevamo utilizzare lo stesso Totò ancora sotto contratto e così nacquero Totò cerca casa, Vita da cani e Guardie e ladri. 

Ma nell’ambito del cinema, la censura fascista era forte? Che cosa voleva da voi il regime? 

La verità è che il regime – secondo me – non chiedeva grandi cose. Prima di tutto la famiglia. Non si poteva toccarla: niente amanti, niente abbandoni e avventure. Non so perché, ma quando si proponevano certi film dovevano essere ambientati o in Francia (la Francia democratica e decadente) o in Ungheria. No ho mai capito bene perché l’Ungheria. La nostra Ungheria era, a Roma, il quartiere Coppedè. Buffo vero? Comunque, il fascismo ci teneva al cinema, eccome. Aveva costruito Cinecittà. Ci tenevano anche i tedeschi e i sovietici. Certo, i sovietici hanno fatto capolavori ineguagliabili. Sì certo, c’era un sacco di gente a Roma che scriveva per il regime. Ma era per campare. Nessuno credeva a quel che scriveva. Poi, c’era la fronda. Per esempio intorno alla rivista Cinema, diretta dal figlio di Mussolini. Sapevo che c’erano anche i comunisti che, nella Roma occupata dai nazisti, organizzavano gruppi di resistenza, armi in pugno. 

Il “re della commedia all’italiana” continua a raccontare e spiega di essersi spesso rifatto a piccoli-terribili fatti di cronaca. Come per “I soliti ignoti”. 
Chiediamo ancora se è vero che da sinistra e anche dal Pci arrivavano critiche anche dure al suo lavoro. 

Certamente, perché avevano la fissa che gli operai e i poveracci dovessero essere sempre serissimi e col grugno. Mai sorridenti. Io spiegavo a Mario Alicata, importante dirigente del Pci, che un giovane, anche se disoccupato, trovava sempre il modo di sorridere e divertirsi. Insomma, avrei dovuto filmare una storia tipo la giovane operaia messa incinta dal figlio del padrone che viene salvata dall’operaio. Che poi, ovviamente, la sposava. Io, da sempre di sinistra – spiega con raffinata e giocherellona ironia – risposi che non era davvero roba per me. Insomma, ero poco serio. Anche all’estero rifiutavano la commedia all’italiana e dicevano che Sordi interpretava esseri ripugnanti che non facevano affatto ridere. E io spiegavo che l’Italia era la patria della commedia dell’arte, del Ruzante, di Piero l’Aretino, di Dante, ma anche della Mandragola e del Boccaccio. Dunque possiamo essere eroi e cialtroni, coraggiosi e vigliacchi, buonissimi e carogne, generosi e squallidi. 

Come è nata l’idea de La grande guerra?

Da un soggetto che mi ha presentato il figlio di Cervi e che era stato scritto da Vincenzoni, il quale l’aveva ripreso, anzi “fiutato”, da un racconto di Guy de Mauppassant, che s’intitola Deux amis. La storia ripercorre la guerra del 1870, tra Napoleone III e la Prussia. Il soggetto mi piacque molto e mi misi in contatto con Vincenzoni per farlo. Lui lo vendette a De Laurentiis, che volle farne un film e scelse me come regista e Sordi e Gassmann, che avevano un contratto con lui, come protagonisti.

Perché ha voluto rappresentare la guerra?

Io sono sempre stato antifascista: ho avuto la fortuna di esser nato in una famiglia antifascista. Mio padre era giornalista, ex-direttore dell’Avanti, aveva fatto il corrispondente di guerra, aveva diretto dei giornali e, in seguito, era stato cacciato, perché aveva scritto degli articoli contro il fascismo. In casa mia c’era questo risentimento verso il fascismo, era il mio ambiente naturale. Io sono nato nel 1915 e, quando avevo 3 o 4 anni e la guerra stava per finire, vedevo mio zio che ogni tanto tornava a casa in licenza e si metteva a parlare con mio padre, che già faceva il corrispondente di guerra. Tutta la mia famiglia era contro il fascismo, quindi sono cresciuto in questo clima e, durante gli anni Trenta, ho avuto la percezione che di tutta questa guerra, di cui sentivo raccontare, se ne stesse facendo un mito, dal fascino incredibile. Sapevo che cosa fosse la guerra e il fascismo ne era l’esaltazione: esaltazione delll’Italia, della guerra d’indipendenza, della conquista di Trieste, dei soldati italiani accorsi alle armi contro il nemico austriaco. Beh, non era vero niente: era tutto falso e io volevo dirlo. Non lo si poteva fare durante il fascismo, ma caduta la dittatura e perduta la guerra, che anch’io ho combattuto, volevo in qualche modo raccontarla, cancellare questo “mito”, questo “tabù”, anche perché c’erano dei libri di Lussu che raccontavano come erano andate veramente le cose. I suoi libri non circolavano molto, ma io li avevo letti, perché a casa mia se ne parlava.

Quindi, quando finalmente ho potuto, ho raccontato la mia versione, in termini graffianti e umoristici. Io ho sempre cercato di raccontare tutto quello che volevo in termini umoristici, qualunque ne fosse l’argomento. Così mi misi a tavolino, insieme a Vincenzoni, Age e Scarpelli, “rubando” un po’ qui un po’ lì, situazioni, personaggi… specialmente da Lussu, dal quale sono andato con l’intenzione di ripagarlo, perché ci aveva fornito del materiale, ma lui era così divertito dalla commedia all’italiana – che all’epoca era considerata “spazzatura” – che non volle niente. Poi quando uscì la notizia che avevo fatto un film sulla grande guerra mondiale usando la commedia, che io e i miei amici-compagni di nefandezze c’eravamo uniti per sfatare questo “mito”, questo tabù, allora ci fu la rivolta della stampa italiana, all’avanguardia della retroguardia.

A un certo punto sembrava che la cosa stesse per saltare e invece De Laurentiis tenne fede alla sua volontà: il film si fece, ebbe un successo clamoroso e ancora oggi se ne parla. Finalmente si parla in maniera diversa di quello che è accaduto: di Trieste, della guerra d’indipendenza; se ne parla per come se ne deve parlare, come di una truffa, di una tragedia. Alcuni milioni di giovani, di ragazzi analfabeti – perché l’Italia del 1915 era per il 70% fatta di analfabeti – furono trascinati sotto la neve, sotto la pioggia, sotto il sole cocente, sotto le bombe, malnutriti, male armati, mal equipaggiati, mal guidati e sono rimasti lì. Ebbene, quando milioni di giovani stanno insieme, anche se c’è la guerra, nascono delle cose: o giocano o pensano alle fidanzate… ma comunque nascono delle cose che sono divertenti e tenere. È così che volevo raccontare la guerra e così, alla peggio, siamo riusciti a fare. 

Sordi e Gassman nel film ripetono “amor di patria e disprezzo del pericolo” e anche altri episodi ricordano la retorica fascista.

La retorica è qualcosa di fascista. Da quando sono nato a quando è caduto il fascismo sono vissuto in un contesto, in un’ambiente, che era antiretorico, perché era antifascista.

E perché “L’armata Brancaleone”? 

Ero stufo di quei tempi medievali raccontati a scuola, con damine e cavalieri, belli e incorruttibili. Non è vero niente. Erano venditori di tappeti e cialtroni, scassati e miserabili e si scannavano per castelli e soldi. Ma quale Santo Sepolcro. La civiltà, allora, era dall’altra parte. Proprio L’armata Brancaleone e I compagni sono, di quelli che ho fatto, i miei film preferiti.

Nella sua commedia c’è uno sguardo pieno di tenerezza e di pietà per i suoi personaggi.

Sono tutti così, sono gli stessi de I soliti ignoti o i componenti de L’armata Brancaleone: sono gli oppressi, quelli che vogliono riscattarsi e non ci riescono mai; quelli che sono costretti a essere vigliacchi e, quando non ne possono fare a meno, non sono nemmeno vigliacchi, ma se lo sono, non si possono accusare. Sono i sopraffatti e siccome i sopraffatti sono la grande maggioranza sono sempre loro, che vengono a fare la guerra, che cercano di arrangiarsi rubando e che non riescono nemmeno a fare quello.

Commedia ma non solo, lei ha sempre trattato temi sociali di grande importanza e attualità.

La commedia “all’italiana” fu chiamata così, per disprezzo, dai critici e veniva fuori da un film bellissimo di Germi, Divorzio all’italiana, in cui si raccontava una truffa: un uomo faceva in modo di essere tradito per uccidere la moglie e fare quello che gli pareva. Ebbene la commedia all’italiana è proprio questo: tratta argomenti che sono drammatici, qualche volta tragici, con umorismo, con satira. Usa la satira e il grottesco, ma gli argomenti sono sempre drammatici: è la maniera di trattarli che provoca questa “comicità” che sappiamo fare solo in Italia e che è una cosa che viene da molto lontano, che non abbiamo inventato noi nel dopoguerra.

A quando risale questo lato grottesco, dissacrante?

Certo non l’abbiamo inventato io, Risi o Germi. È sempre esistito. Ad esempio Boccaccio: nel Decamerone ci sono dei racconti, delle novelle, che sono addirittura feroci; però sono divertenti, hanno il tratto dell’umorismo. Sa qual è il lato grottesco del Decamerone: c’è gente che, chiusa in una bellissima villa, mangia, beve, dorme, fa l’amore e racconta storie, mentre fuori c’era la peste e la gente muore. La mandragola è una farsa turpe; la commedia dell’arte fa ridere sempre giocando sulla miseria, sulla fame; Arlecchino è servo non di uno, ma di due padroni. Questa è la commedia all’italiana, che forse viene da ancora più lontano, dalle atellane, dal teatro romano, da Plauto: un teatro fatto di truffatori, di servi che rubano, di bisogni umani.

Dissacrare attraverso l’umorismo è un segno specifico secondo lei della cultura italiana?

Ci viene naturale. Gli altri dicono: ma come fate a ridere di questo? Perché ci viene naturale, perché la morte diventa un tema di grande comicità, la fame lo stesso, il dolore, tutto può diventarlo, se lo si sa trattare. Se uno lo ha dentro, lo sa fare.

Lei ha avuto molta attenzione per l’attualità, chi sono oggi i registi che hanno questa stessa attenzione?

Ci sono, ma qui nasce un altro problema: il cinema non è solo una forma d’arte, seppure minore, è un arte minore applicata all’industria; è un prodotto collettivo, frutto del lavoro di molte persone. E’, insomma, artigianato. Era arte il cinema muto: quelle figurine che si muovevano. Guardatelo oggi un film muto e vedrete. Poi il cinema ha cominciato a corrompersi con il parlato, la musica e, da ultimo, il colore. Ovviamente, finché c’è quest’industria, esiste anche un’attività culturale, cinematografica, che fornisce talenti, scrittori, attori, scenografi, ovvero tutto il caravan-serraglio di cui ha bisogno il cinema per fare delle cose che abbiano un minimo di valore. Quando non c’è alle spalle l’industria, la cosa diventa impossibile. Negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui c’era la commedia all’italiana, con Germi, Risi, De Sica, Rosselini, Fellini, alle spalle c’era un’industria che faceva trecento film l’anno, fra i quali tre o quattro potevano essere dei capolavori. In quella stagione, il cinema americano entrò in crisi e l’industria dello spettacolo, fatta nei teatri della Metro Goldwin Mayer o della Columbia, venne messa in crisi dagli italiani, che non avevano bisogno di nulla di tutto questo, perché facevano leva su una verità che non era solo nelle immagini, ma nei rapporti tra le persone. Adesso, se un giovane vuole fare cinema, non trova nemmeno le sale cinematografiche, perché sono occupate dai film americani, che riscuotono grande successo.

Lei dice che la verità della commedia all’italiana si trovava nei rapporti tra le persone, oggi i registi puntano l’attenzione sull’incapacità di questi rapporti. Cosa è cambiato?

È cambiata la qualità della vita. Dopo la guerra, l’Italia ha avuto un momento che credo non abbia mai avuto nella sua storia: per una decina d’anni gli italiani erano fattivi, pieni di gioia, pieni di voglia di fare, non si lamentavano di nulla, erano felici di vivere, di lavorare, di costruire, avevano la libertà, avevano finito la guerra e quindi le cose si svolgevano in maniera molto concreta e gioiosa, ed erano vere. Questa generazione, e non parlo solo del cinema, ha portato a un boom economico e culturale: lì è stata la svolta che ci ha rovinato e che Pasolini, in maniera anche troppo nostalgica, rimpiangeva. I giovani che sono nati dopo, e quindi i sessantottini, che sono stati acculturati, hanno voluto, come sempre avviene, rivoltarsi ai padri e si è imboccata una strada che era individualistica, di riflessione su se stessi, di smarrimento, in cui si è perso il senso della collettività in cui eravamo. Il cinema ad esempio: eravamo tutti amici, ci aiutavamo, io davo idee ad altri sceneggiatori o registi, loro ne davano a me, non c’era competitività, tutti lavoravamo, eravamo contenti, soddisfatti di quello che facevamo.

Poi è venuto il boom ed è finita, per cui i giovani si sono ritrovati soli. Nel cinema, gli autori non avevano più la spinta: volevano solo contrastare i padri, non volevano più fare il cinema; o meglio, volevano farne uno loro, ma il loro cinema era di una realtà “personalistica”, non più aperta, ma chiusa in se stessa. Quelli che avevano qualcosa da dire, una loro intelligenza, sono riusciti anche ad affermarsi – vedi Bellocchio, Bertolucci, Moretti – però è un cinema che non ha nulla a che vedere con quello nostro, che era un cinema complesso: il nostro cinema era fatto di tanti personaggi, erano tante le persone, gli attori di cui avevamo bisogno. Loro hanno fatto film sul proprio personale smarrimento e li facevano da soli: se li sono scritti, interpretati, girati e rendendo tutto asfittico. Noi invece eravamo un gruppo: il gruppo lavorava insieme e ci si aiutava l’un l’altro, in questo modo ci si deresponsabilizzava o si ci responsabilizzava. Noi eravamo felici, mentre questi sono degli infelici: hanno iniziato ad essere infelici e lo sono ancora adesso, ora che le condizioni di certo non aiutano. Inoltre il cinema del dopoguerra non riguardava unicamente l’amore; l’amore c’è, ma non è il punto centrale, è secondario, i temi sono altri: sociali, economici o l’incomunicabilità, così come li ha trattati Antonioni.

Nuova reply all'argomento:

Monicelli, la vita e il cinema

Login




Registrati
Mi so scurdate la password
 
Hai problemi ad effettuare il login?
segui le istruzioni qui

© 2024 Lanciano.it network (Beta - Privacy & Cookies)