Cultura & Attualità

Il "fascino" di Greenpeace e WWF
Messaggio del 04-07-2011 alle ore 12:43:59

Nel 2000 il suo budget è stato di 34 milioni di dollari, provenienti dalle organizzazioni nazionali di Greenpeace.



Al mondo ci sta gente come Warren Buffett che li guadagna col tempo di una pisciata 'sti spicci
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 23:24:42


scusa c'ho provato ma non ce l'ho fatta a leggerlo tutto sarà che non mi piace la pizza al salmone...

cmq da quel che ho letto, mi pare di capire che greenpeace e wwf siano una sorta di "aziende" votate alla lotta di classe anticapitalista no global mascherata con le battaglie ecologiste ma del resto l'avevo già detto che i verdi sono come i cocomeri: verdi fuori e rossi dentro
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 13:13:11
...scì ma la pizza?
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 13:12:43
ok!
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 13:05:30


a dire il vero non volevo fare il provocatore

cmq oggi pomeriggio me lo leggo...
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 12:43:27

non puoi farci un sunto?



lo so che sei un provocatore, ma è preferibile leggere. non hai 10 minuti? vai a marco prenditi una pizza al salmone, torna a casa e te la mangi mentre leggi questo articolo. è una buona idea, no?
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 12:24:39
In estrema sintesi si sostiene si sostiene che Greenpeace, WWF (e lascia presumere anche altre agenzie) che a vario "titolo" la stampa o l'opinione comune dice essere "ecologista" è presieduta o gestita da alcuni uomini che fanno i loro interessi, che a volte sono moralmente in contrasto con quanto dovrebbero rappresentare (ovvero inquinano o sono corrotti) o hanno idee o convinzioni come il controllo demografico o la presunta futura carenza dell'acqua assolutamente, secondo i dati pubblicati su, errati o cmq enormemente esagerati.
E' uguale e contrario a quegli psicopseudodocumenti con cui solitamente si attacca la Chiesa sottolineando la presunta o reale inadeguatezza di alcuni componenti per estenderla poi a tutta la categoria.
Molte delle cose raccontate sono parzialmente contraddittorie oppure vecchie di decenni o ancora semplicemente vere ma episodiche...
Messaggio del 03-07-2011 alle ore 11:22:34


non puoi farci un sunto?
Messaggio del 02-07-2011 alle ore 17:20:26
LO SO CHE IL TESTO E' UN PO' LUNGHETTO, MA GLI SPIRITI LIBERI SE LO LEGGERANNO DAL PRIMO ALL'ULTIMO RIGO... GLI ALTRI INVECE OZIERANNO.

Greenpeace,
la multinazionale dell’ambientalismo


«Greenpeace si presenta come un’associazione per la difesa dell’ambiente, in verità è una multinazionale che cerca potere politico e denaro.» [1] Così disse alla rivista brasiliana «Veja» il giornalista islandese Magnus Gudmundsson.
Patrick Moore, membro fondatore e direttore per 15 anni di Greenpeace, ha raccontato al «Sole 24 Ore»: «Oggi gran parte dei leader verdi sono in realtà attivisti politici che si servono della retorica ambientalista per promuovere iniziative che hanno molto più a che fare con la lotta di classe e con l’anti-globalizzazione che con l’ecologia e la scienza» [2].
Kalle Hestvedt, portavoce di Greenpeace, ha detto al quotidiano norvegese «Verdens Gang»: «La verità è che questioni ambientali per le quali ci siamo battuti negli ultimi dieci anni sono ormai risolte. Nonostante ciò, la strategia continua a basarsi sul presupposto che tutto sta andando in malora» [3].
In effetti Greenpeace è un’organizzazione ambientalista caratteristiche particolari. Più che dedicarsi a programmi sviluppo per far crescere boschi o a salvaguardare specie in via di estinzione, è nota per gli assalti alle navi, per le manifestazioni contro l’industria chimica, per gli attacchi alle piantagioni biotech, per le tecniche spettacolari e aggressive utilizzate contro imprese che sarebbero la causa di “inquinamento”. Slogan duri, campagne pubblicitarie vaste e diffuse, una grande capacità di apparire sui mezzi di Comunicazione di massa, azioni dimostrative e un organizzatissimo ufficio stampa, questa è la forza di Greenpeace. Sulla base di questa capacità di “fare notizia” Greenpeace ha costruito un vero e proprio impero finanziario con decine di sedi e milioni di dollari.

L’impero finanziario di Greenpeace
Greenpeace International ha sede ad Amsterdam ed è la più grande organizzazione dell’universo di Greenpeace. Nel 2000 il suo budget è stato di 34 milioni di dollari, provenienti dalle organizzazioni nazionali di Greenpeace. I campi d’interesse di Greenpeace International vanno dal cambiamento climatico agli oceani, dall’ingegneria genetica al disarmo nucleare. Gli uffici nazionali di Greenpeace sono circa quaranta, distribuiti in tutto il mondo. Alcuni sono entità indipendenti, altri, invece, sono satelliti di Greenpeace International. Nel 2000 il budget totale di tutte le organizzazioni Greenpeace, incluso la International, è stato di 143 milioni di dollari [4].
Negli USA le entità principali e indipendenti sono Greenpeace, Inc. e Greenpeace Fund, Inc. Entrambe sono organizzazioni no-profit ma con differente profilo. La legge statunitense prevede due tipi di no-profit, designati come 501 (c) (3) e 501 (c) (4). La principale differenza tra i due è che nel primo caso i benefattori possono dedurre dalle tasse i contributi, ma questi ultimi possono essere impiegati dall’associazione solo per attività educative, caritative, religiose e altre, ma mai per intraprendere azioni legali o partecipare a campagne pro o contro candidati politici. Per contro le organizzazioni di tipo 501 (c) (4) hanno possibilità di utilizzare i fondi per scopi più ampi, inclusi quelli non consentiti alle 501 (c) (3), ma i contributi non sono deducibili: questo rende più difficile il reperimento di fondi.
Greenpeace Fund, Inc. è un’organizzazione 501 (c) (3), mentre Greenpeace, Inc. è 501 (c) (4). Nel 2000, ultimo anno di cui sono disponibili i bilanci, Greenpeace Fund, Inc ha raccolto 9 milioni di dollari e ne ha passati 4,3 a Greenpeace, Inc , 3,7 a Greenpeace International e i restanti 0,8 a organizzazioni Greenpeace di alcuni altri paesi Greenpeace, Inc ha il suo quartier generale a Washington, D C, ma è stata fondata in California e, quindi, è soggetta alla legislazione di quello stato m materia fiscale. La sua attività, più ampia di quella di Greenpeace Fund, Inc., è quasi esclusivamente di campagne di pressione verso compagnie o governi per modificare procedure o politiche. Molte azioni poste in atto dagli attivisti, inoltre, sono contrarie alle leggi vigenti: parecchi attivisti sono già stati arrestati nel mondo e qualcuno ha sostenuto le loro spese legali. Per scopi pubblici essa utilizza il nome di Greenpeace USA. Essa è finanziata in modo significativo da Greenpeace Fund, Inc. che può raccogliere contributi fiscalmente deducibili. Nel 1999 le sue entrate sono state pari a 14,2 milioni di dollari di cui il 30% da Greenpeace Fund, Inc.
Greenpeace Fund, Inc. ha la sua principale sfera d’azione nel raccogliere fondi da destinare ad altre Greenpeace e non svolge attività in proprio.
Nel panorama statunitense merita un cenno anche Greenpeace Foundation, Inc. Si tratta di una delle prime organizzazioni Greenpeace, con base nelle Hawaii. Essa è in aperto contrasto con Greenpeace USA e Greenpeace International. A esse rimprovera spregiudicatezza nella raccolta dei fondi, antiamericanismo e insufficiente devozione alla causa della difesa degli animali. È una organizzazione di tipo 501 (c) (3) e non spende più di 250.000 dollari all’anno.
Il fatto che Greenpeace Fund, Inc. si occupi esclusivamente di raccolta di fondi deducibili e della loro successiva distribuzione a organizzazioni collegate ma con diverso regime fiscale è alla base di molti dubbi e sospetti, anche perché non si capisce il motivo dell’esistenza di organizzazioni a diverso statuto per uno scopo apparentemente unico, come l’assenta tutela dell’ambiente.

Gestione antidemocratica
Un articolo apparso sul settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva già svelato alcuni retroscena riguardanti l’organizzazione interna di Greenpeace. Ha scritto «Der Spiegel»: «Greenpeace è la più ricca organizzazione ecologista del mondo. La multinazionale dell’ambientalismo ha 40 filiali in 25 paesi e dichiara 200 milioni di dollari di introiti l’anno. Iniziano però a sorgere problemi di identità, gli attivisti sono depressi, divisi, lamentano la mancanza di una democrazia di base. L’oligarchia di Greenpeace decide e amministra sopra le teste del popolo verde. Milioni che vanno, milioni che vengono, e i percorsi sono poco chiari. Sotto accusa è una fitta rete di società controllate al 100% da Greenpeace in Germania che permetterebbe alla holding ecopacifista di mantenere il proprio status di organizzazione senza scopo di lucro e di conseguenza di beneficiare di esenzioni fiscali. Dischi, libri, capi di abbigliamento, casalinghi, una lista di 150 articoli “ecologici”; così Greenpeace mantiene in Germania un giro di 10 milioni di marchi, denari che non compaiono in bilancio» [5]. Le accuse mosse da «Der Spiegel» riguardano anche la struttura interna di Greenpeace: «La base non ha alcun potere sull’amministrazione delle risorse e sulla definizione degli obiettivi. Il potere è tutto nelle mani di 12 grandi elettori - “l’assemblea internazionale di Greenpeace” - della quale fanno parte i delegati fiduciari, i trustees di ogni paese, è l’organismo che decide la politica generale, cioè le campagne da promuovere a livello mondiale. Su 25 delegati solo 12 hanno diritto di voto, quelli dei paesi i cui uffici sono abbastanza forti da permettersi di versare a Greenpeace International almeno il 24% del proprio bilancio annuo. Sono i ricchi che decidono. In Germania su 700.000 iscritti solo 30 hanno potere decisionale, una rappresentanza dello 0,0004%».

Dirigenti cacciati
Secondo un dossier su Greenpeace pubblicato in Italia da «Studi Cattolici», Ute Bellion, ex presidente di Greenpeace, sulle colonne di «Greenpeace magazine» ha scritto: «I simpatizzanti di Greenpeace non possono partecipare al voto. Noi proponiamo loro di sorvegliare il nostro lavoro e di esprimere la loro adesione sostenendoci finanziariamente» [6] e Frans Kotter, anziano contabile di Greenpeace Olanda, avrebbe dichiarato: «I direttori non amano l’influenza dei membri. Quest’ultimi ci sono solo per pagare e tacere».
Bjorn Okern, ex direttore di Greenpeace in Norvegia, avrebbe dichiarato: «Se uno crede che in Greenpeace vi sia democrazia farebbe meglio a prendere il vocabolario per sapere il significato del termine. In Greenpeace non può esservi democrazia. È una struttura piramidale, dove tutto è deciso al vertice, proprio come in un sistema militare». Bjorn Okern, ha diretto Greenpeace Norvegia per due anni, dopodiché nel 1993 fu allontanato perché voleva discutere pubblicamente i metodi di gestione interna. Ha raccontato la sua esperienza in un libro (Potenza senza responsabilità), dove definisce Greenpeace come un movimento «ecofascista più preoccupato dei soldi che dell’ambiente». In una intervista rilasciata a «Reclaiming Paradise», Okern ha ribadito: «Chiunque pensi che i soldi di Greenpeace siano utilizzati per l’ambiente, sbaglia. Viaggiano in prima classe, mangiano nei migliori ristoranti e fanno la bella vita del jet-set ecologista (...); il motivo principale per cui danno importanza alle balene è perché ci si fanno i soldi» [7].

Canada: Greenpeace non è un’associazione caritativa
Nel 1999 il governo canadese ha negato a Greenpeace lo stato di “opera caritativa” (corrispondente al nostro “associazione senza scopo di lucro”) che la multinazionale verde aveva richiesto per facilitare la raccolta di fondi tra i cittadini. L’ufficio delle tasse Revenue Canada che si occupa delle concessioni ha dichiarato che «le attività di Greenpeace non hanno un beneficio pubblico» [8], anzi le campagne condotte dall’organizzazione ecologista per mettere fine a diverse attività industriali potrebbero impoverire la gente. Greenpeace, che in Canada - a Vancouver - è nata, fu registrata come “opera caritativa” nel 1976 e nell’anno successivo allargò le sue attività in molti paesi del mondo riuscendo a raccogliere decine di milioni di dollari per le sue campagne. Nel 1989 Greenpeace perse lo stato di “opera caritativa” perché non produceva alcun beneficio per la popolazione. Questo impediva a Greenpeace di garantire l’esenzione delle tasse per i fondi che raccoglieva.
Per aggirare la legge, Greenpeace fondò un altro gruppo separato con l’idea di registrano come “opera caritativa”, nonostante le autorità federali giudicarono che le attività della nuova organizzazione non erano previste dalla legge. In particolare, il governo segnalò la grande quantità di denaro che il gruppo del Canada inviava all’ufficio internazionale di Greenpeace.
La legge canadese non permette che le opere caritative funzionino come agenti per altri gruppi nella raccolta di fondi. Come conseguenza Greenpeace perse di nuovo lo stato di opera caritativa nel 1995 e perse pure l’appello nel 1998. Per aggirare di nuovo la legge i dirigenti di Greenpeace hanno fondato una nuova entità Greenpeace Environmental Foundation come mezzo per conseguire la registrazione di opera caritativa. Il governo ha negato la registrazione spiegando che quella di Greenpeace è stata un’operazione per aggirare le sentenze negative precedenti. Greenpeace ha di nuovo presentato appello e lo ha perso. In questa ultima sentenza Revenue Canada ha spiegato che, seppure la difesa dell’ambiente può essere considerata un’attività caritativa, Greenpeace non può rientrare ma questa registrazione perché i suoi obiettivi e le sue campagne sono finalizzati al cambiamento dell’opinione pubblica e non alla difesa dell’ambiente.
Un portavoce del Governo ha commentato che la maniera con cui Greenpeace dice di difendere l’ambiente crea dei problemi, visto che la diffusione della propaganda non ha alcun effetto migliorativo dell’ambiente. La decisione del governo canadese ha reso la vita difficile per Greenpeace, considerando che già nel 1997 le donazioni complessive erano diminuite del 15% e nel 1998 l’associazione ambientalista non ha pubblicato il bilancio.

Parla un dirigente pentito
Con un lungo articolo pubblicato da «Il Sole 24 Ore», Patrick Moore, membro fondatore e direttore per 15 anni di Greenpeace, ha spiegato che come dimostrato dai «disordini di Seattle, in occasione della conferenza del WTO, il movimento ambientalista si è trasformato nei fatti in un movimento protezionistico e antiscientifico che usa le questioni commerciali come arma contro le multinazionali e i governi. Gli ambienti più radicali hanno finito per confondere e fuorviare l’opinione pubblica servendosi di sensazionalismo, disinformazione e contraffazione» [9].
A dimostrazione delle sue tesi, Moore cita alcuni esempi riguardanti l’uso delle biotecnologie, il mancato utilizzo ambientale delle piattaforme petrolifere, le campagne per impedire il taglio degli alberi e le falsità diffuse in merito alla presenza di fitofarmaci negli alimenti [10].
Per quanto riguarda le biotecnologie, Moore ha affermato che «molti ambientalisti sono violentemente contrari all’uso delle biotecnologie sebbene non sia mai stato provato che queste possano pregiudicare la salute dell’uomo. Le preoccupazioni ecologiste riguardo agli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) sono però largamente controbilanciate dai benefici derivanti dall’aumento della produttività e dall’uso ridotto di fitofarmaci e fertilizzanti. Se da un lato è importante essere prudenti con qualsiasi nuova tecnologia, dall’altro bandire le biotecnologie sarebbe tanto stupido quanto decidere di fare a meno dei computer o delle medicine».
Circa la politica di impedire il taglio degli alberi, Moore ha spiegato che «il movimento ambientalista ha adottato una politica anti-silvicoltura raccontando all’opinione pubblica che si dovrebbero tagliare meno alberi e usare meno legno. Questa, in effetti, è in realtà una posizione antiambientalista perché logicamente incoerente con le politiche che apporterebbero risultati positivi sia per le trasformazioni climatiche sia per la conservazione della biodiversità. Una giusta politica ecologista sarebbe “pianta più alberi e usa più legno”. L’impiego sostenibile di maggiori quantità di legno - che è una riserva rinnovabile - nel settore dell’energia e dell’edilizia è la nostra arma più potente per ridurre le emissioni di CO2 derivanti dalla combustione dei carburanti fossili. Inoltre se aumentassimo l’area delle foreste attraverso il rimboschimento del territorio diboscato potremmo incrementare l’habitat disponibile per uccelli, mammiferi e altre specie».

Un movimento contro il razzismo contesta Greenpeace
«Africa yes, Greenpeace no»: questo lo slogan che si è levato contro Greenpeace a Jersey City (Stati Uniti) l’11 maggio 2003, al termine della Corsa per la vita, una pittoresca manifestazione sponsorizzata dalla multinazionale ambientalista, per denunciare i rischi insiti nel trattamento chimico delle piante. Durante la gara, corridori abbigliati nei modi più impensati hanno attraversato la città per simulare un’improvvisa frenetica fuga da pericolosi gas letali.
Alcuni esponenti del CORE (Congress of Racial Equality di New York), uno tra i primi gruppi di attivisti neri per i diritti civili, hanno però deciso di sfruttare l’occasione per contestare apertamente Greenpeace [11]. Così cinquanta di loro, alcuni vestiti con i tradizionali costumi africani, hanno atteso i corridori al traguardo e hanno accompagnato la loro premiazione scandendo slogan contro il movimento ambientalista, accusato di impedire lo sviluppo dei paesi poveri in Africa, come nel resto del mondo.
I manifestanti di CORE, si sono scagliati contro la politica di Greenpeace che, osteggiando l’introduzione di piante geneticamente modificate e lottando per l’abolizione su scala mondiale del DDT, di fatto impedisce all’Africa di sviluppare un’economia moderna. Nella provincia più colpita dalla malaria, il Kwa Zulu Natal, con la reintroduzione del DDT i casi
della malattia sono calati dell’80% [12].
Charles Würster, un ambientalista dirigente dell’Environmental Defence Fund, quando nel 1972 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA) stava discutendo di bandire il DDT, di fronte all’obiezione che tale divieto avrebbe provocato molte morti nei paesi poveri, disse: «E allora? La popolazione è la causa di tutti i problemi. Abbiamo troppa gente. Abbiamo bisogno di meno persone e questa è una buona strada...». Il portavoce nazionale di CORE, Niger Innis, ha sottolineato che bandire il DDT significa lasciare in balia di se stessi e totalmente inermi i Paesi afflitti dalla malaria. Innis ha dichiarato pubblicamente: «A volte ho la sensazione che a Greenpeace stia più a cuore la sorte dei virus che quella degli uomini».

WWF: una storia poco nobile

Presente in quaranta paesi, con cinque milioni dichiarati di sostenitori, ventisette uffici nazionali, ventiquattro uffici di programma [1], con un bilancio ufficiale che si aggira intorno ai 250 milioni di euro, il WWF (fondato come World Wildllife Fund, ha cambiato nome in World-Wide Fund for Nature) è la vera multinazionale dell’ambiente [2].
Lo scopo dichiarato del WWF è la conservazione della natura in tutte le sue forme: paesaggio, acqua, aria, suolo, flora e fauna su base mondiale e per questo scopo raccoglie somme di danaro che dovrebbe poi distribuire per progetti di difesa ambientale.
Eppure, nonostante il grande interesse per la vita selvatica, il WWF si è dedicato soprattutto a propagandare il contenimento della crescita demografica. Sir Julian Huxley, ricordato dalla nota associazione ambientalista come «una delle figure più importanti della storia del WWF», è stato membro del consiglio direttivo della Società per l’eutanasia nel 1940 e vicepresidente dell’Associazione per la riforma della legge sull’aborto dal 1969 al 1970. Ossessionato dalla crescita demografica che definiva come «il più grave dei problemi del nostro tempo», Huxley sosteneva la selezione delle nascite. Dal 1937 al 1944 egli ricoprì la carica di vicepresidente della Società Eugenetica britannica e nel 1961, quando fu tra i fondatori del WWF, Huxley era presidente della Società Eugenetica [3].
Per il WWF la crescita della popolazione è sempre stato il problema ambientale numero uno. In occasione del secondo Congresso Internazionale del WWF, tenutosi a Londra nel novembre 1970, l’allora presidente dell’organizzazione, principe Bernardo d’Olanda, inviò ai capi di governo di tutti i paesi del mondo il seguente messaggio: «L’annuale e continuo incremento della popolazione umana impedisce a un gran numero di persone dei paesi in via di sviluppo l’accesso a un decente livello di vita. Nei paesi già sviluppati, invece, questo incremento ostacola sempre più un miglioramento della qualità della vita, il risultato finale sarà la fine della vita umana se non di ogni forma di vita su questa terra. Per la sopravvivenza stessa della razza umana e del suo ambiente si richiede pertanto, urgentemente, che il suo governo prenda ogni provvedimento necessario a stabilizzare la popolazione il più presto possibile, utilizzando qualsiasi mezzo venga accettato dai suoi cittadini» [4].
Commentando la presa di posizione del principe Bernardo d’Olanda, Carlo Matteotti ha scritto su «Panda»: «La posta in gioco allora è troppo grave per poter fare concessioni alla demagogia. L’unica via di salvezza è davanti al nostro naso, se non ci ostiniamo a non volerla vedere: l’arresto del folle aumento demografico con tutti i mezzi a disposizione, ma soprattutto con una massiccia propaganda che scoraggi tanto la natalità che la nuzialità, sua causa più diretta; e una energica frenata del moderno, insensato e micidiale processo di industrializzazione irresponsabile».
La campagna in favore dei progetti di denatalità è così assidua e ostinata da far sorgere il dubbio che forse la propaganda in difesa dell’ambiente sia solo un pretesto per realizzare la crescita zero [5].
Nel 1976 il Club di Roma pubblicò il libro I limiti dello sviluppo, in cui si richiedeva la riduzione della crescita della popolazione nei paesi in via di sviluppo e una diminuzione drastica nei consumi e delle attività industriali nei paesi ricchi. A questo proposito Gianfranco Bologna, dirigente del WWF, ha raccontato che il Consiglio Nazionale del WWF riconobbe nel volume promosso dal Club di Roma un’analisi condivisibile della situazione planetaria e dei lineamenti di terapia contenuti nel testo [6]. Non è quindi un caso che il presidente del Club di Roma, Aurelio Peccei sia stato Consigliere mondiale del WWF e presidente del comitato d’onore del WWF Italia [7].
Nel 1991 lo stesso Gianfranco Bologna, nel presentare la posizione del WWF sulla crescita demografica, ha scritto [8]: «È necessario fare il possibile per ridurre ovunque il tasso di fertilità totale, cioè la media di figli per donna, in particolare nei paesi poveri. [...] Per ottenere ciò è indispensabile sostenere e finanziare gli investimenti internazionali relativi alla pianificazione familiare da estendere il più possibile sia alle donne sia agli uomini [...] La pianificazione demografica dovrebbe essere inclusa in tutti gli altri settori della pianificazione dello sviluppo, con la presenza di un servizio ad hoc specializzato in queste tematiche, presso i ministeri e i servizi che si occupano di aiuti allo sviluppo. Tali aiuti dovrebbero essere sistematicamente abbinati a programmi di assistenza denatalista [...] I programmi per la pianificazione demografica dovrebbero ricevere una maggiore assistenza internazionale. Le risorse destinate alla pianificazione familiare nei paesi poveri dovrebbero raddoppiare per raggiungere entro la fine del secolo 9 miliardi di dollari all’anno. [...] È indispensabile che le grandi fedi religiose - in particolare quella cattolica e quella islamica, che hanno ampia diffusione nei paesi poveri dove la crescita demografica è particolarmente sostenuta - riconsiderino con urgenza le loro posizioni contrarie all’utilizzo di sistemi di pianificazione familiare».
In che rapporto la riduzione delle nascite sia coerente con le campagne in difesa di alberi e animali lo ha precisato Fulco Pratesi, presidente del WWF, che ha scritto sull’argomento: «Serpeggia nel mondo occidentale una tentazione estremista. Quella cioè dichiarata da Earth First, associazione ecologista rivoluzionaria che antepone a ogni problema politico, economico e sociale l’obiettivo di salvare il pianeta.
Sono coloro che hanno inneggiato all’aids come fattore di limitazione della specie umana, considerata il “cancro della terra”, e che si battono contro ogni alterazione dell’ambiente, anche con azioni di sabotaggio e di ecoterrorismo. Io credo che non bisogna demonizzare questa tendenza, deviante ed eversiva ma profondamente radicata in chiunque ami autenticamente la natura e consideri Gaia sua vera e insostituibile madre. [...] Per concludere, esiste una forte necessità di una politica “verde” che combatta l’antropocentrismo, che non consideri l’uomo come il bene supremo dell’universo» [9].

L’umanità come nemico
Il presidente, ora emerito, del WWF, il principe Filippo di Edimburgo non ha mai nascosto le sue preoccupazioni nei confronti della crescita demografica. Nel corso di un’intervista con l’agenzia tedesca Deutsche Press Agentur ha detto: «Se mi dovessi reincarnare vorrei essere un virus letale, per eliminare la sovrappopolazione» [10] Quando il periodico americano «People», ha chiesto al principe Filippo qual era secondo il suo giudizio la peggiore minaccia alla salvaguardia dell’ambiente, il presidente del WWF ha risposto: «La crescita della popolazione umana è la più seria minaccia alla salvaguardia dell’ambiente» [11].
Coerente con il suo punto di vista, durante una presentazione tenuta a Londra di fronte al Comitato interpartitico per la Conservazione, il principe Filippo ha affermato: «Sospetto che il regalo più importante fatto dal progresso alla conservazione è stato lo sviluppo dei contraccettivi» [12].
Colpisce anche la bassa considerazione della vita umana da parte dei dirigenti del WWF. In un libricino dal titolo Ecologia domestica, Fulco Pratesi affronta il problema della morte sostenendo che il funerale, la cassa, e la sepoltura sono pratiche troppo inquinanti e per questo motivo propone due soluzioni: dare in pasto su appositi carnai i cadaveri ai rapaci che rischiano l’estinzione, oppure «creare apposite scatolette di cibo per cani e gatti in cui la carne umana sostituisca una percentuale di quella di altri animali» [13]. Non si tratta di un errore, avete letto bene: Pratesi propone di usare i cadaveri per fare scatolette per cani e gatti.

Ambientalisti e inquinatori
Quello che più colpisce di questa multinazionale dell’ambiente è che nel consiglio dei trustees che la governa a livello internazionale siedono potenti uomini d’affari, finanzieri, dirigenti di multinazionali, le cui attività economiche sono spesso messe sotto accusa dal WWF, e il cui comportamento privato sembra più orientato a difendere privilegi acquisiti per censo piuttosto che orientato alla salvaguardia dell’ambiente naturale.
Se il WWF sostiene di essere un’associazione per la conservazione dell’ambiente perché tanti e solo “uomini d’affari” nella sua direzione? A questa domanda una risposta l’ha fornita «Multinational Monitor», la rivista fondata da Ralph Nader, il leader delle associazioni dei consumatori americane, che ha pubblicato un’inchiesta da cui risulta che tre direttori e sette membri del Consiglio Nazionale del WWF, ricoprivano nel 1990 contemporaneamente la carica di direttori in dieci compagnie che comparivano in Toxic 500, l’elenco delle industrie più inquinanti del paese elaborato dal governo americano [14].
Tra i casi più scandalosi emerge quello di Russel Train. Cofondatore del WWF nel 1961 e presidente della sezione USA nel 1978, nel 1977 Train è stato nominato direttore per il settore ambiente, salute e sicurezza della Union Carbide [15]. Il 3 dicembre 1984 una fuga di gas nell’impianto di Bophal in India causò la morte di 4.100 persone e 170.000 rimasero intossicate [16]. «La Nuova Ecologia» intervistò in seguito Russel Train il quale dichiarò che «la Union Carbide ha un programma ambientale ottimo» [17].
Un altro esempio dei dirigenti del WWF coinvolti in disastri ambientali è Eugene McBrayer, già direttore del WWF statunitense e presidente della Exxon Chemical. Secondo «Multinational Monitor» è questo il motivo per cui il WWF americano non partecipò al boicottaggio della Exxon [18], quando, in seguito all’incidente avvenuto nella Baia Principe Guglielmo in Alaska, la petroliera Exxon Valdez riversò in mare 40.000 tonnellate di greggio.
Per tornare in Europa, il caso più emblematico è quello di Luc Hoffman, attuale vicepresidente emerito del WWF internazionale, comandante dell’ordine dell’Arca D’Oro, una delle più alte onorificenze in campo ambientale. Lodato per la «dedizione e la straordinaria generosità a favore della conservazione della natura e per il ruolo svolto nell’ambito delle più influenti organizzazioni ecologiste del mondo», Luc Hoffman era il proprietario dell’impianto chimico del l’Icmesa di Seveso, dove il 10 luglio 1970, un’esplosione produsse una nube di diossina che investì la zona circostante.
Le organizzazioni ecologiste parlarono allora di azione criminale, furono pochi che ricordarono l’appartenenza di Luc Hoffman al WWF.
Singolare anche la storia del principe Bernardo d’Olanda, membro fondatore, presidente ed esponente di punta del WWF. Bernardo era presidente del WWF fino a quando dovette dimettersi nel 1976 a causa della scandalo Lockheed [19]. In sede di difesa egli sostenne che le bustarelle per l’acquisto degli aerei militari Lockheed fossero un contributo per il WWF [20]. Nella storia ufficiale del WWF egli è considerato benemerito ed è colui che ha creato la struttura finanziaria dell’associazione.
Paradossale la campagna in difesa della tigre del WWF.
«Panda» la rivista della sezione italiana, ha riportato nel numero di luglio 1996: «La Exxon metterà a disposizione ben 5 milioni di dollari nei prossimi cinque anni per i progetti di conservazione della tigre. Il denaro andrà al fondo Save the Tiger amministrato dalla US National Fish and Wildlife Foundation e sarà gestito da un consiglio di Otto membri» [21]. Il successivo 3 ottobre fu pubblicata una foto in cui la famiglia reale britannica e Filippo di Edimburgo, presidente onorario del WWF, posavano fieri dinanzi al cadavere di una tigre appena uccisa a fucilate [22].
La sezione italiana del WWF si è sempre vantata di saper gestire i parchi. Ma la Corte dei Conti nel 2003 ha condannato il presidente del Parco Nazionale d’Abruzzo Fulco Pratesi a un risarcimento di oltre 88.000 euro più interessi e spese di giudizio. La decisione si riferisce alla gestione dissennata del Parco Nazionale d’Abruzzo [23].
Secondo quanto riferisce l’agenzia “il Velino” [24] il motivo della condanna fa riferimento a «un comportamento del tutto anomalo e inadeguato, con grave ed evidente violazione sia dei compiti e dei doveri di servizio palesemente trascurati, sia dei comuni, elementari e irrinunciabili canoni di correttezza amministrativa e di sana gestione». Secondo la sentenza della Corte, Pratesi è tenuto a rifondere 21.000 euro per aver anticipato alcune indennità di fine rapporto attingendole a fondi accantonati dall’Ente e più di 67.000 euro per aver impropriamente promosso sul campo un dipendente attribuendogli la qualifica e la retribuzione di dirigente. Ha scritto «l’Avvenire» che «la condanna appare tutto sommato mite dal momento che il procuratore della Corte aveva chiesto a Pratesi un risarcimento di 188.000 euro e la chiamata in correità con l’ex direttore del Parco, Franco Tassi, prima allontanato e poi licenziato per cinque capi di accusa, tra i quali l’aver preso in affitto a spese del parco un intero edificio di rappresentanza a Roma» [25]. La Corte rimproverava a Pratesi di non aver controllato l’operato del direttore generale Tassi, che si sarebbe dato a una serie di spese pazze. Franco Tassi, già decano dei direttori dei Parchi Italiani, uno dei primi soci del WWF, idolo della cultura conservazionista italiana, è stato prima allontanato dalla direzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, carica che ricopriva dal 1969, e poi è stato licenziato e condannato. In un dossier pubblicato dal settimanale «Tempi» [26], risulta che la lista delle violazioni compiuta dall’accoppiata Tassi-Pratesi è impressionante: un diffuso sistema di assegnazione di funzioni superiori a tutto il personale, in palese violazione delle leggi vigenti. Apertura di uffici periferici a Roma e a New York, falsi in bilancio, debiti miliardari, gestione privata dei fondi in dotazione al Parco.
La relazione sulla gestione del Parco d’Abruzzo stilata nel 1998 dalla Corte dei Conti denunciava già una «situazione di diffusa illegittimità». Insomma, è evidente una notevole differenza tra l’immagine pubblica e la realtà privata del WWF.

Le bizzarre previsioni del Worldwatch Institute

«Il mondo sta consumando beni e servizi in modo insostenibile, con serie conseguenze per il benessere dell’umanità.»
«La Terra non possiede le risorse per permettere a tutti i suoi abitanti di vivere come l’europeo e l’americano medio.» «La catastrofe ecologica, sociale e psicologica del pianeta è ormai alle porte.» Non si tratta di battute prese da un film catastrofista, ma dal rapporto annuale sullo stato del pianeta 2004 stilato dal Worldwatch Institute (WI). Sulla pagina in rete del WWF Italia, c’è una scritta che scorre: «Siamo tutti animali a rischio»; segue un altra frase che dice: «Conosci un altro pianeta dove vivere?». Con questa introduzione viene presentato il rapporto sullo stato del pianeta 2004 del WI.
Il dramma, secondo il WI, è che «circa un miliardo e settecento milioni di persone, oltre un quarto dell’umanità, è entrata a pieno titolo nella categoria dei consumatori, adottando abitudini alimentari, sistema di trasporti e stile di vita dei paesi ricchi come Europa, Nord America e Giappone. Questo numero è in continua crescita» [1]. È uno scandalo secondo il WI che «oltre a possedere televisore, telefono e computer, consumare tanta energia e acqua, questi individui - sempre più numerosi in Cina e India - hanno adottato stili di vita un tempo esclusivi di Europa, USA e Giappone».
Secondo il WI «la Terra non possiede le risorse per permettere a tutti i suoi abitanti di vivere come l’europeo e l’americano medio». E se nei prossimi decenni non si riducono i consumi d’energia e materie prime fino al 90%, allora ci sarà l’apocalisse ecologica. Non si tratta di uno scenario nuovo, è dal 1974 che il Worldwatch Institute, non fa altro che prevedere catastrofi. Da allora il WI ha stilato quasi ogni anno una serie di previsioni apocalittiche sulla produzione di cibo, l’inquinamento, l’utilizzo dei suoli e delle acque, la crescita demografica, il cambiamento climatico, lo stato delle foreste... profezie che alla prova dei fatti si sono rivelate sistematicamente errate.
Lester R. Brown, fondatore e direttore del WI per decenni, dagli anni ‘70 non fa che predire sventure. In un articolo apparso su «Fortune», Brown venne descritto come “uno dei pessimisti più chiassosi” [2]. Nel 1974, grazie a un finanziamento del Rockefeller Brothers Fund, Brown fondò il Worldwatch Institute (www.worldwatch.org). Nel 1984 L. Brown pubblicò il suo primo rapporto annuale State of the World. Dal 1988 il WI pubblicò anche il bimestrale «World Watch». Nel maggio del 2001 Brown ha lasciato la presidenza del WI a Christopher Flavin per fondare l’Earth Policy Institute.
Innumerevoli gli errori commessi dal WI in termini di previsione. Jerry Taylor, direttore del settore studi ambientali del CATO Institute statunitense, ha rilevato che ognuna delle
previsioni contenute nei rapporti annuali pubblicate dal WI si è rivelata sbagliata. Nel 1978 Lester Brown si lamentò per “la diminuzione mondiale delle terre coltivate», sostenendo che «l’erosione dei suoli, il deterioramento ambientale delle montagne, la deforestazione, il consumo del legname nei paesi del terzo mondo, la desertificazione, l’impoverimento e la salinizzazione dei sistemi di irrigazione... stanno riducendo significativamente la capacità produttiva dei terreni coltivati» [3]. Egli affermava terrorizzato che «la crescita delle città era uno dei principali motivi della perdita di terreno coltivabile».
Ma la FAO (Food and Agricolture Organization) ha dimostrato, con i dati raccolti dai suoi esperti, che i terreni arabili nel mondo sono cresciuti di 1,32 miliardi di ettari nel 1973 e di 1,34 miliardi di ettari nel 1993 [4]. Altro che perdita!
Brown aveva previsto che «il futuro avrebbe portato una fame acuta di terreni coltivabili, scarsità alimentare, incremento dei prezzi del cibo, e una vasta rivolta sociale». I fatti però ancora una volta lo hanno smentito. Infatti i dati della FAO dimostrano che la disponibilità alimentare mondiale per persone è cresciuta dalle 2.440 calorie al giorno degli anni 1969-1971 alle 2.720 degli anni 1990-1992 [5]. Nei paesi in via di sviluppo le calorie per persona sono aumentate da 2.140 per giorno a 2520 nello stesso periodo, un aumento del 18%. E il numero di persone che vivono nei paesi in cui la dieta alimentare è inferiore alle 2.100 calorie al giorno è sceso da 1.747 milioni degli anni 1969-1971 a 411 milioni negli anni 1990-1992, con un miglioramento pari al 76%.
Nel 1984 il WI riportò che “le piogge acide” stavano distruggendo le foreste del Vermont, uccidendo «metà delle giovani piante» nella zona della Green Mountain; secondo Brown «la densità e il numero di alberi e delle piante del sottobosco erano ridotte alla metà» [6]. A dispetto di queste tragiche e calamitose eventualità, il Servizio Forestale Americano (us Forest Service) ha constatato che il 77% del Vermont era nel 1992 coperto da foreste [7]. Lo stesso dipartimento accertò che l’area boschiva era cresciuta nel periodo 1952-1992 del 15%. Secondo Lester Brown in quello stesso periodo le foreste erano state devastate dalle piogge acide. Il Servizio Forestale Americano accertò invece che il volume netto di sottobosco era almeno raddoppiato [8]. E la crescita di tutte le specie vegetali nel 1991 superava la rimozione e la mortalità delle vecchie piante di circa il 40% [9].
Quello che più stupisce del WI non è solamente la capacità di ripetere all’infinito catastrofi prossime venture ma quello di proporre sempre le stesse soluzioni e cioè: riduzione dei consumi, austerità, incremento dei prezzi, tasse eco- logiche per le emissioni di anidride carbonica, sui rifiuti, sul consumo di acqua, sull’utilizzo dei fitofarmaci e sul consumo di materie prime, e una drastica riduzione delle nascite tramite draconiani piani di controllo della popolazione.
Per quanto riguarda i piani di controllo delle nascite, Brown non ha mai fatto mistero della sua preferenza per misure autoritarie. Già nel libro I limiti dello sviluppo propose di «concedere facilitazioni fiscali o premi in denaro a coloro che non si sposano» [10] e «offrire pensioni speciali a chi sceglie di non avere figli» [11]. Nello stesso libro Brown propone il programma di «libretti di risparmio per la pianificazione della famiglia» ideato da Ronald Ridker e realizzato nelle piantagioni di tè in India. Secondo tale schema la direzione offre a ogni donna in età di procreare un libretto di risparmio in cui la ditta versa una data somma ogni mese in cui la donna non è incinta. L’entità di questa somma può essere ritirata intera sotto forma di pensione se la donna non procrea, altrimenti l’entità della somma viene decurtata per coprire le spese necessarie per il parto. In sostanza si propone l’alternativa tra avere i figli o disporre della pensione! Brown inoltre invita presidenti, primi ministri, membri del Parlamento a farsi sterilizzare. Allo stesso modo Brown propone di sostenere la liberalizzazione della legge sull’aborto, nonché la diffusione massiccia di contraccettivi.
In una intervista rilasciata all’agenzia di stampa Fides, padre Bernard Przewozny, frate francescano conventuale, già consultore del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e direttore del Centro Francescano di studi ambientali alla Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura di Roma, ha commentato il rapporto del Worldwatch Institute sostenendo che «bisogna guardarsi dall’allarmismo eccessivo circa la carenza di acqua nel pianeta, anche se bisogna approvare le leggi che possono aiutare la difesa dell’ambiente. Bisogna guardarsi da quelle persone che pensano che l’uomo è il cancro della terra e che intendono ridurre la questione ambientale a un problema di demografia» [12].

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