Cultura & Attualità
giappone
Messaggio del 17-03-2011 alle ore 13:13:06
il link non va
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Messaggio del 17-03-2011 alle ore 13:03:58
[url=http://www.repubblica.it/economia/2011/03/16/news/il_sisma_giapponese_mette_in_crisi_l_industria_mondiale_dell_hi-tech-13694350/?ref=HRER3-1]questi pensano a salvà l'hi-tech[/url]
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Editato da El Treble il 17/03/2011 alle 13:10:20
[url=http://www.repubblica.it/economia/2011/03/16/news/il_sisma_giapponese_mette_in_crisi_l_industria_mondiale_dell_hi-tech-13694350/?ref=HRER3-1]questi pensano a salvà l'hi-tech[/url]
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Editato da El Treble il 17/03/2011 alle 13:10:20
Messaggio del 17-03-2011 alle ore 12:35:53
REPORTAGE DALLA TRAGEDIA
Oltre il dolore nell'inferno di Minamisoma
"Ma adesso dobbiamo ricominciare"
Viaggio nella parte più colpita del Paese. Dove non si possono neppure sepellire i morti e il cibo scarseggia. La battaglia di Teroyoshi, unico superstite del suo municipio: "Abbiamo bisogno di foze fresche che diano una mano". Il dramma di Tomuko e dei suoi bambini
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI
Oltre il dolore nell'inferno di Minamisoma "Ma adesso dobbiamo ricominciare"
MINAMISOMA (GIAPPONE) - Sulla spiaggia nera di Minamisoma, fuochi rossi sciolgono un velo di neve bianca, scesa a coprire lo scempio dello tsunami. Si alzano colonne di fumo grigio, ma non sono più il segnale di navi e case che ardono nel fango. I sopravvissuti certi della città, poco più della metà tra i 75 mila abitanti, questa mattina si sono rassegnati. Bruciano i cadaveri dei loro cari e di sconosciuti, usando gli infissi degli edifici distrutti.
Ci vorrebbero permessi speciali, ma la polizia guarda le pire e non disturba centinaia di persone che sfilano davanti ai fuochi, inchinandosi e inginocchiandosi. In gran parte delle prefetture di Fukushima, Miyagi e Iwate, travolte dall'onda, continuano a mancare l'energia elettrica, il carburante, il gas e l'acqua. Non funzionano i forni crematori, non si trovano bare per decine di migliaia di salme che riaffiorano dal pantano, dall'oceano e dalle città costiere scomparse. Manca il ghiaccio per conservare le salme e non si sa dove scavare cimiteri.
E' un funerale che il Giappone celebra contro se stesso, ma anche un rito che stabilisce un confine ideale a quanto accaduto, a cui la popolazione di affida per ricominciare a pensare ai giorni che irremovibili l'attendono. Ora sono il gelo e la fame, assieme allo spettro del vento atomico, a decimare chi venerdì s'era sorpreso di essere sopravvissuto. Città e villaggi affacciati sul Pacifico, nella regione di Tohoku, sono isolati e paralizzati dal gelo. Le strade che dall'interno scendono verso
il mare restano interrotte da frane, fratture nell'asfalto, improvvise cascate color legno e montagne di macerie.
La notte è scesa quattro gradi sotto lo zero e anche di giorno fiocchi fradici cadono sulla massa di senzatetto che vaga tra i detriti, in cerca di persone e di cibo. A Rikuzen-Takata migliaia di persone sono in fuga. Hanno lasciato la scuola, trasformata in centro d'accoglienza, e si sono messe in marcia a piedi, non si sa verso dove. Gli uomini portano bambini e vecchi sulle spalle, avvolti nelle coperte e protetti da teli azzurri. Le donne reggono borse di nylon in cui hanno infilato i residui beni di famiglia. Scappano dalla città distrutta perché sono convinti che se non si muovono, moriranno. Nel centro il riscaldamento non funziona, manca kerosene per le stufe, la luce è saltata. Dopo i primi due giorni le razioni alimentari si sono esaurite. I ricoverati hanno diviso per dieci la dose per uno e hanno smesso quasi di bere. Nella notte però due anziani, corrosi dall'umidità gelida degli indumenti inzuppati di melma, sono morti di polmonite. Molti manifestano il torpore che precede un raffreddamento profondo dell'organismo e sentono mani e piedi di ghiaccio.
La colonna dei fuggitivi incrocia quella dei soccorritori inviati da Tokyo, ma non si ferma. "Portateci via da qui", gridano i maschi e la loro richiesta suona come un atto di accusa contro la misteriosa lentezza degli aiuti. Gli evacuati del Nordest temono che la neve e la pioggia riversino su di loro le particelle radioattive emesse da Fukushima e chiedono di essere messi in salvo in regioni sicure e lontane. Pretendono che i militari distribuiscano pillole di iodio e che misurino la radioattività delle persone. Montano una rabbia e una protesta inattese. Il dolore, le privazioni e il terrore stanno facendo perdere la testa a chi confidava di poter superare lo shock. Basta una folata di vento che innesca un crollo, o l'ennesima scossa di terremoto, perché gli individui snervati sobbalzino e cedano ai gemiti. E' difficile da credere, ma nel Paese dotato di 55 centrali nucleari e centinaia di impianti petrolchimici, nella nazione che ha costruito il proprio successo sull'avanguardia dell'energia e della tecnologia, i soccorsi ai sopravvissuti dell'11 marzo naufragano per mancanza di combustibile e mezzi capaci di avanzare tra gli eccessivi detriti del progresso. E nel Giappone che trabocca di merce, ai profughi dell'Honshu dopo cinque giorni manca un pezzo di pane e una maglietta asciutta.
Infrangere le regole collettive qui non rientra nelle scelte considerabili. Ma oggi, a Ishinomaki, sono iniziati i saccheggi di negozi e rovine. Un terzo della città, 160 mila abitanti, resta sepolta da una laguna nuova. Migliaia di sopravvissuti si aggirano tra le rovine non allagate in cerca di provviste, di scarpe e di coperte. Sanno che entrare dalla finestra di un negozio rovesciato e uscire con due succhi di frutta e un pacco di biscotti, è una vergogna. Prevale però infine la rassegnazione a sopravvivere e i furti non vengono denunciati. "Non eravamo pronti all'inferno - dice Tomonao Matsuo, capo di una squadra di pompieri inviati da Yamagata - e la sua dimensione ci ha travolto. Affrontare contemporaneamente un terremoto, uno tsunami, un'emergenza nucleare, decine di migliaia di morti, 600 mila sfollati e un'intera regione rasa al suolo, è una prova ai limiti delle possibilità per qualsiasi nazione".
Nei centri di accoglienza gli sfollati ascoltano in silenzio la radio che trasmette il messaggio dell'imperatore. Nessuno commenta, ma le persone si guardano attorno ed è evidente che riflettono. Centinaia di bambini, a Ofunato, sono stesi sotto teloni per evitare possibili contaminazioni aeree. Da lunedì i camion con le razioni alimentari non sono più arrivati. La popolazione teme che l'acqua distribuita dalle autobotti sia pericolosa e per ottenere una bottiglietta chiusa da mezzo litro, s'è formata una coda di un chilometro. I soli a muoversi senza timore sono i vecchi. "Spero che Fukushima - dice Yuko Ota - faccia il suo lavoro in fretta. Ho perso figli e nipoti, sono sola. Se non provvede la centrale farò da me". Solo a Sendai, Kesennuma e nelle altre città più grandi, i soccorsi si iniziano a sentire. Un tratto della pista dell'aeroporto di Notori viene sgomberata dalle carcasse per consentire l'atterraggio dell'esercito e il decollo di voli carichi di feriti. I cani da catastrofe corrono e si infilano in deserti di strutture aggrovigliate, ma recuperano solo persone sedute su un pezzo di scala, o su una credenza, trasformate nelle steli di tombe di famiglia. Si dice che a Sendai siano stati salvati 25 mila abitanti e che migliaia, residenti nei quartieri verso il mare, siano stati sparsi negli ospedali di tutto il Giappone. Gli evacuati però dubitano ed elencano a memoria i nomi di decine di villaggi della prefettura ancora inaccessibili e isolati, dove nessuno risponde.
Nelle poste di Shiogama, adattate a obitorio, i cadaveri superano il numero dei residenti. La corrente dell'oceano e la violenza del fango hanno spostato le vittime di decine di chilometri e nessuno è in grado di capire da dove provenga la massa dei corpi. "Se entro domani 600 mila vivi non riceveranno l'indispensabile per resistere - dice Setsuko Otake, sindaco di Tagajo - il mondo riceverà addosso un carico di morti superiore a quello minacciato dalla centrale di Fukushima". Sono parole eccessive, dettate dallo sconforto, ma nelle zone devastate la situazione peggiora di ora in ora e non si sa chi si è assunto la responsabilità degli aiuti. A Otsuchicho, nella prefettura di Iwate, settanta individui sono stati recuperati ieri pomeriggio da un gruppo di pescatori. Da venerdì erano nascosti in un peschereccio da tonni rovesciato, alla deriva sulla risacca. Gli elicotteri americani hanno sorvolato più volte la barca, che perdeva carburante e bruciava. Martedì, prossimi al recupero dei naufraghi, sono stati richiamati per il rischio delle radiazioni.
Sul peschereccio c'era Tomuko Shida, madre di due figli. "Erano feriti - dice - e semiassiderati. Quello di nove anni è morto martedì alle 9.30, la più piccola all'1 di notte del mercoledì. Ho raccontato storie, la mia vita, dicevo che ci stavano venendo a prendere. Invece non c'era nessuno". La donna dice di non essersi uccisa perché "ho un'altra figlia che ha bisogno di me". Ieri sera il nome della bambina è stato trovato sulla lista delle vittime.
Che il Giappone sia scosso da un inaffrontabile disastro, è che stia manifestando una straordinaria compostezza nel cimentarsi con esso, è un fatto evidente. Sarebbe fatale però ignorare che mentre la comunità internazionale si affanna a stimare conseguenze finanziarie e alternative energetiche, decine di migliaia di essere umani qui sono esposti alla durezza concreta degli elementi e continuano a morire per l'insufficienza dei soccorsi. Sopra quanto resta di Chiba decine di uomini infilano lunghi pali per sondare la palude e da venerdì non smettono di gridare i nomi di famigliari e amici. Trecento chilometri di costa erano un giardino di risaie, coltivazioni di mele e frutti di bosco. C'erano allevamenti e mercati da cui partiva pesce per tutto il pianeta.
L'opera di generazioni è annientata, per anni nessuno acquisterà più alimenti giapponesi e i superstiti si dicono certi che ricominciare sarà impossibile. "Ma compagnie aeree e governi stranieri - dice Teroyoshi Aihama, unico superstite nel municipio di Yamamoto - si affrettano a cancellare voli e richiamare i connazionali. Non abbiamo bisogno di fughe, ma di gente riposata che venga a dare una mano". La scelta è stata di non pensare ai morti e ai dispersi per occuparsi dei feriti e degli scampati. Ma l'errata certezza che nelle prefetture remote la maggioranza si fosse salvata, avvertita dall'allarme tsunami lanciato dalla tivù, ha indotto le autorità ad occuparsi prima dei disagi al traffico di Tokyo e delle irritazioni delle cancellerie occidentali, piuttosto che di qualche milione di periferici individui non decisivi.
Così oggi nello spaccio di Kamaishi si vendono solo vecchie bottiglie di vodka, manca il latte per i neonati, gli ospedali non hanno medicine, né elettricità, 22 mila persone si dividono 6 mila palle di riso e 5 mila bottiglie d'acqua. Non è un salvifico ritorno alla frugalità del dopoguerra, ma la resa ai premi delle assicurazioni e una sorprendente retrocessione del coraggio e dell'onore. I seicentomila sopravvissuti all'11 marzo del Giappone sanno che ormai chi non risponde non è più qui, ma sperano che da oggi il mondo la smetta di inviare cordoglio e si decida a fare qualcosa. Lungo i tornanti della statale 115 che da Soma scende verso Fukushima, Yuto Hayasaka cammina spedito. E' un buio totale e regge sulle braccia protese un sacco con il figlio morto. Lo riporta a casa, a Sukagawa. Non pensa ai reattori della vicina centrale. "Bisogna pur iniziare - dice - a rimettere ogni cosa al suo posto".
(17 marzo 2011)
me teng a cuminzà a preoccupà seriamente
REPORTAGE DALLA TRAGEDIA
Oltre il dolore nell'inferno di Minamisoma
"Ma adesso dobbiamo ricominciare"
Viaggio nella parte più colpita del Paese. Dove non si possono neppure sepellire i morti e il cibo scarseggia. La battaglia di Teroyoshi, unico superstite del suo municipio: "Abbiamo bisogno di foze fresche che diano una mano". Il dramma di Tomuko e dei suoi bambini
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI
Oltre il dolore nell'inferno di Minamisoma "Ma adesso dobbiamo ricominciare"
MINAMISOMA (GIAPPONE) - Sulla spiaggia nera di Minamisoma, fuochi rossi sciolgono un velo di neve bianca, scesa a coprire lo scempio dello tsunami. Si alzano colonne di fumo grigio, ma non sono più il segnale di navi e case che ardono nel fango. I sopravvissuti certi della città, poco più della metà tra i 75 mila abitanti, questa mattina si sono rassegnati. Bruciano i cadaveri dei loro cari e di sconosciuti, usando gli infissi degli edifici distrutti.
Ci vorrebbero permessi speciali, ma la polizia guarda le pire e non disturba centinaia di persone che sfilano davanti ai fuochi, inchinandosi e inginocchiandosi. In gran parte delle prefetture di Fukushima, Miyagi e Iwate, travolte dall'onda, continuano a mancare l'energia elettrica, il carburante, il gas e l'acqua. Non funzionano i forni crematori, non si trovano bare per decine di migliaia di salme che riaffiorano dal pantano, dall'oceano e dalle città costiere scomparse. Manca il ghiaccio per conservare le salme e non si sa dove scavare cimiteri.
E' un funerale che il Giappone celebra contro se stesso, ma anche un rito che stabilisce un confine ideale a quanto accaduto, a cui la popolazione di affida per ricominciare a pensare ai giorni che irremovibili l'attendono. Ora sono il gelo e la fame, assieme allo spettro del vento atomico, a decimare chi venerdì s'era sorpreso di essere sopravvissuto. Città e villaggi affacciati sul Pacifico, nella regione di Tohoku, sono isolati e paralizzati dal gelo. Le strade che dall'interno scendono verso
il mare restano interrotte da frane, fratture nell'asfalto, improvvise cascate color legno e montagne di macerie.
La notte è scesa quattro gradi sotto lo zero e anche di giorno fiocchi fradici cadono sulla massa di senzatetto che vaga tra i detriti, in cerca di persone e di cibo. A Rikuzen-Takata migliaia di persone sono in fuga. Hanno lasciato la scuola, trasformata in centro d'accoglienza, e si sono messe in marcia a piedi, non si sa verso dove. Gli uomini portano bambini e vecchi sulle spalle, avvolti nelle coperte e protetti da teli azzurri. Le donne reggono borse di nylon in cui hanno infilato i residui beni di famiglia. Scappano dalla città distrutta perché sono convinti che se non si muovono, moriranno. Nel centro il riscaldamento non funziona, manca kerosene per le stufe, la luce è saltata. Dopo i primi due giorni le razioni alimentari si sono esaurite. I ricoverati hanno diviso per dieci la dose per uno e hanno smesso quasi di bere. Nella notte però due anziani, corrosi dall'umidità gelida degli indumenti inzuppati di melma, sono morti di polmonite. Molti manifestano il torpore che precede un raffreddamento profondo dell'organismo e sentono mani e piedi di ghiaccio.
La colonna dei fuggitivi incrocia quella dei soccorritori inviati da Tokyo, ma non si ferma. "Portateci via da qui", gridano i maschi e la loro richiesta suona come un atto di accusa contro la misteriosa lentezza degli aiuti. Gli evacuati del Nordest temono che la neve e la pioggia riversino su di loro le particelle radioattive emesse da Fukushima e chiedono di essere messi in salvo in regioni sicure e lontane. Pretendono che i militari distribuiscano pillole di iodio e che misurino la radioattività delle persone. Montano una rabbia e una protesta inattese. Il dolore, le privazioni e il terrore stanno facendo perdere la testa a chi confidava di poter superare lo shock. Basta una folata di vento che innesca un crollo, o l'ennesima scossa di terremoto, perché gli individui snervati sobbalzino e cedano ai gemiti. E' difficile da credere, ma nel Paese dotato di 55 centrali nucleari e centinaia di impianti petrolchimici, nella nazione che ha costruito il proprio successo sull'avanguardia dell'energia e della tecnologia, i soccorsi ai sopravvissuti dell'11 marzo naufragano per mancanza di combustibile e mezzi capaci di avanzare tra gli eccessivi detriti del progresso. E nel Giappone che trabocca di merce, ai profughi dell'Honshu dopo cinque giorni manca un pezzo di pane e una maglietta asciutta.
Infrangere le regole collettive qui non rientra nelle scelte considerabili. Ma oggi, a Ishinomaki, sono iniziati i saccheggi di negozi e rovine. Un terzo della città, 160 mila abitanti, resta sepolta da una laguna nuova. Migliaia di sopravvissuti si aggirano tra le rovine non allagate in cerca di provviste, di scarpe e di coperte. Sanno che entrare dalla finestra di un negozio rovesciato e uscire con due succhi di frutta e un pacco di biscotti, è una vergogna. Prevale però infine la rassegnazione a sopravvivere e i furti non vengono denunciati. "Non eravamo pronti all'inferno - dice Tomonao Matsuo, capo di una squadra di pompieri inviati da Yamagata - e la sua dimensione ci ha travolto. Affrontare contemporaneamente un terremoto, uno tsunami, un'emergenza nucleare, decine di migliaia di morti, 600 mila sfollati e un'intera regione rasa al suolo, è una prova ai limiti delle possibilità per qualsiasi nazione".
Nei centri di accoglienza gli sfollati ascoltano in silenzio la radio che trasmette il messaggio dell'imperatore. Nessuno commenta, ma le persone si guardano attorno ed è evidente che riflettono. Centinaia di bambini, a Ofunato, sono stesi sotto teloni per evitare possibili contaminazioni aeree. Da lunedì i camion con le razioni alimentari non sono più arrivati. La popolazione teme che l'acqua distribuita dalle autobotti sia pericolosa e per ottenere una bottiglietta chiusa da mezzo litro, s'è formata una coda di un chilometro. I soli a muoversi senza timore sono i vecchi. "Spero che Fukushima - dice Yuko Ota - faccia il suo lavoro in fretta. Ho perso figli e nipoti, sono sola. Se non provvede la centrale farò da me". Solo a Sendai, Kesennuma e nelle altre città più grandi, i soccorsi si iniziano a sentire. Un tratto della pista dell'aeroporto di Notori viene sgomberata dalle carcasse per consentire l'atterraggio dell'esercito e il decollo di voli carichi di feriti. I cani da catastrofe corrono e si infilano in deserti di strutture aggrovigliate, ma recuperano solo persone sedute su un pezzo di scala, o su una credenza, trasformate nelle steli di tombe di famiglia. Si dice che a Sendai siano stati salvati 25 mila abitanti e che migliaia, residenti nei quartieri verso il mare, siano stati sparsi negli ospedali di tutto il Giappone. Gli evacuati però dubitano ed elencano a memoria i nomi di decine di villaggi della prefettura ancora inaccessibili e isolati, dove nessuno risponde.
Nelle poste di Shiogama, adattate a obitorio, i cadaveri superano il numero dei residenti. La corrente dell'oceano e la violenza del fango hanno spostato le vittime di decine di chilometri e nessuno è in grado di capire da dove provenga la massa dei corpi. "Se entro domani 600 mila vivi non riceveranno l'indispensabile per resistere - dice Setsuko Otake, sindaco di Tagajo - il mondo riceverà addosso un carico di morti superiore a quello minacciato dalla centrale di Fukushima". Sono parole eccessive, dettate dallo sconforto, ma nelle zone devastate la situazione peggiora di ora in ora e non si sa chi si è assunto la responsabilità degli aiuti. A Otsuchicho, nella prefettura di Iwate, settanta individui sono stati recuperati ieri pomeriggio da un gruppo di pescatori. Da venerdì erano nascosti in un peschereccio da tonni rovesciato, alla deriva sulla risacca. Gli elicotteri americani hanno sorvolato più volte la barca, che perdeva carburante e bruciava. Martedì, prossimi al recupero dei naufraghi, sono stati richiamati per il rischio delle radiazioni.
Sul peschereccio c'era Tomuko Shida, madre di due figli. "Erano feriti - dice - e semiassiderati. Quello di nove anni è morto martedì alle 9.30, la più piccola all'1 di notte del mercoledì. Ho raccontato storie, la mia vita, dicevo che ci stavano venendo a prendere. Invece non c'era nessuno". La donna dice di non essersi uccisa perché "ho un'altra figlia che ha bisogno di me". Ieri sera il nome della bambina è stato trovato sulla lista delle vittime.
Che il Giappone sia scosso da un inaffrontabile disastro, è che stia manifestando una straordinaria compostezza nel cimentarsi con esso, è un fatto evidente. Sarebbe fatale però ignorare che mentre la comunità internazionale si affanna a stimare conseguenze finanziarie e alternative energetiche, decine di migliaia di essere umani qui sono esposti alla durezza concreta degli elementi e continuano a morire per l'insufficienza dei soccorsi. Sopra quanto resta di Chiba decine di uomini infilano lunghi pali per sondare la palude e da venerdì non smettono di gridare i nomi di famigliari e amici. Trecento chilometri di costa erano un giardino di risaie, coltivazioni di mele e frutti di bosco. C'erano allevamenti e mercati da cui partiva pesce per tutto il pianeta.
L'opera di generazioni è annientata, per anni nessuno acquisterà più alimenti giapponesi e i superstiti si dicono certi che ricominciare sarà impossibile. "Ma compagnie aeree e governi stranieri - dice Teroyoshi Aihama, unico superstite nel municipio di Yamamoto - si affrettano a cancellare voli e richiamare i connazionali. Non abbiamo bisogno di fughe, ma di gente riposata che venga a dare una mano". La scelta è stata di non pensare ai morti e ai dispersi per occuparsi dei feriti e degli scampati. Ma l'errata certezza che nelle prefetture remote la maggioranza si fosse salvata, avvertita dall'allarme tsunami lanciato dalla tivù, ha indotto le autorità ad occuparsi prima dei disagi al traffico di Tokyo e delle irritazioni delle cancellerie occidentali, piuttosto che di qualche milione di periferici individui non decisivi.
Così oggi nello spaccio di Kamaishi si vendono solo vecchie bottiglie di vodka, manca il latte per i neonati, gli ospedali non hanno medicine, né elettricità, 22 mila persone si dividono 6 mila palle di riso e 5 mila bottiglie d'acqua. Non è un salvifico ritorno alla frugalità del dopoguerra, ma la resa ai premi delle assicurazioni e una sorprendente retrocessione del coraggio e dell'onore. I seicentomila sopravvissuti all'11 marzo del Giappone sanno che ormai chi non risponde non è più qui, ma sperano che da oggi il mondo la smetta di inviare cordoglio e si decida a fare qualcosa. Lungo i tornanti della statale 115 che da Soma scende verso Fukushima, Yuto Hayasaka cammina spedito. E' un buio totale e regge sulle braccia protese un sacco con il figlio morto. Lo riporta a casa, a Sukagawa. Non pensa ai reattori della vicina centrale. "Bisogna pur iniziare - dice - a rimettere ogni cosa al suo posto".
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