Cultura & Attualità
Il quaquaraqua...
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:01:11
Oh, c'è una persona molto misera che si è messa in mente di fare l'assessore e penso che ci riuscirà!
Adesso proverò a darvi qualche indizio su di lui.
Oh, c'è una persona molto misera che si è messa in mente di fare l'assessore e penso che ci riuscirà!
Adesso proverò a darvi qualche indizio su di lui.
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:06:07
Sette maledizioni agli scribi e ai farisei
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre all'interno sono pieni di rapina e d'intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l'interno del bicchiere, perché anche l'esterno diventi netto!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!
Delitti e castighi imminenti
Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l'altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.
Apostrofe a Gerusalemme
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Mt 23, 13 - 37
Sette maledizioni agli scribi e ai farisei
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre all'interno sono pieni di rapina e d'intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l'interno del bicchiere, perché anche l'esterno diventi netto!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!
Delitti e castighi imminenti
Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l'altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.
Apostrofe a Gerusalemme
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Mt 23, 13 - 37
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:09:00
Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97
IL MANIERISMO SCHIZOFRENICO
Un’introduzione storica
di Andrea Cantini
Ci si potrebbe chiedere perché rispolveriamo oggi un concetto che non trova ultimamente grande spazio nella letteratura psichiatrica.
Se escludiamo l’eccezione costituita dalla scuola fenomenologica-espressiva, che fa capo alla scuola di Padova e fondamentalmente a Ferdinando Barison, troviamo negli ultimi trent’anni poco più di cinquanta articoli ove il termine “manierismo” venga semplicemente citato. Ove questo termine ricorre, tra l’altro, non viene usato con una ricerca più profonda di senso, ma viene semplicemente inteso come disturbo del movimento e, come tale, trattato e confuso insieme alle “stereotipie”, che sappiamo essere piccoli movimenti ripetuti, saccadici, cui viene di solito negato un finalismo espressivo. Cito tra tutti un articolo apparso nel Brain Research Bullettin dell’83, a firma Yung, dove il manierismo viene trattato e posto in diagnosi differenziale con tutti i disturbi del movimento, iatrogeni e neurologici.
Perché quindi ritroviamo oggi interesse nel fenomeno manierismo? Direi fondamentalmente per tre ordini di motivi: 1) Innanzitutto un motivo clinico. Infatti, se il manierismo è raro nei trattati, risulta essere di frequentissimo riscontro nella pratica clinica ove si cerchi un senso alle manifestazioni espressive del paziente. 2) Un motivo storico. Perché si può vedere come il fenomeno del manierismo si pone come cartina di tornasole, spartiacque netto, tra due concezioni assolutamente antitetiche della malattia mentale. 3) Un motivo teorico e psicopatologico. Il manierismo si può porre come affascinante chiave di comprensione e punto di partenza per lo studio della psicologia dello schizofrenico.
A questi motivi ne aggiungo un quarto, che per me è stato forse il primo in ordine di motivazione, e consiste nel rilievo dato al manierismo in un passo del dibattito svoltosi a Milano nel ‘62, in cui vi fu un breve scambio di battute tra Leonardo Ancona e Massimo Fagioli dove trasparivano due concezioni antitetiche dell’inconscio, della malattia mentale e dell’uomo. Infatti, se Massimo Fagioli cercava essenzialmente nel manierismo il segreto della creatività schizofrenica, definendo lo schizofrenico come autista e manierato, Ancona gli si opponeva affermando che probabilmente la schizofrenia, o questa particolare creatività schizofrenici, fosse legata all’emergere dell’inconscio per una debolezza delle strutture coscienti.
Oggi noi sappiamo senz’altro di più riguardo l’anaffettività, l’indifferenza, la dissociazione e tanti altri nuclei psicopatologici che compongono la schizofrenia, ma mi sembra doveroso riportare l’attenzione sul manierismo.
Cito a proposito tre definizioni del termine. Secondo il Dizionario della Lingua Italiana di N. Zingarelli, «il manierismo è un atteggiamento espressivo, innaturale e strano, proprio in particolare dei malati di mente». Secondo il Dizionario di Psicologia di U. Galimberti, esso «è uno stile di comportamento che investe la mimica, il contegno, la scrittura, caratterizzato da tratti di artificiosità che non lascia trasparire spontaneità e immediatezza».
A queste due aggiungo la definizione di Barison, secondo la quale «il manierismo è l’attività con cui viene più o meno consapevolmente perseguito lo scopo di esprimere sentimenti in realtà inesistenti nel soggetto».
Abbiamo visto che in questa accezione, non universalmente condivisa, di atto espressivo, artificioso e falso nella sostanza, un certo manierismo è frequentissimo sia nell’uomo normale sia in varie forme di patologia psichiatrica, ma nella schizofrenia assume particolare frequenza e coloritura. Nel Trattato Italiano di Psichiatria il manierismo schizofrenico viene trattato, insieme alle stereotipie, all’interno dei disturbi qualitativi del movimento e viene attribuita ad esso solo la parvenza di espressività. In verità, il manierismo, si presta a descrizioni formali ricche su cui è inutile soffermare l’attenzione. In breve, atteggiamenti mimici, gesti, comportamenti, vengono proposti in maniera ironica, affettata, a volte ossequiosa e solenne. È in questa atmosfera di tragicomico alambicco che tali atteggiamenti appaiono falsi e grotteschi.
Nella pratica il manierismo schizofrenico può essere secondario ad uno stimolo oppure manifestarsi senza stimolo apparente, come stile, come modo di essere dello schizofrenico; lo troviamo particolarmente frequente nelle forme catatoniche ma, sottolineerei il fatto, esso si può trovare in tutti gli stadi ed in tutte le forme della schizofrenia, fatta forse eccezione per alcune forme di schizofrenia simplex e residuale.
Mi permetto di rammentare un caso, un piccolo esempio per rendere più chiara la descrizione.
Una paziente che vedevo per la prima volta nel corso di una visita domiciliare, viveva in condizioni miserrime, a livelli infimi di igiene sia personale che ambientale. Ella mi accolse sdraiata sul letto come un’odalisca e mi si rivolse con aria da gran signora dicendo: «O caro professore, lei è venuto a trovarmi, finalmente. Lei mi insegnava italiano sin dai tempi antichi».
E ripeteva scandendo lentamente queste parole: «tempi antichi».
Al di là di qualsiasi interpretazione possiamo notare in questo banale esempio tre cose:
1- un modo di parlare affettato, che si estrinsecava nello scandire le parole ed in un timbro di voce artificiosamente impostato.
2- un dato patologico di per sé non tipicamente schizofrenico, cioè un falso riconoscimento.
3- l’aria da gran signora che, in contrasto con le reali condizioni della paziente, conferiva a tutto il contesto un’atmosfera irreale e strana.
Ho fatto questo inciso per dire che, secondo me, nel manierismo si possono ravvisare tre caratteristiche cliniche:
a- come comportamento che complica atti assolutamente normali, tipo vestirsi, fumare una sigaretta, salutare, mettersi il cappello in un certo modo, ecc.;
b- come comportamento che complica atti patologici che di per sé non sono strani o schizofrenici; abbiamo visto un falso riconoscimento, potrei citare deliri di persecuzione o altre forme che troviamo anche in patologie diverse;
c- come “atmosfera” che permea di sé tutta la persona del paziente. A volte si estrinseca in un modo di essere particolare, altre volte si configura in vere e proprie “macchiette” con cui lo schizofrenico si presenta frequentemente; penso in particolare alle figure dell’inventore, dell’asceta, del burocrate, ecc.
Il manierismo, oltre che nella schizofrenia, si trova in varie forme di patologie ed anche nel normale. Possiamo pensare ai manierismi dell’omosessuale che scimmiotta comportamenti femminili e noi potremmo ipotizzare che non possiede un’immagine femminile interiore.
Abbiamo poi manierismi nel caratteriale schizoide, che si manifestano con tratti di affabilità, di cortesia, ma che mascherano in realtà una anaffettività profonda.
Sono descritti in letteratura manierismi nelle crisi maniacali, nell’isteria e nel carattere epilettoide. Però, e questo potrebbe eventualmente essere un argomento di dibattito, non sono d’accordo nel definire “manierismi” quelli dell’isteria e delle crisi maniacali.
Le definizioni che ho citato derivano in parte da esperienze personali, in parte si desumono dai lavori di F. Barison. Attualmente nei manuali diagnostici di uso comune, il manierismo schizofrenico non viene preso in considerazione. Oggi la formazione degli psichiatri, per quanto concerne il problema della diagnosi, viene fondata essenzialmente sul decorso clinico e su criteri di facile quanto fallace riconoscibilità. Si va incontro in tal modo a due ordini di errore: da un lato si rischia di aspettare la cronicizzazione senza chiedersi se essa sia legata ad un fatto iatrogeno o ad un atteggiamento attendista; dall’altro lato si rischia di imbattersi in casi di falsa positività (malati che sembrano schizofrenici e non lo sono) odi falsa negatività (malati che non sembrano schizofrenici, ma invece lo sono).
Se è vero che non possiamo proporre in toto ciò che sarebbe auspicabile, cioè la possibilità ricordata da Rumke di riconoscere lo schizofrenico ad un colpo d’occhio, mi sembra il caso di non abbandonare questo indirizzo di clinica e di fine semeiotica.
Il manierismo ed altre caratteristiche, colte con osservazione attenta ed intuitiva, possono rappresentare un punto di passaggio accettabile.
Vorrei ora proporvi brevemente una storia del manierismo schizofrenico così come è stato trattato nella letteratura psichiatrica. Descrizioni di atteggiamenti, comportamenti, espressioni, che potremmo oggi definire manierate, sono presenti già nell’antichità. Il primo che parla di manierismi in maniera più organica è Kraepelin, a proposito della schizofrenia catatonica. Schematizzando, potremmo dividere la storia del pensiero psichiatrico in due grandi filoni, anche per quel che riguarda il problema specifico del manierismo. Il primo filone si è mosso sul terreno dell’erklaren, accettando il monito jaspersiano sulla incomprensibilità delle psicosi endogene e tentando quindi di trovare la spiegazione ai fenomeni sul terreno della lesione organica e del defekt. Un secondo filone ha tentato di varcare i limiti dell’incomprensibilità, muovendosi sul terreno del verstehen, tentando cioè di comprendere.
Sul terreno dell’incomprensibilità si sono mossi in molti, cercando di arrivare alla spiegazione dei fenomeni usando il metodo di ricerca proprio alle scienze naturali e cercando le cause nei dati anatomici, biochimici, ecc.
All’interno di questa tendenza cito i tre autori che mi sembrano più significativi:
Kraepelin, Reboul-Lachaux e Leonhard.
Sin dalla prima edizione del suo trattato di psichiatria, Kraepelin parla di manierismi riprendendo alcuni accenni che aveva fatto già Kahlbaum nella descrizione della catatonia. Nell’ottava edizione del Trattato di psichiatria (1909), li descrive come movimenti a volte goffi e grossolani, a volte affettati e solenni. Per Kraepelin essi non hanno né scopo, né rapporto con l’ambiente esterno; egli inquadra questi sintomi come disturbi della volontà e degli impulsi, all’interno di un’ottica che vede nella dementia praecox, una sindrome a carattere degenerativo ed esito difettuale. Per Kraepelin i manierismi sono “mutamenti patologici di atti usuali”.
Reboul-Lachaux (1922) pubblica un lavoro dal titolo Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses. È una lunga monografia che tratta del manierismo dei normali, ove l’autore ravvisa caratteristiche di intenzionalità, e del manierismo schizofrenico, ove l’affettazione, la ricercatezza, costituirebbero esclusivamente un’impressione falsa dovuta a deficit motorio. Egli descrive quindici casi di pazienti, in cui sono presenti bizzarrie, smorfie, manierismi nell’ambito di un quadro clinico caratterizzato da eccitazione psichica ed automatismo motorio. L’Autore attribuisce questi sintomi alla presenza di un elemento fisiologico supplementare di cui non sa specificare oltre, elemento che produrrebbe un’incoerenza tra affettività ed intelligenza, tra intelligenza ed azioni. Le manifestazioni manierate a malattia conclamata, sono prive di contenuto affettivo ed ideico e sono interpretate come manifestazioni residuali. Per ultimo cito Leonhard (1962), che rappresenta un po’ il punto di riferimento colto della psichiatria organicistica. Egli descrive in modo estremamente minuzioso due forme cliniche da lui denominate: catatonia paracinetica e catatonia manierata. Leonhard liquida qualsiasi possibilità di comprensione, affermando che i manierismi e le paracinesie sono movimenti pseudoespressivi. Egli nega significato e finalità espressiva finanche al sorriso fatuo.
Per gli autori succitati e per quanti si muovono sullo stesso terreno, il manierismo è sintomo pseudo-espressivo che si ritrova quasi esclusivamente nelle forme catatoniche cronicizzate.
In un campo vicino si muove Bleuler, per il quale i manierismi sono legati all’emergenza di complessi ideo-affettivi più o meno remoti che un danno, forse di natura biologica, farebbe emergere con l’intermediazione patogenetica di meccanismi quali Spaltunge Zerspaltung agenti sinergicamente. Se osserviamo bene qui il difetto viene solo spostato di profondità. Il concetto di deficit, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra.
Tra gli autori che invece hanno tentato di seguire la strada del verstehen, tentando di comprendere le manifestazioni psicologiche dello schizofrenico, cito essenzialmente Gruhle, Binswanger e Barison.
Gruhle (1929) dà importanza al carattere di voluta inconsuetudine, di originalità affettata di tutti gli atti dello schizofrenico; ogni manifestazione trae motivo in un diverso stato d’animo fondamentale. Per primo egli distingue le particolarità linguistiche e comportamentali degli schizofrenici, dai disturbi neurologici (afasia, disartria, disturbi delle prasie), in quanto non dovute a lesioni anatomopatologiche, ma espressioni di un “diverso volere”.
Binswanger nel 1957 scrive tre forme di esistenza mancata. In questa pubblicazione egli dedica al manierismo un vasto capitolo. Per Binswanger il manierismo è un tentativo dell’esistenza di innalzarsi al di sopra del proprio fallimento, mediante un contorcimento, un artificio tecnico. Il manierismo sarebbe la risposta ad un imbarazzo, ad una inadeguatezza dell’essere, li manierato, non riuscendo a raggiungere la propria identità, adotta le maniere dell’altro, imita i modelli che ritrova nell’anonimato, nella società, e si spersonalizza in quella che Binswanger ed Heidegger chiamano «la pubblicità del Si».
In realtà Binswanger, pur considerando il manierismo come modo di essere con cui lo schizofrenico tenta di essere autentico, elude alcuni nodi fondamentali del problema. Innanzitutto si disinteressa volutamente del dato soggettivo, intuitivo dell’osservatore di fronte allo schizofrenico; non sviluppa l’intuizione di Gruhle, circa il diverso volere; non risponde alla domanda sul perché nella schizofrenia vi sia una così forte tendenza al manierismo.
Infine Barison, il quale ha impostato tutta la sua ricerca sui fenomeni espressivi della schizofrenia dando importanza per la diagnosi al manierismo, alla schizofasia e ad alcune risposte al Rorschach.
Barison critica chi confina il manierismo alle forme croniche o difettuali e chi lo confina alle forme catatoniche della schizofrenia, ma ne rileva la presenza in tutte le forme cliniche ed in tutti gli stadi, ritenendo che in esso risieda il segreto della schizofrenia. Secondo Barison il manierismo schizofrenico ha fondamentalmente tre caratteristiche: la parassitarietà, l’intenzionalità ed il finalismo espressivo.
Il manierismo è parassitario in quanto complica atti normali e patologici, di per sé compiuti (in sostanza il manierismo non ha alcuna utilità per l’atto che va a complicare).
Per quanto riguarda invece l’intenzionalità ed il finalismo espressivo, questi vengono colti dallo psichiatra, con un atto intuitivo o con una osservazione attenta.
Barison parla di una teatralità dello schizofrenico, ben diversa dalla teatralità isterica, teatralità con cui lo schizofrenico «evita il rapporto diretto, sfugge al rapporto immediato con l’altro, deviando l’attenzione su una cascata di comportamenti parassitari che hanno praticamente il risultato di svuotare l’efficacia espressiva del gesto».
Con questa teatralità lo schizofrenico crea un mondo irreale, ed è proprio su questa creatività che Barison insiste per cercare il segreto dell’Anders, cioè l’alterità totale dello schizofrenico. Egli parla di intenzionalità, in senso husserliano. L’intenzionalità è per Husserl (come per Brentano ed i filosofi Scolastici) caratteristica specifica dei fenomeni psichici; essa consisterebbe essenzialmente nella direzionalità verso l’oggetto di cui si ha coscienza. Si tratta quindi di intenzionalità cosciente.
Barison parla di intenzionalità facendo riferimento a «un comportamento che mima, imita, comportamenti normali» e proprio in quanto li imita «non si può pensare che tale condotta non sia diretta ad agire su un ambiente interumano».
In sintesi con la mia breve disamina ho riferito di questa tendenza della psichiatria volta a percorrere la strada della comprensione, strada in cui si può riconoscere una faticosa costruzione e difesa della propria identità. Ipotizzando ad esempio un diverso volere o una intenzionalità, come caratteristica del manierismo schizofrenico, restituisce dignità al malato mentale che non appare più come semplice difettuale. È vero che questo indirizzo psichiatrico, oltre che restare minoritario, ha mostrato la corda cedendo all’empirismo della farmaco- psichiatria e della psichiatria sociale proprio perché al di là di affascinanti intuizioni non ha saputo cogliere la possibilità di affrontare ed opporsi a questa intenzionalità distruttiva dello schizofrenico,
Ora sappiamo che in realtà, per approfondire la ricerca era necessario uscire dalla forbice erklaren-verstehen per affrontare l’inconscio, per ricercare al di là di una intenzionalità cosciente, l’intenzionalità inconscia, sostenuta dalla pulsione di annullamento.
Ora mi pongo alcune domande, che vorrei girare alla vostra attenzione: se il manierismo è quel comportamento atto ad “esprimere sentimenti inesistenti nel soggetto”, mi chiedo se possiamo cogliere il flesso tra il manierismo e la pulsione che rende inesistente ciò che esiste ed esistente ciò che non esiste?
Se questo è possibile cosa rimane, al di là della pulsione, nel manierato? Per spiegarmi meglio: cos’è che differenzia lo schizofrenico manierato dallo schizofrenico simplex, in cui rimane apparentemente solo l’indifferenza?
Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97
IL MANIERISMO SCHIZOFRENICO
Un’introduzione storica
di Andrea Cantini
Ci si potrebbe chiedere perché rispolveriamo oggi un concetto che non trova ultimamente grande spazio nella letteratura psichiatrica.
Se escludiamo l’eccezione costituita dalla scuola fenomenologica-espressiva, che fa capo alla scuola di Padova e fondamentalmente a Ferdinando Barison, troviamo negli ultimi trent’anni poco più di cinquanta articoli ove il termine “manierismo” venga semplicemente citato. Ove questo termine ricorre, tra l’altro, non viene usato con una ricerca più profonda di senso, ma viene semplicemente inteso come disturbo del movimento e, come tale, trattato e confuso insieme alle “stereotipie”, che sappiamo essere piccoli movimenti ripetuti, saccadici, cui viene di solito negato un finalismo espressivo. Cito tra tutti un articolo apparso nel Brain Research Bullettin dell’83, a firma Yung, dove il manierismo viene trattato e posto in diagnosi differenziale con tutti i disturbi del movimento, iatrogeni e neurologici.
Perché quindi ritroviamo oggi interesse nel fenomeno manierismo? Direi fondamentalmente per tre ordini di motivi: 1) Innanzitutto un motivo clinico. Infatti, se il manierismo è raro nei trattati, risulta essere di frequentissimo riscontro nella pratica clinica ove si cerchi un senso alle manifestazioni espressive del paziente. 2) Un motivo storico. Perché si può vedere come il fenomeno del manierismo si pone come cartina di tornasole, spartiacque netto, tra due concezioni assolutamente antitetiche della malattia mentale. 3) Un motivo teorico e psicopatologico. Il manierismo si può porre come affascinante chiave di comprensione e punto di partenza per lo studio della psicologia dello schizofrenico.
A questi motivi ne aggiungo un quarto, che per me è stato forse il primo in ordine di motivazione, e consiste nel rilievo dato al manierismo in un passo del dibattito svoltosi a Milano nel ‘62, in cui vi fu un breve scambio di battute tra Leonardo Ancona e Massimo Fagioli dove trasparivano due concezioni antitetiche dell’inconscio, della malattia mentale e dell’uomo. Infatti, se Massimo Fagioli cercava essenzialmente nel manierismo il segreto della creatività schizofrenica, definendo lo schizofrenico come autista e manierato, Ancona gli si opponeva affermando che probabilmente la schizofrenia, o questa particolare creatività schizofrenici, fosse legata all’emergere dell’inconscio per una debolezza delle strutture coscienti.
Oggi noi sappiamo senz’altro di più riguardo l’anaffettività, l’indifferenza, la dissociazione e tanti altri nuclei psicopatologici che compongono la schizofrenia, ma mi sembra doveroso riportare l’attenzione sul manierismo.
Cito a proposito tre definizioni del termine. Secondo il Dizionario della Lingua Italiana di N. Zingarelli, «il manierismo è un atteggiamento espressivo, innaturale e strano, proprio in particolare dei malati di mente». Secondo il Dizionario di Psicologia di U. Galimberti, esso «è uno stile di comportamento che investe la mimica, il contegno, la scrittura, caratterizzato da tratti di artificiosità che non lascia trasparire spontaneità e immediatezza».
A queste due aggiungo la definizione di Barison, secondo la quale «il manierismo è l’attività con cui viene più o meno consapevolmente perseguito lo scopo di esprimere sentimenti in realtà inesistenti nel soggetto».
Abbiamo visto che in questa accezione, non universalmente condivisa, di atto espressivo, artificioso e falso nella sostanza, un certo manierismo è frequentissimo sia nell’uomo normale sia in varie forme di patologia psichiatrica, ma nella schizofrenia assume particolare frequenza e coloritura. Nel Trattato Italiano di Psichiatria il manierismo schizofrenico viene trattato, insieme alle stereotipie, all’interno dei disturbi qualitativi del movimento e viene attribuita ad esso solo la parvenza di espressività. In verità, il manierismo, si presta a descrizioni formali ricche su cui è inutile soffermare l’attenzione. In breve, atteggiamenti mimici, gesti, comportamenti, vengono proposti in maniera ironica, affettata, a volte ossequiosa e solenne. È in questa atmosfera di tragicomico alambicco che tali atteggiamenti appaiono falsi e grotteschi.
Nella pratica il manierismo schizofrenico può essere secondario ad uno stimolo oppure manifestarsi senza stimolo apparente, come stile, come modo di essere dello schizofrenico; lo troviamo particolarmente frequente nelle forme catatoniche ma, sottolineerei il fatto, esso si può trovare in tutti gli stadi ed in tutte le forme della schizofrenia, fatta forse eccezione per alcune forme di schizofrenia simplex e residuale.
Mi permetto di rammentare un caso, un piccolo esempio per rendere più chiara la descrizione.
Una paziente che vedevo per la prima volta nel corso di una visita domiciliare, viveva in condizioni miserrime, a livelli infimi di igiene sia personale che ambientale. Ella mi accolse sdraiata sul letto come un’odalisca e mi si rivolse con aria da gran signora dicendo: «O caro professore, lei è venuto a trovarmi, finalmente. Lei mi insegnava italiano sin dai tempi antichi».
E ripeteva scandendo lentamente queste parole: «tempi antichi».
Al di là di qualsiasi interpretazione possiamo notare in questo banale esempio tre cose:
1- un modo di parlare affettato, che si estrinsecava nello scandire le parole ed in un timbro di voce artificiosamente impostato.
2- un dato patologico di per sé non tipicamente schizofrenico, cioè un falso riconoscimento.
3- l’aria da gran signora che, in contrasto con le reali condizioni della paziente, conferiva a tutto il contesto un’atmosfera irreale e strana.
Ho fatto questo inciso per dire che, secondo me, nel manierismo si possono ravvisare tre caratteristiche cliniche:
a- come comportamento che complica atti assolutamente normali, tipo vestirsi, fumare una sigaretta, salutare, mettersi il cappello in un certo modo, ecc.;
b- come comportamento che complica atti patologici che di per sé non sono strani o schizofrenici; abbiamo visto un falso riconoscimento, potrei citare deliri di persecuzione o altre forme che troviamo anche in patologie diverse;
c- come “atmosfera” che permea di sé tutta la persona del paziente. A volte si estrinseca in un modo di essere particolare, altre volte si configura in vere e proprie “macchiette” con cui lo schizofrenico si presenta frequentemente; penso in particolare alle figure dell’inventore, dell’asceta, del burocrate, ecc.
Il manierismo, oltre che nella schizofrenia, si trova in varie forme di patologie ed anche nel normale. Possiamo pensare ai manierismi dell’omosessuale che scimmiotta comportamenti femminili e noi potremmo ipotizzare che non possiede un’immagine femminile interiore.
Abbiamo poi manierismi nel caratteriale schizoide, che si manifestano con tratti di affabilità, di cortesia, ma che mascherano in realtà una anaffettività profonda.
Sono descritti in letteratura manierismi nelle crisi maniacali, nell’isteria e nel carattere epilettoide. Però, e questo potrebbe eventualmente essere un argomento di dibattito, non sono d’accordo nel definire “manierismi” quelli dell’isteria e delle crisi maniacali.
Le definizioni che ho citato derivano in parte da esperienze personali, in parte si desumono dai lavori di F. Barison. Attualmente nei manuali diagnostici di uso comune, il manierismo schizofrenico non viene preso in considerazione. Oggi la formazione degli psichiatri, per quanto concerne il problema della diagnosi, viene fondata essenzialmente sul decorso clinico e su criteri di facile quanto fallace riconoscibilità. Si va incontro in tal modo a due ordini di errore: da un lato si rischia di aspettare la cronicizzazione senza chiedersi se essa sia legata ad un fatto iatrogeno o ad un atteggiamento attendista; dall’altro lato si rischia di imbattersi in casi di falsa positività (malati che sembrano schizofrenici e non lo sono) odi falsa negatività (malati che non sembrano schizofrenici, ma invece lo sono).
Se è vero che non possiamo proporre in toto ciò che sarebbe auspicabile, cioè la possibilità ricordata da Rumke di riconoscere lo schizofrenico ad un colpo d’occhio, mi sembra il caso di non abbandonare questo indirizzo di clinica e di fine semeiotica.
Il manierismo ed altre caratteristiche, colte con osservazione attenta ed intuitiva, possono rappresentare un punto di passaggio accettabile.
Vorrei ora proporvi brevemente una storia del manierismo schizofrenico così come è stato trattato nella letteratura psichiatrica. Descrizioni di atteggiamenti, comportamenti, espressioni, che potremmo oggi definire manierate, sono presenti già nell’antichità. Il primo che parla di manierismi in maniera più organica è Kraepelin, a proposito della schizofrenia catatonica. Schematizzando, potremmo dividere la storia del pensiero psichiatrico in due grandi filoni, anche per quel che riguarda il problema specifico del manierismo. Il primo filone si è mosso sul terreno dell’erklaren, accettando il monito jaspersiano sulla incomprensibilità delle psicosi endogene e tentando quindi di trovare la spiegazione ai fenomeni sul terreno della lesione organica e del defekt. Un secondo filone ha tentato di varcare i limiti dell’incomprensibilità, muovendosi sul terreno del verstehen, tentando cioè di comprendere.
Sul terreno dell’incomprensibilità si sono mossi in molti, cercando di arrivare alla spiegazione dei fenomeni usando il metodo di ricerca proprio alle scienze naturali e cercando le cause nei dati anatomici, biochimici, ecc.
All’interno di questa tendenza cito i tre autori che mi sembrano più significativi:
Kraepelin, Reboul-Lachaux e Leonhard.
Sin dalla prima edizione del suo trattato di psichiatria, Kraepelin parla di manierismi riprendendo alcuni accenni che aveva fatto già Kahlbaum nella descrizione della catatonia. Nell’ottava edizione del Trattato di psichiatria (1909), li descrive come movimenti a volte goffi e grossolani, a volte affettati e solenni. Per Kraepelin essi non hanno né scopo, né rapporto con l’ambiente esterno; egli inquadra questi sintomi come disturbi della volontà e degli impulsi, all’interno di un’ottica che vede nella dementia praecox, una sindrome a carattere degenerativo ed esito difettuale. Per Kraepelin i manierismi sono “mutamenti patologici di atti usuali”.
Reboul-Lachaux (1922) pubblica un lavoro dal titolo Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses. È una lunga monografia che tratta del manierismo dei normali, ove l’autore ravvisa caratteristiche di intenzionalità, e del manierismo schizofrenico, ove l’affettazione, la ricercatezza, costituirebbero esclusivamente un’impressione falsa dovuta a deficit motorio. Egli descrive quindici casi di pazienti, in cui sono presenti bizzarrie, smorfie, manierismi nell’ambito di un quadro clinico caratterizzato da eccitazione psichica ed automatismo motorio. L’Autore attribuisce questi sintomi alla presenza di un elemento fisiologico supplementare di cui non sa specificare oltre, elemento che produrrebbe un’incoerenza tra affettività ed intelligenza, tra intelligenza ed azioni. Le manifestazioni manierate a malattia conclamata, sono prive di contenuto affettivo ed ideico e sono interpretate come manifestazioni residuali. Per ultimo cito Leonhard (1962), che rappresenta un po’ il punto di riferimento colto della psichiatria organicistica. Egli descrive in modo estremamente minuzioso due forme cliniche da lui denominate: catatonia paracinetica e catatonia manierata. Leonhard liquida qualsiasi possibilità di comprensione, affermando che i manierismi e le paracinesie sono movimenti pseudoespressivi. Egli nega significato e finalità espressiva finanche al sorriso fatuo.
Per gli autori succitati e per quanti si muovono sullo stesso terreno, il manierismo è sintomo pseudo-espressivo che si ritrova quasi esclusivamente nelle forme catatoniche cronicizzate.
In un campo vicino si muove Bleuler, per il quale i manierismi sono legati all’emergenza di complessi ideo-affettivi più o meno remoti che un danno, forse di natura biologica, farebbe emergere con l’intermediazione patogenetica di meccanismi quali Spaltunge Zerspaltung agenti sinergicamente. Se osserviamo bene qui il difetto viene solo spostato di profondità. Il concetto di deficit, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra.
Tra gli autori che invece hanno tentato di seguire la strada del verstehen, tentando di comprendere le manifestazioni psicologiche dello schizofrenico, cito essenzialmente Gruhle, Binswanger e Barison.
Gruhle (1929) dà importanza al carattere di voluta inconsuetudine, di originalità affettata di tutti gli atti dello schizofrenico; ogni manifestazione trae motivo in un diverso stato d’animo fondamentale. Per primo egli distingue le particolarità linguistiche e comportamentali degli schizofrenici, dai disturbi neurologici (afasia, disartria, disturbi delle prasie), in quanto non dovute a lesioni anatomopatologiche, ma espressioni di un “diverso volere”.
Binswanger nel 1957 scrive tre forme di esistenza mancata. In questa pubblicazione egli dedica al manierismo un vasto capitolo. Per Binswanger il manierismo è un tentativo dell’esistenza di innalzarsi al di sopra del proprio fallimento, mediante un contorcimento, un artificio tecnico. Il manierismo sarebbe la risposta ad un imbarazzo, ad una inadeguatezza dell’essere, li manierato, non riuscendo a raggiungere la propria identità, adotta le maniere dell’altro, imita i modelli che ritrova nell’anonimato, nella società, e si spersonalizza in quella che Binswanger ed Heidegger chiamano «la pubblicità del Si».
In realtà Binswanger, pur considerando il manierismo come modo di essere con cui lo schizofrenico tenta di essere autentico, elude alcuni nodi fondamentali del problema. Innanzitutto si disinteressa volutamente del dato soggettivo, intuitivo dell’osservatore di fronte allo schizofrenico; non sviluppa l’intuizione di Gruhle, circa il diverso volere; non risponde alla domanda sul perché nella schizofrenia vi sia una così forte tendenza al manierismo.
Infine Barison, il quale ha impostato tutta la sua ricerca sui fenomeni espressivi della schizofrenia dando importanza per la diagnosi al manierismo, alla schizofasia e ad alcune risposte al Rorschach.
Barison critica chi confina il manierismo alle forme croniche o difettuali e chi lo confina alle forme catatoniche della schizofrenia, ma ne rileva la presenza in tutte le forme cliniche ed in tutti gli stadi, ritenendo che in esso risieda il segreto della schizofrenia. Secondo Barison il manierismo schizofrenico ha fondamentalmente tre caratteristiche: la parassitarietà, l’intenzionalità ed il finalismo espressivo.
Il manierismo è parassitario in quanto complica atti normali e patologici, di per sé compiuti (in sostanza il manierismo non ha alcuna utilità per l’atto che va a complicare).
Per quanto riguarda invece l’intenzionalità ed il finalismo espressivo, questi vengono colti dallo psichiatra, con un atto intuitivo o con una osservazione attenta.
Barison parla di una teatralità dello schizofrenico, ben diversa dalla teatralità isterica, teatralità con cui lo schizofrenico «evita il rapporto diretto, sfugge al rapporto immediato con l’altro, deviando l’attenzione su una cascata di comportamenti parassitari che hanno praticamente il risultato di svuotare l’efficacia espressiva del gesto».
Con questa teatralità lo schizofrenico crea un mondo irreale, ed è proprio su questa creatività che Barison insiste per cercare il segreto dell’Anders, cioè l’alterità totale dello schizofrenico. Egli parla di intenzionalità, in senso husserliano. L’intenzionalità è per Husserl (come per Brentano ed i filosofi Scolastici) caratteristica specifica dei fenomeni psichici; essa consisterebbe essenzialmente nella direzionalità verso l’oggetto di cui si ha coscienza. Si tratta quindi di intenzionalità cosciente.
Barison parla di intenzionalità facendo riferimento a «un comportamento che mima, imita, comportamenti normali» e proprio in quanto li imita «non si può pensare che tale condotta non sia diretta ad agire su un ambiente interumano».
In sintesi con la mia breve disamina ho riferito di questa tendenza della psichiatria volta a percorrere la strada della comprensione, strada in cui si può riconoscere una faticosa costruzione e difesa della propria identità. Ipotizzando ad esempio un diverso volere o una intenzionalità, come caratteristica del manierismo schizofrenico, restituisce dignità al malato mentale che non appare più come semplice difettuale. È vero che questo indirizzo psichiatrico, oltre che restare minoritario, ha mostrato la corda cedendo all’empirismo della farmaco- psichiatria e della psichiatria sociale proprio perché al di là di affascinanti intuizioni non ha saputo cogliere la possibilità di affrontare ed opporsi a questa intenzionalità distruttiva dello schizofrenico,
Ora sappiamo che in realtà, per approfondire la ricerca era necessario uscire dalla forbice erklaren-verstehen per affrontare l’inconscio, per ricercare al di là di una intenzionalità cosciente, l’intenzionalità inconscia, sostenuta dalla pulsione di annullamento.
Ora mi pongo alcune domande, che vorrei girare alla vostra attenzione: se il manierismo è quel comportamento atto ad “esprimere sentimenti inesistenti nel soggetto”, mi chiedo se possiamo cogliere il flesso tra il manierismo e la pulsione che rende inesistente ciò che esiste ed esistente ciò che non esiste?
Se questo è possibile cosa rimane, al di là della pulsione, nel manierato? Per spiegarmi meglio: cos’è che differenzia lo schizofrenico manierato dallo schizofrenico simplex, in cui rimane apparentemente solo l’indifferenza?
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:09:58
Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97
Il caso Jurg Zund
di Gianfranco Vendrame
Il manierismo schizofrenico può essere inteso come l’espressività dell’essere “strano” schizofrenico. Lo strano allude alla sua irrealtà, al suo essere “irreale e presente”. L’irrealtà è tale da renderlo del tutto impermeabile, chiuso, opposto alla realtà. È l’autismo schizofrenico. «Lo schizofrenico non è soltanto un uomo chiuso al mondo, non è soltanto autista, ma è un autista manierato; esiste un manierismo che è qualcosa di particolare e di unico per lo schizofrenico».
Il clima di stranezza schizofrenica, che l’atto manierato crea, rimanda all’essere schizofrenico. Non è l’atto manierato ad essere irreale, ma l’essere dello schizofrenico. Così, non è l’atto manierato ad essere derealizzante, ma è l’essere dello schizofrenico.
Potremmo dire che l’espressività schizofrenica, sentita come teatralità, beffarda ironia, “rappresentazione sovraumana”, non è comunicazione interessata a derealizzare la realtà, ma è il modo di essere teso a nascondere l’irrealtà schizofrenica. Lo schizofrenico non dice: sono schizofrenico, perché egli è schizofrenico.
Le molteplici diversità della espressività schizofrenica, alludono a questa irrealtà che può animarsi al soffio di ciò che nasconde per diventare imprevedibile.
C’è chi di fronte ad essa, ponendosi sul piano della clinica, diremo alla Jaspers, fa l’esperienza di qualcosa di negativo, di incoerente e caotico, chi, ponendosi sul piano fenomenologico, apprezza un qualche cosa di ineffabile, di indefinibile ma positivo e caratteristico, cioè il “plus”, l’“Anders”, la produttività schizofrenica, e chi ponendosi sul piano della realtà inconscia, ne scopre l’aspetto pulsionale come attività diretta contro uno stimolo esterno.
L’espressività manierata accordata con lo strano, mimetizza lo schizofrenico e lo rende irriconoscibile. Dal suo rifiuto a rivelarsi egli trae le sue molteplici possibilità di mostrarsi. Parla così un linguaggio ormai dimenticato che deve, ogni volta inventare.
Il suo atteggiamento è una acrobazia, ma non è che egli deformi la propria realtà, piuttosto imita, in modo artefatto, un’immagine che non ha, rarefacendosi nel nulla. È l’apparire estraneo, arbitrario, come gioco di associazioni, di immagini che usa come unico strumento espressivo per quell’immagine interiore che non ha e che è inesprimibile; oppure soltanto un atteggiamento incapace di placarsi in una qualsiasi forma di rapporto umano.
Aspetti storici
La psichiatria, nella ricerca di “tracce di vita” nella schizofrenia, si è imbattuta nel comportamento manierato dello schizofrenico.
Allo stile della mimetizzazione, della dissimulazione, della finzione, della caricatura, esso deve il suo effetto inquietante.
Essenzialmente antirealistico, irrazionale, difficile, complicato, non ha un colorito affettivo, non agisce sui sentimenti, ma sull’intelletto e sul gusto. Si fa labile il con fine tra essere e apparire ed esso insinua il sospetto che anche la realtà oggettiva sia una finzione o un’illusione.
Nella settima edizione del suo Trattato di Psichiatria, che conserva ancora oggi un carattere di attualità, la demenza precoce è descritta da Kraepelin come «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive». Attorno a questa progressiva disgregazione, si strutturano elementi patologici che saranno clinicamente distinti nelle tre forme di demenza: ebefrenica, catatonica e paranoide. Nel capitolo sulle “Forme catatoniche” in più della metà dei casi, l’esito è una grave e caratteristica demenza. Cadono le idee deliranti e le allucinazioni, l’eccitamento poco a poco scompare e compaiono i segni della “debolezza psichica”.
L’ammalato divenuto apatico e indifferente, non si cura più dell’ambiente, non conosce più né ordine né pulizia, gioca con le figurine come un bambino. Alcuni malati rimangono a lungo a letto, non parlano, non rispondono; altri sono più vivaci, irritabili, irrequieti. È in quest’ultime forme che si manifestano i manierismi, come “deviazioni rigide e morbose, di azioni normali”. Contrariamente alle stereotipie, movimenti goffi, rigidi, grossolani che non hanno uno scopo né un rapporto con l’ambiente, che spesso continuano in modo uniforme per ore e che solo il contenimento fisico può impedire, i manierismi sono descritti come movimenti da automa, il fare smorfie, il fare mosse da arlecchino, il giocare con le dita, il girare gli occhi, l’aggredire improvviso.
Alcuni di questi gesti ricordano quelli che si fanno nei momenti di imbarazzo, come girare la testa da una parte, stringersi sulle spalle, toccarsi la testa, lisciarsi i capelli. Sono manierismi anche il disordine e la stravaganza nell’abbigliamento, lo strano modo di pettinarsi, di camminare, di parlare e di scrivere. È caratteristica degli stati catatonici questa particolare espressività; i malati urlano, strillano acutamente o in falsetto, ridono continuamente oppure parlano in lingue straniere inventate con rime e assonanze o con parole mutilate, tronche. Sono malati colpiti da una grave alterazione della volontà; dalla alterazione della facoltà del giudizio e soprattutto dell’affettività discendono, invece, il loro disinteresse e caratteristica indifferenza.
Kraepelin non entra nel significato, nelle ragioni interne del cambiamento, esclude qualsiasi considerazione della personalità e del vissuto del paziente. La sua descrizione poggia sulla distinzione delle funzioni mentali isolate: intelligenza, affettività, volontà e studiandone le alterazioni non supera tale distinzione.
Non sembra che Kant abbia avuto particolare influenza sulla nascente psichiatria tedesca, ma l’eco della logica che lo aveva guidato nella sua classificazione dei “difetti della mente”, sembra trovare nella sintesi di Kraepelin un ascolto. Scriveva Kant: «Ma è degno di meraviglia il fatto che le facoltà dell’animo messe in disordine si compongono in un sistema».
Non si dà un’assenza della ragione, ma una sua alienazione. Anche nel mondo della demenza, negli stati terminali, è dato cogliere questa non-perdita.
Kraepelin, scrivendo che tratto fondamentale della demenza praecox è «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive», non allude, nella sua concezione, ad una totale perdita della ragione, ma piuttosto ad una costruzione alienata, in cui il soggetto utilizza e convoglia in una direzione diversa dal “senso comune” le sue energie e la sua attività. La malattia è un tentativo di costruzione, basato su leggi diverse, ma non per questo meno solide. Nell’ebefrenia, infatti, la resistenza opposta al cambiamento fisico è attribuita all’indomabile necessità di un “non-movimento”; nella catatonia, il negativismo, all’inizio incerto, diverrà un elemento organizzatore della personalità.
La ricerca psichiatrica, in questi inizi, fa pensare come l’aspetto deficitario della malattia non escluda una attività nascosta.
Solo più tardi, questo pensiero affiorerà, dapprima come fenomeno della coscienza, poi, come realtà inconscia.
Nel “Gruppo delle schizofrenie” Bleuler chiamerà schizofrenia la demenza praecox perché la sua caratteristica più importante è la dissociazione mentale (Spaltung), la perdita cioè dell’unità della vita psichica e la frammentazione (Zerspaltung) delle componenti del pensiero.
Distingue i sintomi, dal punto di vista clinico, in fondamentali e accessori, e dal punto di vista della derivabilità psicologica, in primari e secondari.
I sintomi fondamentali, essenziali per la diagnosi e l’inquadramento nosografico:
dissociazione del pensiero, impoverimento dell’affettività, ambivalenza, autismo, disturbi della volontà, sono caratteristici della schizofrenia; quelli accessori:
allucinazioni, deliri, disturbi della memoria, della personalità, sintomi catatonici, compaiono anche in altre sindromi.
I sintomi fondamentali e accessori non si identificano con quelli primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) e secondari (autismo, ambivalenza, deterioramento schizofrenico, deliri, sintomi catatonici); i primi attengono ad un criterio diagnostico, i secondi ad uno psicopatologico e psicodinamico. La dissociazione è sintomo fondamentale e primario, l’autismo è fondamentale, ma secondario.
È importante questo approfondimento: dalla descrizione analitica delle funzioni mentali isolate, intelligenza, affettività, volontà, di Kraepelin, alla psicopatologia della schizofrenia.
Kraepelin aveva descritto una sintomatologia più ricca possibile, Bleuler espone i sintomi fondamentali. Kraepelin aveva dato il nome alla malattia, Bleuler denomina il malato. Kraepelin descrive il suo comportamento, Bleuler ricerca il suo significato.
Per ambedue la malattia non è perdita delle funzioni psichiche; neppure nei casi più gravi, scrive Bleuler, si può dimostrare una perdita dell’affettività che, se viene meno, può manifestarsi in un altro momento, oppure ad un esame più accurato.
Gli affetti più frequentemente conservati sono quelli che vanno nel senso dell’irritabilità, fino alla rabbia e all’ira.
La malattia è processo che produce direttamente i sintomi primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) che sono di origine psichica.
Bleuler è aperto alla psicoanalisi che cerca di integrare con la psichiatria. Egli inaugura l’approccio psicologico alla schizofrenia e la ricerca in un “senso”.
La personalità dissociata della schizofrenia, egli scrive, è dominata dai singoli complessi psichici. La loro attività conscia ed inconscia, causa le illusioni della memoria, le allucinazioni, i manierismi e gran parte delle stereotipie.
È l’effetto continuato di questi complessi all’origine dei manierismi.
Sono esagerazioni dettate dai complessi, l’affettazione catatonica, il comportamento impertinente di molti ebefrenici, la maestosità ridicola dei megalomani.
Anche la persona normale, ha la tendenza ad esagerare alcune espressioni. Come fanno i vanitosi e le persone orgogliose. Si fanno però notare di più quelli che vogliono sembrare quello che non sono.
Nell’uomo veramente distinto, l’atteggiamento fa parte del suo modo di essere e quindi non si nota. In colui che affetta la distinzione, invece, si nota il contrasto tra natura e affettazione. La persona colta è indifferente ai movimenti delle dita della mano. Chi vuol dimostrare una cultura che non ha, scrive Bleuler, si studia di tener divaricato il mignolo e fa movimenti esagerati a proposito e a sproposito. Così si comportano gli schizofrenici quando i complessi psichici acquistano un potere troppo grande.
La migliore occasione per il manierismo è data dal linguaggio. Bleuler cita lo stile ricercato, falsamente distinto, che fa un uso eccessivo di diminutivi. Cita la perseverazione, le contrazioni, le interruzioni che avvengono a metà frase.
L’espressione di questi malati è spesso ridondante, espongono banalità con «un’espressione estremamente contorta», «come se fossero in gioco i più alti interessi dell’umanità».
I manierismi sono così «cambiamenti vistosi delle azioni più usuali» nello sforzo di «mimare qualcosa di particolare, nel contegno, nella mimica, nell’abbigliamento, nel linguaggio e nella scrittura».
Nel 1921 viene pubblicato a Montpellier un lavoro di Reboul-Lachaux, dal titolo: Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses.
Questo autore considera all’origine del manierismo l’eccessiva irritabilità, l’automatismo, la modificazione patologica del giudizio e dell’affettività e dei loro reciproci rapporti. Si mette la ricerca di un «élément physiologique supplémentaire» che permetta di definire il manierismo, ma scrive sarebbe troppo precipitoso proporre subito «la vera teoria del manierismo».
Ritiene che esso possa manifestarsi in tutti i campi dell’attività umana e fa, per la prima volta, una estesa descrizione del manierismo della “persona sana”, in cui svolge un importante ruolo la fatuità.
Rileva che esso è fondato sull’assunzione di una maschera, sulla premeditazione, sulla ricercatezza, sulla manipolazione, come fosse presente una “intenzionalità”.
Ci interessa questa intuizione, perché è vicina a ciò che Kraepelin e Bleuler lasciano capire con l’idea di costruzione e perché sembra sottendere tutta la ricerca psichiatrica.
Reboul-Lachaux cita quindici osservazioni cliniche dicasi di demenza praecox che presentano manierismi, bizzarrie e smorfie, legati ai gesti e all’andatura, risultanti da un certo “grado di eccitazione psichica” connessa con l’“automatismo”. Sarebbero però false impressioni dovute a questi disturbi, mentre i veri comportamenti superficiali, innaturali, affettati sono dovuti alla discordanza tra i fenomeni psichici, in particolare tra l’affettività e il giudizio, l’intelligenza e l’azione.
Altri Autori hanno successivamente descritto il fenomeno del manierismo, come Tanzi e Lugaro (1923), Bini e Bazzi (1954), Leonhard (1962) che hanno integrato la nomenclatura di Kraepelin, accettando il suo indirizzo cliniconosografico.
Del manierismo si è occupato anche Minkowski ponendolo tra le alterazioni dell’espressività e accostandolo alla affettazione e alla teatralità.
Minkowski, come del resto Morselli ed altri psicopatologi, pur riconoscendo nella malattia non più una semplice costruzione, ma una attività psicopatologica originaria, di fronte al manierismo non vanno oltre alla descrizione iniziata con Kraepelin.
È con Rumke (1958) che a ricerca si approfondisce quando parla del “sentimento della schizofrenicità”, il Praecoxgefùhl e del segreto dello schizofrenico, come un “segreto della forma”.
Barison, più tardi, scriverà che gli atteggiamenti dello schizofrenico danno allo psichiatra esperto una impressione di assurdo che si coglie nella trama di elementi concreti, di gesti, parole, movimenti, come fosse qualcosa di nuovo, di diverso, di peculiare.
Tale assurdo sarebbe non solo “nuovo” per il pensiero normale, ma è sempre “nuovo” ad ogni nuova osservazione. Esso costituisce lo “strano” schizofrenico che lo psichiatra riconosce come tipico in forza di quel “senso della schizofrenicità”, di quel “Praecoxgefuhl”, di quell’atto cioè di intuitiva visione dell’essenza di qualcosa di specifico della “schizofrenicità”.
Inerente allo “strano schizofrenico” è il manierismo, le cui qualità fondamentali, scrive Barison, sono:
1 - il parassitismo: il manierismo è una complicanza sovrapposta al comportamento con cui non ha apparentemente alcun nesso logico né affettivo;
2 - l’espressività: il manierismo ha una finalità espressiva;
3 - l’intenzionalità: il soggetto si comporta come se volesse esprimere qualcosa.
Il manierismo sarebbe dunque un intervento attivo che modifica l’espressione in atto.
Sarebbe una modalità attiva di mimare sentimenti estranei all’azione, nell’azione.
È una teatralità il cui scopo evidente è quello di annientare la realtà espressiva, un tentativo di “derealizzare la realtà”, un modo per lo schizofrenico di far scoppiare la realtà sotto la spinta di una potentissima forza istintiva, un modo di realizzare, vivendo la realtà, la sua pulsione antirealistica.
È di fronte al fatto psicopatologico che la ricerca psichiatrica scrive e riscrive la malattia, nel tentativo di coglierne il significato profondo, il senso, come se il concetto stesso di malattia continuamente sfuggisse.
L’“incomprensibilità” di Jaspers (1913) sembra pesare come un oscuro difetto dello psichiatra.
Il manierismo come fallimento dell’esistenza. Il caso Jurg Zund
È forse riferibile a questa difficoltà, se autori, come Binswanger, hanno ispirato il loro lavoro, la Daseinsanalyse o analisi della presenza, non alla conoscenza della psichiatria o della psicologia, ma alla filosofia di Husserl ed Heidegger, traendo da essa il metodo di indagine ed il linguaggio. È forse riferibile a questa difficoltà la nuova teoria della supremazia della coscienza con la sua caratteristica di “intenzionalità” e con la sua proprietà di essere svelatrice di “senso”. Alla difficoltà della psichiatria di riconoscere la malattia, Binswanger risponde che la malattia non esiste. Il metodo della Daseinsanalyse si differenzia così da quello della psichiatria. Riferendosi al caso Jurg Zund, Binswanger scrive che la Daseinsanalyse si differenzia dalla psicopatologia non solo perché essa non mira alla comprensione di un fatto psichico, ma perché ignora di proposito la differenza tra sano e malato.
L’uno e l’altro sono variazioni del comune a priori essere-nel-mondo, anche se il sano si propone nel senso della “riuscita” del proprio esistere, ed il malato nel senso del “fallimento”.
Se uno psichiatra rileva in un malato dei comportamenti artificiosi, egli è indotto a definirli come manierismi ed a ritenerli sintomi di una schizofrenia. Il daseinsanalista, invece, non si chiederà perché queste manifestazioni artefatte ed innaturali siano da considerarsi patologiche, ma piuttosto come mai la schizofrenia abbia una così forte tendenza ad esprimersi manieristicamente, considerando il manierismo non tanto come sintomo di un quadro clinico, ma come forma particolare in cui può “fallire” la presenza, per cui una persona abdicando alla propria autenticità, si manifesta in una radicale inautenticità, nascondendo ed anche perdendo se stesso.
Nel suo lavoro Tre forme di esistenza mancata (1956), accanto all’esaltazione fissata e alla stramberia, Binswanger considera il manierismo come una minaccia immanente all’uomo per la sua riuscita, una forma di esistenza mancata, modi cioè in cui si esplica il fallimento dell’esistenza. Nell’esaltazione fissata, il fallimento dell’uomo sarebbe dovuto alla sproporzione tra l’altezza delle aspirazioni e l’ampiezza dell’esperienza. Come l’alpinista inesperto che, raggiunto un punto troppo elevato per le sue capacità, non sa più né salire né scendere. Nella stramberia, il soggetto pone qualcosa “di traverso” tra sé e il mondo, qualcosa che impedisce il rapporto con gli altri. L’esempio è quello della vite storta che non riuscendo ad avvitarsi, si ferma. Nel manierismo è il tendere verso l’alto contorcendosi tramite un artificio tecnico. L’artificio servirebbe a supplire, compensare, una carenza.
La parola “manierismo” designerebbe l’effetto suscitato nello spettatore, nell’ascoltatore, di stranezza, l’impressione che un certo comportamento sia sorprendente, stupefacente, assurdo, estraneo, eccentrico. Oppure, ancora, ricercato, affettato, artificioso, contorto.
L’essenza del manierismo sarebbe questa artificiosità, questo contorcersi verso una altezza ricercata, innaturale, in risposta ad una incompletezza dell’essere, ad una sua inautenticità.
Adottando la distinzione haeideggeriana tra essere autentico ed essere inautentico, Binswanger scrive che il manierato non è in grado di vivere nella autenticità della propria concreta situazione, ma sarebbe costretto ad assumere una maschera per supplire alla mancanza di un volto proprio.
È il caso dello studente universitario Jurg Zund.
Da ragazzo è molto vivace, impulsivo, aggressivo, ma angosciato da sensazioni corporee abnormi. Egli si muove in tre “mondi” tra loro contraddittori, che non riuscirà mai a superare. Innanzi tutto il mondo “proletario”, quello della via in cui abita; in questo mondo il giovane Jurg Zund si comporta da monello.
Quando, dopo la scuola il padre, persona schiva, irritabile, va a prenderlo sulla strada dove si è attardato, egli si sente commiserato dai compagni. Si rimprovera di sentirsi meglio sulla strada, poiché a casa è sempre impaurito da una madre minacciosa ed imprevedibile. Mal sopporta il fatto che per i vicini, i genitori siano considerati poco socievoli, strani, altezzosi. Il padre, musicista, è ritenuto in famiglia “un gran nevrastenico”. La madre è giudicata arrogante, ambiziosa, imprevedibile. Poiché il comportamento dei genitori suscita le critiche della gente, egli si sente indifeso, minacciato, allo sbaraglio. Avverte così vivissimo l’intimo bisogno di doversi nascondere, di occultare se stesso; un bisogno che lo accompagnerà per tutta la vita.
Accanto al mondo della strada e a quello soffocante della famiglia, ne esiste un terzo, quello in cui vivono il nonno e due zii materni. Questi godono di buona reputazione per il loro comportamento da gran signori. Abitano il piano di sotto e qui il giovane Zund si sente protetto e più libero. Se i genitori non uscivano mai da casa, i parenti lo invitano spesso alle gite domenicali. Lo zio, poi, lo loda proprio per quelle ragazzate sulla strada che il padre gli rimproverava aspramente.
«Vediamo quindi», dice Binswanger, «che l’esistenza di Jurg Zund è minacciata fin dall’inizio da una scissione, da una triplicità di direzioni».
Egli è diviso di volta in volta in tre “mondi”, quello insofferente della strada, quello della famiglia e quello dei parenti, tra loro diversi e irrapportabili. Adotta il modello ora di un “mondo” ora di un altro, seguendo le maniere dell’uno o dell’altro “mondo”. Jùrg Zùnd non riesce ad esistere che rispecchiandosi in questo o in quel “mondo”, senza poter fare emergere mai una propria personalità.
In preda a sentimenti di inferiorità, si chiede sempre più preoccupato quale impressione faccia alla gente. Appare sempre meno spontaneo, sempre più artefatto. Constata che i suoi movimenti e la sua figura destano il riso della gente, come quando si toglie il cappotto o quando cammina dimenando le braccia. Perciò si sente costantemente al centro della critica e preferirebbe scomparire “nell’anonimato della massa”.
Questi tentativi di occultamento si riveleranno come faticosi, esagerati, contorti e perciò destinati a fallire.
Il manierato, l’artificioso, il ricercato, sarebbero serviti, scrive Binswanger, a nascondere la sua paura della vita, ad arginare l’angoscia per l’esistenza, A partire dal trentasettesimo anno Jurg Zund si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Nel considerare l’intero decorso della sua esistenza, Binswanger nota che al posto della scissione degli anni dell’infanzia, al posto dell’impossibilità di sentirsi a suo agio nei suoi “mondi”, al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera” signorile, al posto di tutto questo sia intervenuta una relativa calma.
Per Binswanger, ciò è stato possibile soltanto al prezzo della rinuncia a una sua autonomia. Jurg Zund rinunciando a lottare si è ritirato nella clinica e affidato alle sue cure. Mentre un primo medico aveva affermato che “data la sua estraneità al mondo, i suoi modi esaltati, affettati e bizzarri..., andava indubbiamente considerato uno “schizofrenico” un altro medico l’aveva diagnosticato come “schizoide”.
Per Binswanger rappresenta un caso di schizofrenia simplex polimorfa. Questa forma clinica definita da Binswanger polimorfa, presenta un insieme di sintomi “analoghi a quelli delle nevrosi”, sintomi fobici, depressivi, ipocondriaci, isterici. La caratteristica principale è il progressivo impoverimento e deterioramento del comportamento. Tale forma clinica è nel Trattato Italiano di Psichiatria, descritto come “schizofrenia pseudonevrotica”. In questi casi non sono presenti sintomi schizofrenici evidenti in quanto mascherati dalla sintomatologia “nevrotica” che domina il quadro. Data l’assenza di sintomi chiari di schizofrenia, questi casi vengono oggi esclusi dalla diagnosi di schizofrenia.
E, anche noi, facendo nostra l’analisi di Binswanger, ci domandiamo se il giovane Jurg Zund che si sente costantemente sulle spine per la paura dei rimproveri, di un improvviso declassamento, che, scrive Binswanger, si interessa degli altri, ma insieme è imbarazzato e si vergogna di questo interesse tanto da assumere una maschera, un contegno stereotipato e goffo e voler scomparire dalla faccia della terra, ci domandiamo se sia veramente uno schizofrenico.
E ci domandiamo se l’imitazione dei “mondi” in cui Zund si specchia non sia, in qualche modo, rapporto con le persone che li abitano, di cui adotta le maniere, seguendo ora questo ora quest’altro modello.
Con Binswanger viene meno quella ricerca di mettere in luce l’incomprensibile, lo “strano”, il dissociato, che ha indubbiamente richiesto lo sforzo di liberarsi innanzitutto dalla alienazione religiosa, come presupposto per la conoscenza.
Ciò che importa, sostiene, è riuscire a mostrare che la forma d’esistenza del manierismo non è qualcosa che inerisce specificatamente alla schizofrenia, in quanto malattia mentale, ma che essa corrisponde ad una forma di esistenza umana generale.
Questo radicamento nel sentimento immediato della esistenza, sembra impedire lo sviluppo di una conoscenza; le descrizioni di Binswanger sono ricche di illuminazioni appassionate, ma secondario appare l’interesse terapeutico.
Noi pensiamo il manierismo come l’espressività dell’essere strano “irreale e presente” schizofrenico, in cui la peculiarità sembra essere un’esistenza che risulti il più possibile irreale. L’espressione può diventare la meno espressiva possibile, quasi per togliere ogni realtà alla realtà dei sentimenti. Il malato così facendo rappresenta il nucleo più profondo della sua personalità schizofrenica.
Non quindi un modo di essere, un arricchimento fittizio cui si possono contrapporre altri, fondati sull’impoverimento della vita, sul decadimento della personalità e neppure un sintomo, essendo il manierismo del tutto indipendente dal decorso acuto o cronico della malattia.
L’approccio fenomenologico cogliendo il significato del comportamento, cogliendo lo stile particolare dell’assurdo, trascende il fatto che lo schizofrenico è “irreale e presente”. Il modo di essere rivelerebbe così una sua autenticità, una sua realtà, una trasformazione nuova. Ma così facendo, sfugge il “segreto” dello schizofrenico, la sua incomprensibilità, l’incomprensibilità della pulsione di annullamento. Ciò comporta una infinita descrizione dei fenomeni psichici, senza poterli mai definire.
In questa difficoltà la psichiatria si priva di qualità scientifiche.
L’antropoanalisi, infatti, guarda la malattia chiudendo gli occhi sulla realtà psichica, sulle sue dinamiche, sulle sue possibilità. Essa comprende la disperazione, il disagio, il dramma, ma non va oltre la presa di coscienza dei fatti evidenti. Si stabilisce così un’alleanza col paziente che mira a nascondere la sua ribellione, la sua rabbia, a nascondere la realtà che ha in sé latente la violenza.
Jurg Zund era schizofrenico. Non polimorfo, per dire più nevrotico che schizofrenico, come prima ci domandavamo. Forse, inizialmente ammalato non di schizofrenia simplex, ma di schizofrenia ebefrenica.
Dall’età di 37 anni, si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Fin da ragazzo soffre di “stati angosciosi e di sensazioni corporee abnormi”. Ha disturbi alle gambe, ai genitali, soffre per la possibilità di essere osservato in uno stato di erezione, simbolo per lui della sua estrazione proletaria, tanto da essere indotto a nascondersi (il lungo mantello, le passeggiate solo quando si fa scuro ecc.).
Ci ricorda un altro ammalato che giunse all’analisi all’età di 34 anni, con fenomeni di depersonalizzazione corporea alle gambe e alle braccia. Costui aveva perso la propria identificazione fondamentale e solo il continuo lavoro di interpretazione della pulsione di annullamento che l’aveva fatta sparire, lo guarirà dalla malattia schizofrenica. Non sarà questa la sorte di Zund, anch’egli dissociato, anch’egli delirante. Non c’è, infatti, in Binswanger, alcuna proposizione di ricerca. Solo una descrizione dei fatti evidenti.
Ci dispiace così il progressivo crollo di Zund, il suo inesorabile scivolare verso la Clinica, la continua, drammatica delusione del suo nascosto essere “poppante al seno”. L’adozione di una “maschera signorile”, di uno stile, ci verrebbe da dire, di seconda mano, rigido e formale è il suo primo essere schizofrenico manierato che rifiuta il mondo.
Liberatosi dal rapporto sadomasochistico e dalle identificazioni, egli si sente esistere solo nella imitazione, nell’assunzione dei modelli offertigli. A differenza del simplex, egli lotta e, rispecchiandosi nei tre diversi mondi, non raggiunge il nulla. Trae da dentro di sé la forza per la recitazione, e ne fa la sua espressività. Non sa mai configurare un problema se non sotto forma di paradosso e ciò, sappiamo, per l’istinto di morte come realizzazione di non essere, apparire senza essere, essere “irreale e presente”.
Per conseguire il suo effetto, Zund adotta modelli che impone ai suoi spettatori, così da apparire estraneo, ed in questo è consapevole di trasformare il rapporto in qualcosa che non è e non può essere.
Con il contegno stereotipato e innaturale tiene lontano un mondo che gli appare arbitrario, negandolo e anche disprezzandolo. Come fosse presente non tanto una indifferenza, ma soprattutto una forte rabbia, un forte odio.
Con la sua andatura e con l’insieme del comportamento manierato, sembra non permettere a nessuno di partecipare a ciò che lo angoscia. Nella sua intima contraddizione rifiuta il mondo e gli uomini che sono a lui indispensabili come avversari, vittime, spettatori. Nella sua lotta di libertà e indipendenza essi sono spettatori immobili cui imporre il proprio comportamento. Così egli riesce a nascondersi e fare di se stesso un essere manierato e angosciante.
«È la recita leggiamo ne La marionetta e il burattino di un uomo che non vuole andare incontro a delusioni, non vuole diventare castrato, cioè pieno di odio e rabbia in un rapporto sadomasochistico con gli altri. Diventa e preferisce essere manierato, affettato, legnoso. Ha scelto la strada dell’opposizione e del rifiuto portando il suo modo di essere nel rapporto con gli altri ad un modo di essere pantomimico... E rifiuta anche di vivere e rivelare la sua realtà di poppante desideroso di carezze. Da questo rifiuto nasce la persona manierata, affettata, cortese che tende sempre a tenere lontano l’altro, a distanziarlo fino a paralizzarlo nella più disumana espressione dell’esibizionismo della schizofrenia catatonica».
Rispecchiandosi nel mondo aristocratico dei parenti del “piano di sotto”, Jurg Zund adotta un modello signorile. Lo specchio dice la verità, ma nello stesso tempo, mente. È cristallino, liscio, ma insieme fragile e delicato. La pulsione distrugge l’immagine e riduce immagine e specchio ad una frammentazione. Nel considerare l’intero decorso dell’esistenza di Zund, Binswanger nota infatti, che al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera signorile”, sia intervenuta una relativa calma.
Nella Clinica Jurg Zund si sente benissimo, ha la possibilità di uscire liberamente, ma, pur riuscendo persino a dare lezioni private ai figli di un medico, le sue capacità lavorative sono molto diminuite. Solo ora potremmo parlare di schizofrenia simplex. Nel suo isolamento, nel suo comportamento discreto, Jurg Zund non vive emozioni, non ha angosce, ha annullato la sua ribellione e la sua lotta. Dirigendo l’istinto di morte come pulsione attiva, fantasia di sparizione contro il mondo umano, egli ha realizzato se stesso come anaffettivo ed indifferente.
Leggiamo ancora ne La marionetta e il burattino che lo schizofrenico semplice «è lo schizofrenico adattato al manicomio che conduce i suoi giorni nel lavoro routinario. La crisi che lo rese pazzo... è un ricordo di un tempo lontano (...). L’estrema ribellione della fuga ha dovuto essere trasformata in fantasia di annullamento, in chiusura degli occhi su tutto e tutti. lo non ci sono».
E più avanti ancora: «La possibilità di rendere inesistenti gli “affetti” nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla... Il suo pensiero..., è la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero di ciò che non è materiale da ciò che è materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia, la fantasia di sparizione che rende inesistente sé e gli altri».
Binswanger non coglie nella sua analisi il nulla dell’atto espressivo nello schizofrenico manierato; coglie il manierismo come costruzione che tende a nascondere, ma non va oltre. Attribuisce ad esso il significato di seguire modelli offertigli dagli altri, adottandone le maniere, come fossero modalità di esistenza.
Non coglie il manierismo come espressione di quell’essere irreale e presente schizofrenico che non vuole mostrare nulla, ma solo proporre un rapporto non vero per nascondere la propria realtà, ma anche come espressione di quell’essere, com’era Jùrg Zùnd, «poppante desideroso di carezze», andato incontro a continue delusioni.
Mi sembrano infine necessarie alcune brevi osservazioni tratte dall’esperienza diretta di M. Fagioli che nei primi anni ‘60 ha lavorato presso la Clinica Bellevue di Kreuzlingen.
In Bambino donna e trasformazione dell’uomo scrive: «Non esiste una pratica analitica di tipo binswangeriano, tanto che a Kreuzlingen, era obbligatorio, per contratto, una analisi personale freudiana o junghiana. E ci sono ragioni teoriche alla inesistenza di terapia. La negazione della patologia conduce immediatamente alla negazione di ogni terapia».
E più avanti: «A Kreuzlingen ogni medico era libero di lavorare come credeva. Non c’era nessuna scuola. Binswanger aveva fatto i suoi studi e ciascuno era libero di interessarsene o non interessarsene. (...) Come studioso era indubbiamente stimabile anche se limitato alla osservazione cosciente della malattia mentale; buon fenomenologo, discreto scrittore.
Come terapeuta non l’ho mai visto lavorare e, per quanto diceva, non aveva avuto mai nessun interesse a curare i malati. A lui interessava osservare, pensare e... scrivere, come peraltro risulta dalle sue opere». Questa, la testimonianza di M. Fagioli, dalla quale noi possiamo ancora cogliere come Binswanger vada inserito in un contesto storico-culturale, iniziato con al di là del principio del piacere in cui l’istinto di morte è codificato come sadismo. «Non riuscire a vedere — scrive Fagioli — cosa c’è al di là del sadismo conduce alla codificazione di esso come istinto, ovvero come tendenza umana immodificabile. Gli uomini sarebbero, soltanto ed esclusivamente per la distruzione, vanno quindi dominati, controllati, sottomessi all’obbedienza della mente, della ragione...».
La riproposizione di una perversione umana originaria, Freud la completerà nel Il problema economico del masochismo (1924) e ne La negazione (1925) «in cui si nega qualsiasi possibilità che nell’uomo possa esistere un rifiuto, un NO alla distruzione come esigenza interna propria agli esseri umani».
Nel 1943 compare L’essere e il nulla di Sartre, in cui, come in Binswanger, vi è la negazione dell’inconscio. Quanto accadeva in Europa era semplicemente “fenomeno”. L’irruzione dell’inconscio, il sadomasochismo, viene detto fenomeno “diverso”, umano. Il suicidio di Ellen West è atto di autenticità e libertà.
Freud, con Analisi terminabile e interminabile del 1937, in cui affermava l’inutilità di qualsiasi terapia o progetto trasformativo, rientra in una “psicoanalisi” come fenomenologia, dal momento in cui essa non riesce ad andare oltre la semplice descrizione dei fatti psichici coscienti.
È interessante notare come questa concezione della malattia mentale, come forma di esistenza e libertà, sia stata presente nell’antipsichiatria. Basaglia, che ha introdotto in Italia le idee dell’antipsichiatria, si era dedicato allo studio della fenomenologia. Mettere tra parentesi la malattia mentale, la sospensione del giudizio, l’epochè di Husserl, voleva dire infatti che i sintomi della malattia dovevano essere dapprima intesi come la risposta naturale ad una violenza ambientale che doveva essere eliminata, e che solo in quest’ottica la parentesi poteva essere riaperta.
Anche Laing e Cooper hanno una formazione fenomenologica.
In L’io diviso Laing adopera i termini “schizoide” e “schizofrenico” in senso fenomenologico-esistenziale. Le cose dette e fatte da uno schizofrenico, dice, possono essere capite solo se si comprende il loro contesto esistenziale.
Cooper nel 1978 pubblica Il linguaggio della follia in cui sostiene che la follia è una proprietà sociale di cui siamo stati derubati: dobbiamo riappropriarcene politicamente perché possa diventare creatività e spontaneità in una società trasformata.
Sul filone fenomenologico-inglese si innesta dagli Stati Uniti il contributo per l’antipsichiatria di E. Goffman e T. Szasz.
Per Goffman il folle è una persona che avendo causato nella società dei guai, spinge qualcuno ad “intraprendere un’azione psichiatrica” contro di lui. Ciò porta al ricovero coatto che ha implicita la definizione di malato di mente. Il folle è la vittima, lo psichiatra l’aggressore; il manicomio viene così svelato nella sua logica di essere a favore della società e contro la follia.
I. Szasz, invece, tenta di demolire il concetto stesso di malattia.
Nel 1961 pubblica Il mito della malattia mentale dove sostiene che la malattia mentale è un’invenzione sociale per espropriare uno spazio di libertà, non gradito al potere. La categoria del folle, suddivisa nella complicata nosografia clinica, sarebbe pura finzione e il termine malattia mentale, una metafora.
Nel 1956 Gregory Bateson pubblica Verso un’ecologia della mente dove appare il termine “doppio legame”. Con esso si intende un rapporto nel quale all’individuo coinvolto vengono inviati contemporaneamente messaggi di due tipi, di cui uno nega l’altro senza che egli sia in grado di dare una risposta.
L’ipotesi di Bateson è che in una situazione di doppio legame, la capacità di comunicare diminuisce fino a cessare. La schizofrenia non sarebbe altro, allora, che un disturbo della possibilità di comunicare che sfocia nel delirio e nella dissociazione verbale.
Il freudismo e la fenomenologia, da punti di vista apparentemente diversi, hanno così cercato di distruggere l’identità dello psichiatra, attaccando l’oggetto del suo interesse, la persona malata, intendendola come realtà incurabile e inconoscibile o addirittura come realtà inesistente. È la concezione dell’inconscio originariamente ammalato che ha portato la psichiatria a girare intorno a se stessa senza via di uscita. Riprendere ora la ricerca alla luce delle nuove scoperte sull’inconscio, è uno storico superamento del passato, una separazione che ripropone uno studio del tutto nuovo della psicopatologia.
Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97
Il caso Jurg Zund
di Gianfranco Vendrame
Il manierismo schizofrenico può essere inteso come l’espressività dell’essere “strano” schizofrenico. Lo strano allude alla sua irrealtà, al suo essere “irreale e presente”. L’irrealtà è tale da renderlo del tutto impermeabile, chiuso, opposto alla realtà. È l’autismo schizofrenico. «Lo schizofrenico non è soltanto un uomo chiuso al mondo, non è soltanto autista, ma è un autista manierato; esiste un manierismo che è qualcosa di particolare e di unico per lo schizofrenico».
Il clima di stranezza schizofrenica, che l’atto manierato crea, rimanda all’essere schizofrenico. Non è l’atto manierato ad essere irreale, ma l’essere dello schizofrenico. Così, non è l’atto manierato ad essere derealizzante, ma è l’essere dello schizofrenico.
Potremmo dire che l’espressività schizofrenica, sentita come teatralità, beffarda ironia, “rappresentazione sovraumana”, non è comunicazione interessata a derealizzare la realtà, ma è il modo di essere teso a nascondere l’irrealtà schizofrenica. Lo schizofrenico non dice: sono schizofrenico, perché egli è schizofrenico.
Le molteplici diversità della espressività schizofrenica, alludono a questa irrealtà che può animarsi al soffio di ciò che nasconde per diventare imprevedibile.
C’è chi di fronte ad essa, ponendosi sul piano della clinica, diremo alla Jaspers, fa l’esperienza di qualcosa di negativo, di incoerente e caotico, chi, ponendosi sul piano fenomenologico, apprezza un qualche cosa di ineffabile, di indefinibile ma positivo e caratteristico, cioè il “plus”, l’“Anders”, la produttività schizofrenica, e chi ponendosi sul piano della realtà inconscia, ne scopre l’aspetto pulsionale come attività diretta contro uno stimolo esterno.
L’espressività manierata accordata con lo strano, mimetizza lo schizofrenico e lo rende irriconoscibile. Dal suo rifiuto a rivelarsi egli trae le sue molteplici possibilità di mostrarsi. Parla così un linguaggio ormai dimenticato che deve, ogni volta inventare.
Il suo atteggiamento è una acrobazia, ma non è che egli deformi la propria realtà, piuttosto imita, in modo artefatto, un’immagine che non ha, rarefacendosi nel nulla. È l’apparire estraneo, arbitrario, come gioco di associazioni, di immagini che usa come unico strumento espressivo per quell’immagine interiore che non ha e che è inesprimibile; oppure soltanto un atteggiamento incapace di placarsi in una qualsiasi forma di rapporto umano.
Aspetti storici
La psichiatria, nella ricerca di “tracce di vita” nella schizofrenia, si è imbattuta nel comportamento manierato dello schizofrenico.
Allo stile della mimetizzazione, della dissimulazione, della finzione, della caricatura, esso deve il suo effetto inquietante.
Essenzialmente antirealistico, irrazionale, difficile, complicato, non ha un colorito affettivo, non agisce sui sentimenti, ma sull’intelletto e sul gusto. Si fa labile il con fine tra essere e apparire ed esso insinua il sospetto che anche la realtà oggettiva sia una finzione o un’illusione.
Nella settima edizione del suo Trattato di Psichiatria, che conserva ancora oggi un carattere di attualità, la demenza precoce è descritta da Kraepelin come «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive». Attorno a questa progressiva disgregazione, si strutturano elementi patologici che saranno clinicamente distinti nelle tre forme di demenza: ebefrenica, catatonica e paranoide. Nel capitolo sulle “Forme catatoniche” in più della metà dei casi, l’esito è una grave e caratteristica demenza. Cadono le idee deliranti e le allucinazioni, l’eccitamento poco a poco scompare e compaiono i segni della “debolezza psichica”.
L’ammalato divenuto apatico e indifferente, non si cura più dell’ambiente, non conosce più né ordine né pulizia, gioca con le figurine come un bambino. Alcuni malati rimangono a lungo a letto, non parlano, non rispondono; altri sono più vivaci, irritabili, irrequieti. È in quest’ultime forme che si manifestano i manierismi, come “deviazioni rigide e morbose, di azioni normali”. Contrariamente alle stereotipie, movimenti goffi, rigidi, grossolani che non hanno uno scopo né un rapporto con l’ambiente, che spesso continuano in modo uniforme per ore e che solo il contenimento fisico può impedire, i manierismi sono descritti come movimenti da automa, il fare smorfie, il fare mosse da arlecchino, il giocare con le dita, il girare gli occhi, l’aggredire improvviso.
Alcuni di questi gesti ricordano quelli che si fanno nei momenti di imbarazzo, come girare la testa da una parte, stringersi sulle spalle, toccarsi la testa, lisciarsi i capelli. Sono manierismi anche il disordine e la stravaganza nell’abbigliamento, lo strano modo di pettinarsi, di camminare, di parlare e di scrivere. È caratteristica degli stati catatonici questa particolare espressività; i malati urlano, strillano acutamente o in falsetto, ridono continuamente oppure parlano in lingue straniere inventate con rime e assonanze o con parole mutilate, tronche. Sono malati colpiti da una grave alterazione della volontà; dalla alterazione della facoltà del giudizio e soprattutto dell’affettività discendono, invece, il loro disinteresse e caratteristica indifferenza.
Kraepelin non entra nel significato, nelle ragioni interne del cambiamento, esclude qualsiasi considerazione della personalità e del vissuto del paziente. La sua descrizione poggia sulla distinzione delle funzioni mentali isolate: intelligenza, affettività, volontà e studiandone le alterazioni non supera tale distinzione.
Non sembra che Kant abbia avuto particolare influenza sulla nascente psichiatria tedesca, ma l’eco della logica che lo aveva guidato nella sua classificazione dei “difetti della mente”, sembra trovare nella sintesi di Kraepelin un ascolto. Scriveva Kant: «Ma è degno di meraviglia il fatto che le facoltà dell’animo messe in disordine si compongono in un sistema».
Non si dà un’assenza della ragione, ma una sua alienazione. Anche nel mondo della demenza, negli stati terminali, è dato cogliere questa non-perdita.
Kraepelin, scrivendo che tratto fondamentale della demenza praecox è «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive», non allude, nella sua concezione, ad una totale perdita della ragione, ma piuttosto ad una costruzione alienata, in cui il soggetto utilizza e convoglia in una direzione diversa dal “senso comune” le sue energie e la sua attività. La malattia è un tentativo di costruzione, basato su leggi diverse, ma non per questo meno solide. Nell’ebefrenia, infatti, la resistenza opposta al cambiamento fisico è attribuita all’indomabile necessità di un “non-movimento”; nella catatonia, il negativismo, all’inizio incerto, diverrà un elemento organizzatore della personalità.
La ricerca psichiatrica, in questi inizi, fa pensare come l’aspetto deficitario della malattia non escluda una attività nascosta.
Solo più tardi, questo pensiero affiorerà, dapprima come fenomeno della coscienza, poi, come realtà inconscia.
Nel “Gruppo delle schizofrenie” Bleuler chiamerà schizofrenia la demenza praecox perché la sua caratteristica più importante è la dissociazione mentale (Spaltung), la perdita cioè dell’unità della vita psichica e la frammentazione (Zerspaltung) delle componenti del pensiero.
Distingue i sintomi, dal punto di vista clinico, in fondamentali e accessori, e dal punto di vista della derivabilità psicologica, in primari e secondari.
I sintomi fondamentali, essenziali per la diagnosi e l’inquadramento nosografico:
dissociazione del pensiero, impoverimento dell’affettività, ambivalenza, autismo, disturbi della volontà, sono caratteristici della schizofrenia; quelli accessori:
allucinazioni, deliri, disturbi della memoria, della personalità, sintomi catatonici, compaiono anche in altre sindromi.
I sintomi fondamentali e accessori non si identificano con quelli primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) e secondari (autismo, ambivalenza, deterioramento schizofrenico, deliri, sintomi catatonici); i primi attengono ad un criterio diagnostico, i secondi ad uno psicopatologico e psicodinamico. La dissociazione è sintomo fondamentale e primario, l’autismo è fondamentale, ma secondario.
È importante questo approfondimento: dalla descrizione analitica delle funzioni mentali isolate, intelligenza, affettività, volontà, di Kraepelin, alla psicopatologia della schizofrenia.
Kraepelin aveva descritto una sintomatologia più ricca possibile, Bleuler espone i sintomi fondamentali. Kraepelin aveva dato il nome alla malattia, Bleuler denomina il malato. Kraepelin descrive il suo comportamento, Bleuler ricerca il suo significato.
Per ambedue la malattia non è perdita delle funzioni psichiche; neppure nei casi più gravi, scrive Bleuler, si può dimostrare una perdita dell’affettività che, se viene meno, può manifestarsi in un altro momento, oppure ad un esame più accurato.
Gli affetti più frequentemente conservati sono quelli che vanno nel senso dell’irritabilità, fino alla rabbia e all’ira.
La malattia è processo che produce direttamente i sintomi primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) che sono di origine psichica.
Bleuler è aperto alla psicoanalisi che cerca di integrare con la psichiatria. Egli inaugura l’approccio psicologico alla schizofrenia e la ricerca in un “senso”.
La personalità dissociata della schizofrenia, egli scrive, è dominata dai singoli complessi psichici. La loro attività conscia ed inconscia, causa le illusioni della memoria, le allucinazioni, i manierismi e gran parte delle stereotipie.
È l’effetto continuato di questi complessi all’origine dei manierismi.
Sono esagerazioni dettate dai complessi, l’affettazione catatonica, il comportamento impertinente di molti ebefrenici, la maestosità ridicola dei megalomani.
Anche la persona normale, ha la tendenza ad esagerare alcune espressioni. Come fanno i vanitosi e le persone orgogliose. Si fanno però notare di più quelli che vogliono sembrare quello che non sono.
Nell’uomo veramente distinto, l’atteggiamento fa parte del suo modo di essere e quindi non si nota. In colui che affetta la distinzione, invece, si nota il contrasto tra natura e affettazione. La persona colta è indifferente ai movimenti delle dita della mano. Chi vuol dimostrare una cultura che non ha, scrive Bleuler, si studia di tener divaricato il mignolo e fa movimenti esagerati a proposito e a sproposito. Così si comportano gli schizofrenici quando i complessi psichici acquistano un potere troppo grande.
La migliore occasione per il manierismo è data dal linguaggio. Bleuler cita lo stile ricercato, falsamente distinto, che fa un uso eccessivo di diminutivi. Cita la perseverazione, le contrazioni, le interruzioni che avvengono a metà frase.
L’espressione di questi malati è spesso ridondante, espongono banalità con «un’espressione estremamente contorta», «come se fossero in gioco i più alti interessi dell’umanità».
I manierismi sono così «cambiamenti vistosi delle azioni più usuali» nello sforzo di «mimare qualcosa di particolare, nel contegno, nella mimica, nell’abbigliamento, nel linguaggio e nella scrittura».
Nel 1921 viene pubblicato a Montpellier un lavoro di Reboul-Lachaux, dal titolo: Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses.
Questo autore considera all’origine del manierismo l’eccessiva irritabilità, l’automatismo, la modificazione patologica del giudizio e dell’affettività e dei loro reciproci rapporti. Si mette la ricerca di un «élément physiologique supplémentaire» che permetta di definire il manierismo, ma scrive sarebbe troppo precipitoso proporre subito «la vera teoria del manierismo».
Ritiene che esso possa manifestarsi in tutti i campi dell’attività umana e fa, per la prima volta, una estesa descrizione del manierismo della “persona sana”, in cui svolge un importante ruolo la fatuità.
Rileva che esso è fondato sull’assunzione di una maschera, sulla premeditazione, sulla ricercatezza, sulla manipolazione, come fosse presente una “intenzionalità”.
Ci interessa questa intuizione, perché è vicina a ciò che Kraepelin e Bleuler lasciano capire con l’idea di costruzione e perché sembra sottendere tutta la ricerca psichiatrica.
Reboul-Lachaux cita quindici osservazioni cliniche dicasi di demenza praecox che presentano manierismi, bizzarrie e smorfie, legati ai gesti e all’andatura, risultanti da un certo “grado di eccitazione psichica” connessa con l’“automatismo”. Sarebbero però false impressioni dovute a questi disturbi, mentre i veri comportamenti superficiali, innaturali, affettati sono dovuti alla discordanza tra i fenomeni psichici, in particolare tra l’affettività e il giudizio, l’intelligenza e l’azione.
Altri Autori hanno successivamente descritto il fenomeno del manierismo, come Tanzi e Lugaro (1923), Bini e Bazzi (1954), Leonhard (1962) che hanno integrato la nomenclatura di Kraepelin, accettando il suo indirizzo cliniconosografico.
Del manierismo si è occupato anche Minkowski ponendolo tra le alterazioni dell’espressività e accostandolo alla affettazione e alla teatralità.
Minkowski, come del resto Morselli ed altri psicopatologi, pur riconoscendo nella malattia non più una semplice costruzione, ma una attività psicopatologica originaria, di fronte al manierismo non vanno oltre alla descrizione iniziata con Kraepelin.
È con Rumke (1958) che a ricerca si approfondisce quando parla del “sentimento della schizofrenicità”, il Praecoxgefùhl e del segreto dello schizofrenico, come un “segreto della forma”.
Barison, più tardi, scriverà che gli atteggiamenti dello schizofrenico danno allo psichiatra esperto una impressione di assurdo che si coglie nella trama di elementi concreti, di gesti, parole, movimenti, come fosse qualcosa di nuovo, di diverso, di peculiare.
Tale assurdo sarebbe non solo “nuovo” per il pensiero normale, ma è sempre “nuovo” ad ogni nuova osservazione. Esso costituisce lo “strano” schizofrenico che lo psichiatra riconosce come tipico in forza di quel “senso della schizofrenicità”, di quel “Praecoxgefuhl”, di quell’atto cioè di intuitiva visione dell’essenza di qualcosa di specifico della “schizofrenicità”.
Inerente allo “strano schizofrenico” è il manierismo, le cui qualità fondamentali, scrive Barison, sono:
1 - il parassitismo: il manierismo è una complicanza sovrapposta al comportamento con cui non ha apparentemente alcun nesso logico né affettivo;
2 - l’espressività: il manierismo ha una finalità espressiva;
3 - l’intenzionalità: il soggetto si comporta come se volesse esprimere qualcosa.
Il manierismo sarebbe dunque un intervento attivo che modifica l’espressione in atto.
Sarebbe una modalità attiva di mimare sentimenti estranei all’azione, nell’azione.
È una teatralità il cui scopo evidente è quello di annientare la realtà espressiva, un tentativo di “derealizzare la realtà”, un modo per lo schizofrenico di far scoppiare la realtà sotto la spinta di una potentissima forza istintiva, un modo di realizzare, vivendo la realtà, la sua pulsione antirealistica.
È di fronte al fatto psicopatologico che la ricerca psichiatrica scrive e riscrive la malattia, nel tentativo di coglierne il significato profondo, il senso, come se il concetto stesso di malattia continuamente sfuggisse.
L’“incomprensibilità” di Jaspers (1913) sembra pesare come un oscuro difetto dello psichiatra.
Il manierismo come fallimento dell’esistenza. Il caso Jurg Zund
È forse riferibile a questa difficoltà, se autori, come Binswanger, hanno ispirato il loro lavoro, la Daseinsanalyse o analisi della presenza, non alla conoscenza della psichiatria o della psicologia, ma alla filosofia di Husserl ed Heidegger, traendo da essa il metodo di indagine ed il linguaggio. È forse riferibile a questa difficoltà la nuova teoria della supremazia della coscienza con la sua caratteristica di “intenzionalità” e con la sua proprietà di essere svelatrice di “senso”. Alla difficoltà della psichiatria di riconoscere la malattia, Binswanger risponde che la malattia non esiste. Il metodo della Daseinsanalyse si differenzia così da quello della psichiatria. Riferendosi al caso Jurg Zund, Binswanger scrive che la Daseinsanalyse si differenzia dalla psicopatologia non solo perché essa non mira alla comprensione di un fatto psichico, ma perché ignora di proposito la differenza tra sano e malato.
L’uno e l’altro sono variazioni del comune a priori essere-nel-mondo, anche se il sano si propone nel senso della “riuscita” del proprio esistere, ed il malato nel senso del “fallimento”.
Se uno psichiatra rileva in un malato dei comportamenti artificiosi, egli è indotto a definirli come manierismi ed a ritenerli sintomi di una schizofrenia. Il daseinsanalista, invece, non si chiederà perché queste manifestazioni artefatte ed innaturali siano da considerarsi patologiche, ma piuttosto come mai la schizofrenia abbia una così forte tendenza ad esprimersi manieristicamente, considerando il manierismo non tanto come sintomo di un quadro clinico, ma come forma particolare in cui può “fallire” la presenza, per cui una persona abdicando alla propria autenticità, si manifesta in una radicale inautenticità, nascondendo ed anche perdendo se stesso.
Nel suo lavoro Tre forme di esistenza mancata (1956), accanto all’esaltazione fissata e alla stramberia, Binswanger considera il manierismo come una minaccia immanente all’uomo per la sua riuscita, una forma di esistenza mancata, modi cioè in cui si esplica il fallimento dell’esistenza. Nell’esaltazione fissata, il fallimento dell’uomo sarebbe dovuto alla sproporzione tra l’altezza delle aspirazioni e l’ampiezza dell’esperienza. Come l’alpinista inesperto che, raggiunto un punto troppo elevato per le sue capacità, non sa più né salire né scendere. Nella stramberia, il soggetto pone qualcosa “di traverso” tra sé e il mondo, qualcosa che impedisce il rapporto con gli altri. L’esempio è quello della vite storta che non riuscendo ad avvitarsi, si ferma. Nel manierismo è il tendere verso l’alto contorcendosi tramite un artificio tecnico. L’artificio servirebbe a supplire, compensare, una carenza.
La parola “manierismo” designerebbe l’effetto suscitato nello spettatore, nell’ascoltatore, di stranezza, l’impressione che un certo comportamento sia sorprendente, stupefacente, assurdo, estraneo, eccentrico. Oppure, ancora, ricercato, affettato, artificioso, contorto.
L’essenza del manierismo sarebbe questa artificiosità, questo contorcersi verso una altezza ricercata, innaturale, in risposta ad una incompletezza dell’essere, ad una sua inautenticità.
Adottando la distinzione haeideggeriana tra essere autentico ed essere inautentico, Binswanger scrive che il manierato non è in grado di vivere nella autenticità della propria concreta situazione, ma sarebbe costretto ad assumere una maschera per supplire alla mancanza di un volto proprio.
È il caso dello studente universitario Jurg Zund.
Da ragazzo è molto vivace, impulsivo, aggressivo, ma angosciato da sensazioni corporee abnormi. Egli si muove in tre “mondi” tra loro contraddittori, che non riuscirà mai a superare. Innanzi tutto il mondo “proletario”, quello della via in cui abita; in questo mondo il giovane Jurg Zund si comporta da monello.
Quando, dopo la scuola il padre, persona schiva, irritabile, va a prenderlo sulla strada dove si è attardato, egli si sente commiserato dai compagni. Si rimprovera di sentirsi meglio sulla strada, poiché a casa è sempre impaurito da una madre minacciosa ed imprevedibile. Mal sopporta il fatto che per i vicini, i genitori siano considerati poco socievoli, strani, altezzosi. Il padre, musicista, è ritenuto in famiglia “un gran nevrastenico”. La madre è giudicata arrogante, ambiziosa, imprevedibile. Poiché il comportamento dei genitori suscita le critiche della gente, egli si sente indifeso, minacciato, allo sbaraglio. Avverte così vivissimo l’intimo bisogno di doversi nascondere, di occultare se stesso; un bisogno che lo accompagnerà per tutta la vita.
Accanto al mondo della strada e a quello soffocante della famiglia, ne esiste un terzo, quello in cui vivono il nonno e due zii materni. Questi godono di buona reputazione per il loro comportamento da gran signori. Abitano il piano di sotto e qui il giovane Zund si sente protetto e più libero. Se i genitori non uscivano mai da casa, i parenti lo invitano spesso alle gite domenicali. Lo zio, poi, lo loda proprio per quelle ragazzate sulla strada che il padre gli rimproverava aspramente.
«Vediamo quindi», dice Binswanger, «che l’esistenza di Jurg Zund è minacciata fin dall’inizio da una scissione, da una triplicità di direzioni».
Egli è diviso di volta in volta in tre “mondi”, quello insofferente della strada, quello della famiglia e quello dei parenti, tra loro diversi e irrapportabili. Adotta il modello ora di un “mondo” ora di un altro, seguendo le maniere dell’uno o dell’altro “mondo”. Jùrg Zùnd non riesce ad esistere che rispecchiandosi in questo o in quel “mondo”, senza poter fare emergere mai una propria personalità.
In preda a sentimenti di inferiorità, si chiede sempre più preoccupato quale impressione faccia alla gente. Appare sempre meno spontaneo, sempre più artefatto. Constata che i suoi movimenti e la sua figura destano il riso della gente, come quando si toglie il cappotto o quando cammina dimenando le braccia. Perciò si sente costantemente al centro della critica e preferirebbe scomparire “nell’anonimato della massa”.
Questi tentativi di occultamento si riveleranno come faticosi, esagerati, contorti e perciò destinati a fallire.
Il manierato, l’artificioso, il ricercato, sarebbero serviti, scrive Binswanger, a nascondere la sua paura della vita, ad arginare l’angoscia per l’esistenza, A partire dal trentasettesimo anno Jurg Zund si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Nel considerare l’intero decorso della sua esistenza, Binswanger nota che al posto della scissione degli anni dell’infanzia, al posto dell’impossibilità di sentirsi a suo agio nei suoi “mondi”, al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera” signorile, al posto di tutto questo sia intervenuta una relativa calma.
Per Binswanger, ciò è stato possibile soltanto al prezzo della rinuncia a una sua autonomia. Jurg Zund rinunciando a lottare si è ritirato nella clinica e affidato alle sue cure. Mentre un primo medico aveva affermato che “data la sua estraneità al mondo, i suoi modi esaltati, affettati e bizzarri..., andava indubbiamente considerato uno “schizofrenico” un altro medico l’aveva diagnosticato come “schizoide”.
Per Binswanger rappresenta un caso di schizofrenia simplex polimorfa. Questa forma clinica definita da Binswanger polimorfa, presenta un insieme di sintomi “analoghi a quelli delle nevrosi”, sintomi fobici, depressivi, ipocondriaci, isterici. La caratteristica principale è il progressivo impoverimento e deterioramento del comportamento. Tale forma clinica è nel Trattato Italiano di Psichiatria, descritto come “schizofrenia pseudonevrotica”. In questi casi non sono presenti sintomi schizofrenici evidenti in quanto mascherati dalla sintomatologia “nevrotica” che domina il quadro. Data l’assenza di sintomi chiari di schizofrenia, questi casi vengono oggi esclusi dalla diagnosi di schizofrenia.
E, anche noi, facendo nostra l’analisi di Binswanger, ci domandiamo se il giovane Jurg Zund che si sente costantemente sulle spine per la paura dei rimproveri, di un improvviso declassamento, che, scrive Binswanger, si interessa degli altri, ma insieme è imbarazzato e si vergogna di questo interesse tanto da assumere una maschera, un contegno stereotipato e goffo e voler scomparire dalla faccia della terra, ci domandiamo se sia veramente uno schizofrenico.
E ci domandiamo se l’imitazione dei “mondi” in cui Zund si specchia non sia, in qualche modo, rapporto con le persone che li abitano, di cui adotta le maniere, seguendo ora questo ora quest’altro modello.
Con Binswanger viene meno quella ricerca di mettere in luce l’incomprensibile, lo “strano”, il dissociato, che ha indubbiamente richiesto lo sforzo di liberarsi innanzitutto dalla alienazione religiosa, come presupposto per la conoscenza.
Ciò che importa, sostiene, è riuscire a mostrare che la forma d’esistenza del manierismo non è qualcosa che inerisce specificatamente alla schizofrenia, in quanto malattia mentale, ma che essa corrisponde ad una forma di esistenza umana generale.
Questo radicamento nel sentimento immediato della esistenza, sembra impedire lo sviluppo di una conoscenza; le descrizioni di Binswanger sono ricche di illuminazioni appassionate, ma secondario appare l’interesse terapeutico.
Noi pensiamo il manierismo come l’espressività dell’essere strano “irreale e presente” schizofrenico, in cui la peculiarità sembra essere un’esistenza che risulti il più possibile irreale. L’espressione può diventare la meno espressiva possibile, quasi per togliere ogni realtà alla realtà dei sentimenti. Il malato così facendo rappresenta il nucleo più profondo della sua personalità schizofrenica.
Non quindi un modo di essere, un arricchimento fittizio cui si possono contrapporre altri, fondati sull’impoverimento della vita, sul decadimento della personalità e neppure un sintomo, essendo il manierismo del tutto indipendente dal decorso acuto o cronico della malattia.
L’approccio fenomenologico cogliendo il significato del comportamento, cogliendo lo stile particolare dell’assurdo, trascende il fatto che lo schizofrenico è “irreale e presente”. Il modo di essere rivelerebbe così una sua autenticità, una sua realtà, una trasformazione nuova. Ma così facendo, sfugge il “segreto” dello schizofrenico, la sua incomprensibilità, l’incomprensibilità della pulsione di annullamento. Ciò comporta una infinita descrizione dei fenomeni psichici, senza poterli mai definire.
In questa difficoltà la psichiatria si priva di qualità scientifiche.
L’antropoanalisi, infatti, guarda la malattia chiudendo gli occhi sulla realtà psichica, sulle sue dinamiche, sulle sue possibilità. Essa comprende la disperazione, il disagio, il dramma, ma non va oltre la presa di coscienza dei fatti evidenti. Si stabilisce così un’alleanza col paziente che mira a nascondere la sua ribellione, la sua rabbia, a nascondere la realtà che ha in sé latente la violenza.
Jurg Zund era schizofrenico. Non polimorfo, per dire più nevrotico che schizofrenico, come prima ci domandavamo. Forse, inizialmente ammalato non di schizofrenia simplex, ma di schizofrenia ebefrenica.
Dall’età di 37 anni, si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Fin da ragazzo soffre di “stati angosciosi e di sensazioni corporee abnormi”. Ha disturbi alle gambe, ai genitali, soffre per la possibilità di essere osservato in uno stato di erezione, simbolo per lui della sua estrazione proletaria, tanto da essere indotto a nascondersi (il lungo mantello, le passeggiate solo quando si fa scuro ecc.).
Ci ricorda un altro ammalato che giunse all’analisi all’età di 34 anni, con fenomeni di depersonalizzazione corporea alle gambe e alle braccia. Costui aveva perso la propria identificazione fondamentale e solo il continuo lavoro di interpretazione della pulsione di annullamento che l’aveva fatta sparire, lo guarirà dalla malattia schizofrenica. Non sarà questa la sorte di Zund, anch’egli dissociato, anch’egli delirante. Non c’è, infatti, in Binswanger, alcuna proposizione di ricerca. Solo una descrizione dei fatti evidenti.
Ci dispiace così il progressivo crollo di Zund, il suo inesorabile scivolare verso la Clinica, la continua, drammatica delusione del suo nascosto essere “poppante al seno”. L’adozione di una “maschera signorile”, di uno stile, ci verrebbe da dire, di seconda mano, rigido e formale è il suo primo essere schizofrenico manierato che rifiuta il mondo.
Liberatosi dal rapporto sadomasochistico e dalle identificazioni, egli si sente esistere solo nella imitazione, nell’assunzione dei modelli offertigli. A differenza del simplex, egli lotta e, rispecchiandosi nei tre diversi mondi, non raggiunge il nulla. Trae da dentro di sé la forza per la recitazione, e ne fa la sua espressività. Non sa mai configurare un problema se non sotto forma di paradosso e ciò, sappiamo, per l’istinto di morte come realizzazione di non essere, apparire senza essere, essere “irreale e presente”.
Per conseguire il suo effetto, Zund adotta modelli che impone ai suoi spettatori, così da apparire estraneo, ed in questo è consapevole di trasformare il rapporto in qualcosa che non è e non può essere.
Con il contegno stereotipato e innaturale tiene lontano un mondo che gli appare arbitrario, negandolo e anche disprezzandolo. Come fosse presente non tanto una indifferenza, ma soprattutto una forte rabbia, un forte odio.
Con la sua andatura e con l’insieme del comportamento manierato, sembra non permettere a nessuno di partecipare a ciò che lo angoscia. Nella sua intima contraddizione rifiuta il mondo e gli uomini che sono a lui indispensabili come avversari, vittime, spettatori. Nella sua lotta di libertà e indipendenza essi sono spettatori immobili cui imporre il proprio comportamento. Così egli riesce a nascondersi e fare di se stesso un essere manierato e angosciante.
«È la recita leggiamo ne La marionetta e il burattino di un uomo che non vuole andare incontro a delusioni, non vuole diventare castrato, cioè pieno di odio e rabbia in un rapporto sadomasochistico con gli altri. Diventa e preferisce essere manierato, affettato, legnoso. Ha scelto la strada dell’opposizione e del rifiuto portando il suo modo di essere nel rapporto con gli altri ad un modo di essere pantomimico... E rifiuta anche di vivere e rivelare la sua realtà di poppante desideroso di carezze. Da questo rifiuto nasce la persona manierata, affettata, cortese che tende sempre a tenere lontano l’altro, a distanziarlo fino a paralizzarlo nella più disumana espressione dell’esibizionismo della schizofrenia catatonica».
Rispecchiandosi nel mondo aristocratico dei parenti del “piano di sotto”, Jurg Zund adotta un modello signorile. Lo specchio dice la verità, ma nello stesso tempo, mente. È cristallino, liscio, ma insieme fragile e delicato. La pulsione distrugge l’immagine e riduce immagine e specchio ad una frammentazione. Nel considerare l’intero decorso dell’esistenza di Zund, Binswanger nota infatti, che al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera signorile”, sia intervenuta una relativa calma.
Nella Clinica Jurg Zund si sente benissimo, ha la possibilità di uscire liberamente, ma, pur riuscendo persino a dare lezioni private ai figli di un medico, le sue capacità lavorative sono molto diminuite. Solo ora potremmo parlare di schizofrenia simplex. Nel suo isolamento, nel suo comportamento discreto, Jurg Zund non vive emozioni, non ha angosce, ha annullato la sua ribellione e la sua lotta. Dirigendo l’istinto di morte come pulsione attiva, fantasia di sparizione contro il mondo umano, egli ha realizzato se stesso come anaffettivo ed indifferente.
Leggiamo ancora ne La marionetta e il burattino che lo schizofrenico semplice «è lo schizofrenico adattato al manicomio che conduce i suoi giorni nel lavoro routinario. La crisi che lo rese pazzo... è un ricordo di un tempo lontano (...). L’estrema ribellione della fuga ha dovuto essere trasformata in fantasia di annullamento, in chiusura degli occhi su tutto e tutti. lo non ci sono».
E più avanti ancora: «La possibilità di rendere inesistenti gli “affetti” nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla... Il suo pensiero..., è la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero di ciò che non è materiale da ciò che è materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia, la fantasia di sparizione che rende inesistente sé e gli altri».
Binswanger non coglie nella sua analisi il nulla dell’atto espressivo nello schizofrenico manierato; coglie il manierismo come costruzione che tende a nascondere, ma non va oltre. Attribuisce ad esso il significato di seguire modelli offertigli dagli altri, adottandone le maniere, come fossero modalità di esistenza.
Non coglie il manierismo come espressione di quell’essere irreale e presente schizofrenico che non vuole mostrare nulla, ma solo proporre un rapporto non vero per nascondere la propria realtà, ma anche come espressione di quell’essere, com’era Jùrg Zùnd, «poppante desideroso di carezze», andato incontro a continue delusioni.
Mi sembrano infine necessarie alcune brevi osservazioni tratte dall’esperienza diretta di M. Fagioli che nei primi anni ‘60 ha lavorato presso la Clinica Bellevue di Kreuzlingen.
In Bambino donna e trasformazione dell’uomo scrive: «Non esiste una pratica analitica di tipo binswangeriano, tanto che a Kreuzlingen, era obbligatorio, per contratto, una analisi personale freudiana o junghiana. E ci sono ragioni teoriche alla inesistenza di terapia. La negazione della patologia conduce immediatamente alla negazione di ogni terapia».
E più avanti: «A Kreuzlingen ogni medico era libero di lavorare come credeva. Non c’era nessuna scuola. Binswanger aveva fatto i suoi studi e ciascuno era libero di interessarsene o non interessarsene. (...) Come studioso era indubbiamente stimabile anche se limitato alla osservazione cosciente della malattia mentale; buon fenomenologo, discreto scrittore.
Come terapeuta non l’ho mai visto lavorare e, per quanto diceva, non aveva avuto mai nessun interesse a curare i malati. A lui interessava osservare, pensare e... scrivere, come peraltro risulta dalle sue opere». Questa, la testimonianza di M. Fagioli, dalla quale noi possiamo ancora cogliere come Binswanger vada inserito in un contesto storico-culturale, iniziato con al di là del principio del piacere in cui l’istinto di morte è codificato come sadismo. «Non riuscire a vedere — scrive Fagioli — cosa c’è al di là del sadismo conduce alla codificazione di esso come istinto, ovvero come tendenza umana immodificabile. Gli uomini sarebbero, soltanto ed esclusivamente per la distruzione, vanno quindi dominati, controllati, sottomessi all’obbedienza della mente, della ragione...».
La riproposizione di una perversione umana originaria, Freud la completerà nel Il problema economico del masochismo (1924) e ne La negazione (1925) «in cui si nega qualsiasi possibilità che nell’uomo possa esistere un rifiuto, un NO alla distruzione come esigenza interna propria agli esseri umani».
Nel 1943 compare L’essere e il nulla di Sartre, in cui, come in Binswanger, vi è la negazione dell’inconscio. Quanto accadeva in Europa era semplicemente “fenomeno”. L’irruzione dell’inconscio, il sadomasochismo, viene detto fenomeno “diverso”, umano. Il suicidio di Ellen West è atto di autenticità e libertà.
Freud, con Analisi terminabile e interminabile del 1937, in cui affermava l’inutilità di qualsiasi terapia o progetto trasformativo, rientra in una “psicoanalisi” come fenomenologia, dal momento in cui essa non riesce ad andare oltre la semplice descrizione dei fatti psichici coscienti.
È interessante notare come questa concezione della malattia mentale, come forma di esistenza e libertà, sia stata presente nell’antipsichiatria. Basaglia, che ha introdotto in Italia le idee dell’antipsichiatria, si era dedicato allo studio della fenomenologia. Mettere tra parentesi la malattia mentale, la sospensione del giudizio, l’epochè di Husserl, voleva dire infatti che i sintomi della malattia dovevano essere dapprima intesi come la risposta naturale ad una violenza ambientale che doveva essere eliminata, e che solo in quest’ottica la parentesi poteva essere riaperta.
Anche Laing e Cooper hanno una formazione fenomenologica.
In L’io diviso Laing adopera i termini “schizoide” e “schizofrenico” in senso fenomenologico-esistenziale. Le cose dette e fatte da uno schizofrenico, dice, possono essere capite solo se si comprende il loro contesto esistenziale.
Cooper nel 1978 pubblica Il linguaggio della follia in cui sostiene che la follia è una proprietà sociale di cui siamo stati derubati: dobbiamo riappropriarcene politicamente perché possa diventare creatività e spontaneità in una società trasformata.
Sul filone fenomenologico-inglese si innesta dagli Stati Uniti il contributo per l’antipsichiatria di E. Goffman e T. Szasz.
Per Goffman il folle è una persona che avendo causato nella società dei guai, spinge qualcuno ad “intraprendere un’azione psichiatrica” contro di lui. Ciò porta al ricovero coatto che ha implicita la definizione di malato di mente. Il folle è la vittima, lo psichiatra l’aggressore; il manicomio viene così svelato nella sua logica di essere a favore della società e contro la follia.
I. Szasz, invece, tenta di demolire il concetto stesso di malattia.
Nel 1961 pubblica Il mito della malattia mentale dove sostiene che la malattia mentale è un’invenzione sociale per espropriare uno spazio di libertà, non gradito al potere. La categoria del folle, suddivisa nella complicata nosografia clinica, sarebbe pura finzione e il termine malattia mentale, una metafora.
Nel 1956 Gregory Bateson pubblica Verso un’ecologia della mente dove appare il termine “doppio legame”. Con esso si intende un rapporto nel quale all’individuo coinvolto vengono inviati contemporaneamente messaggi di due tipi, di cui uno nega l’altro senza che egli sia in grado di dare una risposta.
L’ipotesi di Bateson è che in una situazione di doppio legame, la capacità di comunicare diminuisce fino a cessare. La schizofrenia non sarebbe altro, allora, che un disturbo della possibilità di comunicare che sfocia nel delirio e nella dissociazione verbale.
Il freudismo e la fenomenologia, da punti di vista apparentemente diversi, hanno così cercato di distruggere l’identità dello psichiatra, attaccando l’oggetto del suo interesse, la persona malata, intendendola come realtà incurabile e inconoscibile o addirittura come realtà inesistente. È la concezione dell’inconscio originariamente ammalato che ha portato la psichiatria a girare intorno a se stessa senza via di uscita. Riprendere ora la ricerca alla luce delle nuove scoperte sull’inconscio, è uno storico superamento del passato, una separazione che ripropone uno studio del tutto nuovo della psicopatologia.
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:11:03
Psicologia contemporanea n. 153 / 1999
Un corpo senza emozioni
Lisa si leva le due fettine di cetriolo dalle palpebre, si alza dal lettino e si reca in bagno per togliersi la maschera, anche questa al cetriolo. Si guarda allo specchio e sorride. Sente che la maschera ha prodotto i suoi effetti, i tessuti sono ora indubbiamente più freschi e tonici. Adesso la prassi quotidiana è quasi completata, la mezz’ora di ginnastica a corpo libero al suono di una cassetta rock è stata fatta, il bibitone a base di frutta e crusca è stato bevuto, la maschera applicata. Manca solo una doccia sotto i getti alternati d’acqua calda e fredda.
«Quando si hanno trent’anni», sussurra Lisa tra sé, rimirandosi ancora bagnata allo specchio, «basta perdere qualche colpo e i glutei scendono...». Con esercizi, maschere e diete tutto può invece essere tenuto sotto controllo. Scruta accuratamente il proprio corpo nudo nello specchio: è sempre in forma, come richiede il suo lavoro di modella e come piace a Pierre, il suo compagno o, per meglio dire, il suo attuale accompagnatore.
Anche Pierre fa il modello e anche lui è molto attento al look, alla linea, ai capelli. Si tiene in esercizio, segue le diete e passa un bel po’ di tempo davanti allo specchio a sorvegliare il corpo e a potenziare quel sorriso da ragazzino, con le fossette, che ha fatto il suo successo. Perché, assicurano gli stilisti con cui lavora, piace sia al pubblico femminile che a quello maschile.
Pierre, in realtà, non sente una grande attrazione per le donne. Non che sia gay, ma è da troppi anni concentrato su di sé, anzi sul suo corpo, per provare un reale interesse verso gli altri, femmine o maschi che siano. E un lato che a Lisa non dispiace: possono cosi stare insieme senza problemi, fare qualche pettegolezzo sui colleghi, andare insieme in qualche ristorante alla moda dove, per cifre astronomiche, mangiano crudità e una fettina di roast-beef. Qualche volta Pierre ha anche fatto, più per obbedire agli stereotipi correnti che per vera convinzione, qualche avance nei suoi riguardi: carezze un po’ meno fraterne, qualche bacio un po’ più caldo di quello che si scambiano in occasione dei saluti, qualche occhiata allusiva.
Una volta, al mare, c’era anche stato un rapporto, che però aveva lasciato Lisa indifferente: meno piacevole degli esercizi fisici che faceva ogni giorno al suono della musica, meno coinvolgente dei massaggi cui si sottoponeva due volte la settimana. Per mostrare partecipazione Lisa aveva emesso qualche sospiro, ma ad entrambi era risultato chiaro che non era necessario riprovarci. In precedenza Lisa aveva avuto soltanto qualche sporadico rapporto e il piacere che aveva provato in quelle circostanze non era mai stato legato al sesso, bensì agli apprezzamenti del partner sul suo corpo. D’altronde non era mai stata davvero innamorata.
Ultimamente Lisa si era chiesta se questa sua indifferenza potesse avere qualcosa di strano, anche perché la sua mancanza di piacere si estendeva a tante altre situazioni: non amava il cibo, di bere, per motivi dietetici, non se ne parlava nemmeno, la compagnia degli altri la lasciava indifferente, il cinema l’annoiava, la lettura la stressava... Finiva così per concentrarsi sempre più sul corpo, oggetto dell’ammirazione sua e degli altri, strumento di lavoro che manteneva in perfetta efficienza. Qualche emozione la provava solo quando si scatenava nei suoi esercizi a corpo libero, o quando, durante le sfilate, si sentiva gli occhi addosso ed era bersagliata dai flash dei fotografi.
«Che sia un po’ depressa?», si era chiesta un giorno temendo che il suo viso potesse tradire espressioni malinconiche, che magari avrebbero anche potuto provocare qualche sottile ruga agli angoli degli occhi e della bocca. Aveva così deciso di andare da uno psicologo di grido, cui man mano aveva esposto i suoi sintorni: al di fuori del lavoro non aveva interessi, si annoiava quasi sempre, malgrado il sorriso, che aveva imparato a mantenere costante, contraddicesse questi suoi sentimenti.
Quando, durante una seduta, affrontando il tema del sesso, lui le aveva chiesto, a bruciapelo: «Non ha mai provato un brivido di piacere, non si è mai lasciata andare?», lei aveva risposto con le parole che le aveva detto sua madre quando, bambina di Otto anni, aveva iniziato a sfilare per la moda baby: «Ricordati, Lisa, hai un capitale che è il tuo corpo, pensa soprattutto a lui… non ti disperdere in cose inutili!».
«Il sesso», aveva poi aggiunto Lisa, «mi è sempre apparso come una cosa inutile, un po’ ridicola. . .». «È ridicolo anche portarsi un cucchiaio alla bocca, o starsene immobili a prendere il sole... Se uno guarda le cose totalmente dall’esterno, tutto può sembrare ridicolo», aveva ribattuto il terapeuta. Un’osservazione che Lisa trovò originale e su cui meditò a lungo.
Lisa è incapace di provare piacere e sentimenti, come se una parte del suo cervello fosse in qualche modo bloccata, come se i centri nervosi che agiscono per rinforzare i diversi aspetti delle pulsioni fossero spenti. Solo quando si occupa del corpo, si guarda allo specchio, o ha gli occhi degli altri puntati su di sé, si sente soddisfatta. Per il resto, la sua vita personale sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più amorfi. Quando non lavora si sente assalire sempre più spesso da un senso di vuoto, di sconforto, di insoddisfazione. In questi sintomi lo psicologo ha riconosciuto il disturbo narcisistico, piuttosto diffuso in quegli ambienti in cui l’immagine è privilegiata a scapito dell’autenticità e l’lo, minacciato dal vuoto interiore, cerca di tutelarsi più che può e quindi di impegnarsi il meno possibile sul piano dei sentimenti.
Negli anni, l’eccesso di preoccupazione per l’immagine ha reso Lisa del tutto sorda ai messaggi provenienti dal corpo (fame, sete, sesso). Preoccupata per il proprio aspetto fisico ha finito per dimenticare se stessa, i suoi sentimenti e quelli degli altri. Confusamente ha però capito che se un giorno dovessero venire a mancare quei “rinforzi” che la tengono in vita, l’ammirazione del pubblico, i flash dei fotografi e tutto il resto, non le resterebbe più nulla. Sarebbe la crisi.
Compito del terapeuta sarà dunque quello di ricollegare il corpo di Lisa ai suoi impulsi. Dovrà aiutarla a riscoprire i sentimenti repressi, riattivando l’emotività là dove si è bloccata. Probabilmente partendo proprio da quella famosa frase perentoriamente pronunciata, molti anni prima, dalla mamma di Lisa.
ANNA OLIVERIO FERRARIS - Ordinario di Psicologia dello sviluppo alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Roma
Psicologia contemporanea n. 153 / 1999
Un corpo senza emozioni
Lisa si leva le due fettine di cetriolo dalle palpebre, si alza dal lettino e si reca in bagno per togliersi la maschera, anche questa al cetriolo. Si guarda allo specchio e sorride. Sente che la maschera ha prodotto i suoi effetti, i tessuti sono ora indubbiamente più freschi e tonici. Adesso la prassi quotidiana è quasi completata, la mezz’ora di ginnastica a corpo libero al suono di una cassetta rock è stata fatta, il bibitone a base di frutta e crusca è stato bevuto, la maschera applicata. Manca solo una doccia sotto i getti alternati d’acqua calda e fredda.
«Quando si hanno trent’anni», sussurra Lisa tra sé, rimirandosi ancora bagnata allo specchio, «basta perdere qualche colpo e i glutei scendono...». Con esercizi, maschere e diete tutto può invece essere tenuto sotto controllo. Scruta accuratamente il proprio corpo nudo nello specchio: è sempre in forma, come richiede il suo lavoro di modella e come piace a Pierre, il suo compagno o, per meglio dire, il suo attuale accompagnatore.
Anche Pierre fa il modello e anche lui è molto attento al look, alla linea, ai capelli. Si tiene in esercizio, segue le diete e passa un bel po’ di tempo davanti allo specchio a sorvegliare il corpo e a potenziare quel sorriso da ragazzino, con le fossette, che ha fatto il suo successo. Perché, assicurano gli stilisti con cui lavora, piace sia al pubblico femminile che a quello maschile.
Pierre, in realtà, non sente una grande attrazione per le donne. Non che sia gay, ma è da troppi anni concentrato su di sé, anzi sul suo corpo, per provare un reale interesse verso gli altri, femmine o maschi che siano. E un lato che a Lisa non dispiace: possono cosi stare insieme senza problemi, fare qualche pettegolezzo sui colleghi, andare insieme in qualche ristorante alla moda dove, per cifre astronomiche, mangiano crudità e una fettina di roast-beef. Qualche volta Pierre ha anche fatto, più per obbedire agli stereotipi correnti che per vera convinzione, qualche avance nei suoi riguardi: carezze un po’ meno fraterne, qualche bacio un po’ più caldo di quello che si scambiano in occasione dei saluti, qualche occhiata allusiva.
Una volta, al mare, c’era anche stato un rapporto, che però aveva lasciato Lisa indifferente: meno piacevole degli esercizi fisici che faceva ogni giorno al suono della musica, meno coinvolgente dei massaggi cui si sottoponeva due volte la settimana. Per mostrare partecipazione Lisa aveva emesso qualche sospiro, ma ad entrambi era risultato chiaro che non era necessario riprovarci. In precedenza Lisa aveva avuto soltanto qualche sporadico rapporto e il piacere che aveva provato in quelle circostanze non era mai stato legato al sesso, bensì agli apprezzamenti del partner sul suo corpo. D’altronde non era mai stata davvero innamorata.
Ultimamente Lisa si era chiesta se questa sua indifferenza potesse avere qualcosa di strano, anche perché la sua mancanza di piacere si estendeva a tante altre situazioni: non amava il cibo, di bere, per motivi dietetici, non se ne parlava nemmeno, la compagnia degli altri la lasciava indifferente, il cinema l’annoiava, la lettura la stressava... Finiva così per concentrarsi sempre più sul corpo, oggetto dell’ammirazione sua e degli altri, strumento di lavoro che manteneva in perfetta efficienza. Qualche emozione la provava solo quando si scatenava nei suoi esercizi a corpo libero, o quando, durante le sfilate, si sentiva gli occhi addosso ed era bersagliata dai flash dei fotografi.
«Che sia un po’ depressa?», si era chiesta un giorno temendo che il suo viso potesse tradire espressioni malinconiche, che magari avrebbero anche potuto provocare qualche sottile ruga agli angoli degli occhi e della bocca. Aveva così deciso di andare da uno psicologo di grido, cui man mano aveva esposto i suoi sintorni: al di fuori del lavoro non aveva interessi, si annoiava quasi sempre, malgrado il sorriso, che aveva imparato a mantenere costante, contraddicesse questi suoi sentimenti.
Quando, durante una seduta, affrontando il tema del sesso, lui le aveva chiesto, a bruciapelo: «Non ha mai provato un brivido di piacere, non si è mai lasciata andare?», lei aveva risposto con le parole che le aveva detto sua madre quando, bambina di Otto anni, aveva iniziato a sfilare per la moda baby: «Ricordati, Lisa, hai un capitale che è il tuo corpo, pensa soprattutto a lui… non ti disperdere in cose inutili!».
«Il sesso», aveva poi aggiunto Lisa, «mi è sempre apparso come una cosa inutile, un po’ ridicola. . .». «È ridicolo anche portarsi un cucchiaio alla bocca, o starsene immobili a prendere il sole... Se uno guarda le cose totalmente dall’esterno, tutto può sembrare ridicolo», aveva ribattuto il terapeuta. Un’osservazione che Lisa trovò originale e su cui meditò a lungo.
Lisa è incapace di provare piacere e sentimenti, come se una parte del suo cervello fosse in qualche modo bloccata, come se i centri nervosi che agiscono per rinforzare i diversi aspetti delle pulsioni fossero spenti. Solo quando si occupa del corpo, si guarda allo specchio, o ha gli occhi degli altri puntati su di sé, si sente soddisfatta. Per il resto, la sua vita personale sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più amorfi. Quando non lavora si sente assalire sempre più spesso da un senso di vuoto, di sconforto, di insoddisfazione. In questi sintomi lo psicologo ha riconosciuto il disturbo narcisistico, piuttosto diffuso in quegli ambienti in cui l’immagine è privilegiata a scapito dell’autenticità e l’lo, minacciato dal vuoto interiore, cerca di tutelarsi più che può e quindi di impegnarsi il meno possibile sul piano dei sentimenti.
Negli anni, l’eccesso di preoccupazione per l’immagine ha reso Lisa del tutto sorda ai messaggi provenienti dal corpo (fame, sete, sesso). Preoccupata per il proprio aspetto fisico ha finito per dimenticare se stessa, i suoi sentimenti e quelli degli altri. Confusamente ha però capito che se un giorno dovessero venire a mancare quei “rinforzi” che la tengono in vita, l’ammirazione del pubblico, i flash dei fotografi e tutto il resto, non le resterebbe più nulla. Sarebbe la crisi.
Compito del terapeuta sarà dunque quello di ricollegare il corpo di Lisa ai suoi impulsi. Dovrà aiutarla a riscoprire i sentimenti repressi, riattivando l’emotività là dove si è bloccata. Probabilmente partendo proprio da quella famosa frase perentoriamente pronunciata, molti anni prima, dalla mamma di Lisa.
ANNA OLIVERIO FERRARIS - Ordinario di Psicologia dello sviluppo alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Roma
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:12:56
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:14:29
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:19:34
Voglio dire: assessore della regione Marche, naturalmente...
Se mi dovesse denunciare per diffamazione, vorrà dire che lo denuncerò per:
1. associazione per delinquere
2. limitazione delle libertà altrui
3. sevizie psicologiche
4. percosse
5. violenza privata
e non da ultimo, riferirò al giudice tutte quello che so sulla sua famiglia!!!
E visto che siamo in piena campagna elettorale non credo che gli convenga!!!
Voglio dire: assessore della regione Marche, naturalmente...
Se mi dovesse denunciare per diffamazione, vorrà dire che lo denuncerò per:
1. associazione per delinquere
2. limitazione delle libertà altrui
3. sevizie psicologiche
4. percosse
5. violenza privata
e non da ultimo, riferirò al giudice tutte quello che so sulla sua famiglia!!!
E visto che siamo in piena campagna elettorale non credo che gli convenga!!!
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:19:56
solo una?...
solo una?...
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:20:45
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:22:38
Se sono riuscito a svuotare una prosperissima banca per tre anni, significa che posso fare di meglio.
Se sono riuscito a svuotare una prosperissima banca per tre anni, significa che posso fare di meglio.
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:24:18
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:25:36
Psicologia contemporanea n. 220 – LUG/AGO 2010
Un fascino molto pericoloso
Gli psicopatici: sfruttatori nati?
di Jochen Paulus
Gli psicopatici hanno un dono raro: sanno, infatti, esattamente cosa succede negli altri. Pur essendo capaci di empatia, però, se ne servono esclusivamente a loro vantaggio e senza la minima compassione.
Stefan K. Lavorava come progettista di siti web, quando di punto in bianco decise di aprire un bordello, progetto che realizzò con incredibile brutalità. Insieme con un complice, nell’agosto del 2006 violentò una ragazza bulgara di 23 anni, una studentessa di psicologia che cercava un lavoro part-time e aveva risposto ad un suo annuncio su internet. I due la fecero andare in una villetta vicino a Brema, dove la stuprarono e, da allora in poi, la tennero prigioniera. Poco dopo, a lei si aggiunse una seconda ragazza, ugualmente maltrattata e costretta a prostituirsi. Le due prigioniere erano continuamente sorvegliate da una telecamera, nascosta in un orsacchiotto. La tortura finì solo alcuni mesi dopo, quando una terza ragazza, dopo il primo giorno di prigionia, riuscì a fuggire, nuda e ammanettata, attraverso un lucernario.
Durante il processo davanti al tribunale, mentre il complice, responsabile soprattutto della logistica, mostrò un tardivo pentimento, il quarantaduenne Stefan K., imputato principale, non ne dette il minimo segno. Data «l’inclinazione a perpetrare delitti efferati che causano alle vittime gravi danni fisici o psichici», il tribunale lo condannò a 14 anni di carcere.
Il perito aveva accertato in Stefan K., oltre a sadismo e narcisismo, un “disturbo di personalità dissociale”. La diagnosi corrisponde alla classificazione psichiatrica dell’OMS, anche se molti specialisti preferiscono, almeno nei casi più gravi, parlare di psicopatia. Gli psicopatici costituiscono il nocciolo duro della delinquenza. «Se il profilo di una mansione è criminoso, lo psicopatico è il candidato perfetto per svolgerla», scrive il ricercatore canadese Robert Hare. Secondo i suoi dati, gli psicopatici risulterebbero responsabili di oltre il 50% dei reati gravi.
Quanti siano gli psicopatici è una questione che la ricerca ha affrontato solo di recente. Basandoci ancora sui dati di uno studio condotto negli Stati Uniti da Robert Hare su un campione casuale di 500 soggetti, essi rappresenterebbero circa il 2% della popolazione. Naturalmente non tutti gli psicopatici diventano criminali. Ma anche se la maggior parte di loro non commette delitti, questo non significa che siano persone amabili. Spesso mentono e ingannano, sfruttano gli altri e non si assumono nessuna responsabilità. Come partner sono spesso infedeli. In posizioni di comando, pensano per lo più al proprio vantaggio.
Normalmente gli psicopatici non possiedono talenti particolari, soffrono semmai di qualche deficit. Tuttavia, ultimamente, è risultata sempre più evidente una certa superiorità in alcuni ambiti. È come se certe carenze, in qualche modo, tornassero a loro vantaggio.
Nel febbraio 2009 uno studio di psicologia giudiziaria, condotto in Canada da Stephen Porter e dai suoi colleghi della Dalhousie University di Halifax, ha fornito una dimostrazione impressionante delle sorprendenti abilità degli psicopatici. La ricerca si è basata sui detenuti che erano riusciti a ottenere la scarcerazione anticipata: 310 uomini, per lo più condannati per reati sessuali. Le commissioni per la concessione della libertà condizionale avrebbero avuto buoni motivi per continuare a tenerli sotto chiave, data la ben nota tendenza alla recidiva, eppure gli psicopatici erano riusciti quasi tre volte più spesso degli altri a convincere la commissione della loro non pericolosità. «Una tendenza allarmante», secondo Stephen Porter, perché questi soggetti possedevano la propensione a tradire la fiducia riposta in loro: le recidive, in media, infatti, risultavano doppie rispetto al resto del gruppo esaminato. Porter ne trae la conclusione che «quando si ha a che fare con delinquenti psicopatici è indispensabile una speciale preparazione».
Col senno di poi è facile capire in che modo quegli psicopatici si fossero spianata la strada verso la libertà: avevano interpretato la parte del peccatore pentito che raccontava ai responsabili esattamente ciò che questi volevano sentirsi dire. Sotto questo aspetto, un loro carattere tipico è il “fascino superficiale” con cui ingannano gli altri: «Di regola lo psicopatico risulta simpatico e lascia un’impressione decisamente positiva in chi l’incontra per la prima volta», scrive Hervey Cleckley, lo psichiatra americano che con il suo libro The mask of sanity ha inaugurato nel 1941 la ricerca sulla psicopatia. Come dimostrano diversi studi sperimentali, gli psicopatici infatti riescono a mantenere più degli altri il contatto visivo, guardando negli occhi l’interlocutore in una maniera che suscita fiducia.
Secondo alcuni, l’evoluzione avrebbe prodotto con gli psicopatici un tipo di uomo particolarmente attrezzato allo sfruttamento dei suoi simili. Grant Harris e Marnie Rice, del Centro di salute mentale di Penetanguishene, in Canada, concludono che «la psicopatia rappresenta una strategia vitale geneticamente determinata, che si conserva nella popolazione in quanto è legata al successo riproduttivo». Grazie alla loro tendenza alla promiscuità, i maschi psicopatici possono mettere al mondo molti bambini, di cui ovviamente saranno altri a prendersi cura. A favore di una preistoria evoluzionistica del fenomeno parla l’ereditarietà della psicopatia. Da una vasta ricerca inglese sui gemelli, risulta che la differenza fra gli psicopatici e gli altri va ricondotta per due terzi al patrimonio genetico, mentre il contesto familiare non svolgerebbe assolutamente nessun ruolo.
Nell’anamnesi di delinquenti abituali si incontrano spesso, con frequenza superiore alla media, punti deboli che possono condurre a malattie psichiatriche (ad esempio, problemi alla nascita, patologie infantili, difficoltà di apprendimento). Ciò non vale per gli psicopatici: «Questi», affermano Harris e Rice, «seguono una strategia “sana”, in senso non morale ma biologico». E una strategia che rende possibile lo sfruttamento degli altri, come ha evidenziato Andreas Mokros dell’Università di Regensburg in un esperimento in cui 24 psicopatici internati in ospedale psichiatrico giudiziario e 24 soggetti (anch’essi tutti maschi) selezionati dalla popolazione normale parteciparono ad un gioco di cooperazione simulata al computer. Ciascun giocatore, nel ruolo di abitante di un villaggio durante una siccità, doveva recarsi al punto di distribuzione a prendere la propria razione d’acqua. Il giocatore poteva anche tentare di accaparrarsi la razione di un altro, ma se anche quest’ultimo faceva lo stesso, l’inganno veniva scoperto ed entrambi ricevevano per punizione una razione molto ridotta. Al termine della prova (40 giri) i soggetti del gruppo normale si erano accaparrati appena un litro d’acqua in più del dovuto, gli psicopatici, invece, ne avevano totalizzati ben 24.
Gli psicopatici possiedono una specie di occhio “clinico” (come si suol dire) anche per scoprire e memorizzare i tratti di potenziali vittime indifese. Ricordiamo a tal proposito una ricerca sulla memoria condotta dall’équipe canadese di Stephen Porter su un campione di 44 studenti ai quali furono mostrate 14 foto: volti sorridenti o tristi, appartenenti sia a “persone di successo” (un medico, un’avvocatessa, ecc.), sia a “persone non di successo” (un portiere, una bidella, ecc.). Dopo aver osservato con attenzione le foto, i soggetti venivano intervistati su ciò che ricordavano dei vari personaggi.
Gli studenti con i punteggi più alti nell’indice di psicopatia dimostrarono una memoria sorprendentemente selettiva per le donne. Se queste si presentavano sorridenti o professionalmente realizzate, venivano ricordate poco, le donne tristi e povere, facili prede per un delinquente, rimanevano invece impresse nella loro memoria. «Siamo giunti alla conclusione che la psicopatia è associata a una memoria da predatore», ha commentato Kevin Wilson, uno dei ricercatori.
Allo stesso modo, gli psicopatici sembrano particolarmente capaci di riconoscere le persone in- sicure, come ha dimostrato Angela Book della Brock University (Ontario), filmando alcuni uomini in attesa di essere sottoposti a un esame, ai quali veniva chiesto quanto fossero stati in ansia durante l’attesa. I video (2 minuti ciascuno) erano presentati a un campione di psicopatici e a un gruppo di controllo normale (entrambi soltanto maschili). Gli psicopatici si dimostrarono chiaramente più capaci di valutare il livello di insicurezza dei soggetti ripresi durante l’attesa del test. «Sembra che alcuni tratti della loro personalità li mettano in grado di cogliere la vulnerabilità degli altri», concludono i ricercatori Canadesi.
Da questi risultati si può dedurre, inoltre, che gli psicopatici non sono affatto incapaci di empatia, come molti autori ritengono. Sono anzi bravissimi nel registrare ciò che avviene nella persona che hanno di fronte, solo che lo fanno senza alcuna simpatia o compassione. Si tratta di un’“empatia insensibile”, probabilmente «decisiva per il successo degli psicopatici come truffatori». Amanda Lorenz e Joseph Newman, dell’Università del Wisconsin, a Madison, hanno chiamato tale fenomeno «il paradosso emotivo della psicopatia».
D’altra parte, dobbiamo dire che se davvero gli psicopatici nel corso dell’evoluzione si sono specializzati nello sfruttamento del prossimo, allora le potenziali vittime, cioè il resto del genere umano, potrebbero aver sviluppato meccanismi per difendersene. Secondo Leda Cosmides e John Tooby, psicologi interessati ai meccanismi evoluzionistici, il nostro cervello sarebbe dotato di una specie di “modulo del baro”, capace di riconoscere i profittatori.
In effetti esistono già alcuni indizi preliminari di un’attitudine intuitiva a riconoscere gli psicopatici. In uno studio americano del National Institutes of Health, ad esempio, Katherine Fowler presentò ad alcuni soggetti brevissime riprese video di detenuti. Gli osservatori riconoscevano gli psicopatici con un’esattezza significativamente superiore al caso. Ciò soprattutto quando dovevano fidarsi della propria intuizione, avendo potuto vedere appena 5 secondi di filmato. Se avevano più tempo, invece, «la diffidenza iniziale rischiava di essere sopraffatta dal fascino del personaggio», notava Fowler commentando questo sorprendente risultato.
Analogamente J. Reid Meloy e M. J. Meloy, attraverso un questionario fatto compilare a medici, psicologi e funzionari della giustizia al termine di un colloquio con uno psicopatico, hanno rilevato tutta una serie di reazioni involontarie. Nel 77% dei casi, il corpo si ribellava a quel contatto ravvicinato: «Mi si accapponava la pelle»; «Mi batteva il cuore»; «Mi si è bloccato il respiro»; «Avevo voglia di scappare», erano state solo alcune delle frasi raccolte. Secondo l’interpretazione dei due autori, il nostro sistema nervoso avrebbe acquisito, nel corso dell’evoluzione, la capacità di rispondere alla «paura biologicamente fondata di cadere preda di un predatore appartenente alla nostra stessa specie», con una reazione di lotta o di fuga.
La psicopatia è un quadro di personalità molto difficile da modificare. I programmi sperimentali finora non hanno ottenuto miglioramenti nel trattamento di psicopatici adulti. Qualche speranza c’è invece per i delinquenti minorili con personalità psicopatica, come dimostrano alcuni studi condotti presso il Mendota Juvenile Treatment Center del Wisconsin, dove vengono trattati i casi più gravi. Dai precedenti dei detenuti che hanno partecipato a tale programma è risultato che una metà ha iniziato la sua carriera criminale prima dei dieci anni e che il 49% è colpevole di omicidio o lesioni gravi.
Il programma mira a far sì che i ragazzi stabiliscano legami che li tengano lontani dal crimine: rapporti duraturi, una formazione solida, lavori stabili. Oltre all’istruzione scolastica, sono previsti trattamenti per lo sviluppo di competenze sociali, il controllo degli eccessi di rabbia e la soluzione dei problemi con la droga. Alle sedute di gruppo si aggiungono sedute individuali con psicologi, psichiatri e assistenti sociali. Il tutto è integrato da un chiaro programma premiale: ogni giorno si possono guadagnare punti che determinano le attività previste per il giorno successivo, cosicché al termine di vari giorni di buona condotta il ragazzo ottiene merendine, tempo da trascorrere con i giochi al computer e altri benefici.
Come termine di raffronto si usa il normale carcere minorile, dove per migliorare la condotta dei giovani delinquenti ci si basa sulle punizioni. Si è visto che le maniere dure servono a poco con gli psicopatici. Mentre nei primi due anni dopo la scarcerazione metà dei giovani compie un nuovo reato violento, fra quelli trattati con il programma Mendota, invece, le recidive si riducono ad appena un quinto dei casi. In considerazione di questi risultati, Kent Kiehl, dell’Università del New Mexico, in un’intervista al New Yorker ha dichiarato: «La psicopatia in definitiva è trattabile solo se riusciamo ad affrontarla per tempo».
Psicologia contemporanea n. 220 – LUG/AGO 2010
Un fascino molto pericoloso
Gli psicopatici: sfruttatori nati?
di Jochen Paulus
Gli psicopatici hanno un dono raro: sanno, infatti, esattamente cosa succede negli altri. Pur essendo capaci di empatia, però, se ne servono esclusivamente a loro vantaggio e senza la minima compassione.
Stefan K. Lavorava come progettista di siti web, quando di punto in bianco decise di aprire un bordello, progetto che realizzò con incredibile brutalità. Insieme con un complice, nell’agosto del 2006 violentò una ragazza bulgara di 23 anni, una studentessa di psicologia che cercava un lavoro part-time e aveva risposto ad un suo annuncio su internet. I due la fecero andare in una villetta vicino a Brema, dove la stuprarono e, da allora in poi, la tennero prigioniera. Poco dopo, a lei si aggiunse una seconda ragazza, ugualmente maltrattata e costretta a prostituirsi. Le due prigioniere erano continuamente sorvegliate da una telecamera, nascosta in un orsacchiotto. La tortura finì solo alcuni mesi dopo, quando una terza ragazza, dopo il primo giorno di prigionia, riuscì a fuggire, nuda e ammanettata, attraverso un lucernario.
Durante il processo davanti al tribunale, mentre il complice, responsabile soprattutto della logistica, mostrò un tardivo pentimento, il quarantaduenne Stefan K., imputato principale, non ne dette il minimo segno. Data «l’inclinazione a perpetrare delitti efferati che causano alle vittime gravi danni fisici o psichici», il tribunale lo condannò a 14 anni di carcere.
Il perito aveva accertato in Stefan K., oltre a sadismo e narcisismo, un “disturbo di personalità dissociale”. La diagnosi corrisponde alla classificazione psichiatrica dell’OMS, anche se molti specialisti preferiscono, almeno nei casi più gravi, parlare di psicopatia. Gli psicopatici costituiscono il nocciolo duro della delinquenza. «Se il profilo di una mansione è criminoso, lo psicopatico è il candidato perfetto per svolgerla», scrive il ricercatore canadese Robert Hare. Secondo i suoi dati, gli psicopatici risulterebbero responsabili di oltre il 50% dei reati gravi.
Quanti siano gli psicopatici è una questione che la ricerca ha affrontato solo di recente. Basandoci ancora sui dati di uno studio condotto negli Stati Uniti da Robert Hare su un campione casuale di 500 soggetti, essi rappresenterebbero circa il 2% della popolazione. Naturalmente non tutti gli psicopatici diventano criminali. Ma anche se la maggior parte di loro non commette delitti, questo non significa che siano persone amabili. Spesso mentono e ingannano, sfruttano gli altri e non si assumono nessuna responsabilità. Come partner sono spesso infedeli. In posizioni di comando, pensano per lo più al proprio vantaggio.
Normalmente gli psicopatici non possiedono talenti particolari, soffrono semmai di qualche deficit. Tuttavia, ultimamente, è risultata sempre più evidente una certa superiorità in alcuni ambiti. È come se certe carenze, in qualche modo, tornassero a loro vantaggio.
Nel febbraio 2009 uno studio di psicologia giudiziaria, condotto in Canada da Stephen Porter e dai suoi colleghi della Dalhousie University di Halifax, ha fornito una dimostrazione impressionante delle sorprendenti abilità degli psicopatici. La ricerca si è basata sui detenuti che erano riusciti a ottenere la scarcerazione anticipata: 310 uomini, per lo più condannati per reati sessuali. Le commissioni per la concessione della libertà condizionale avrebbero avuto buoni motivi per continuare a tenerli sotto chiave, data la ben nota tendenza alla recidiva, eppure gli psicopatici erano riusciti quasi tre volte più spesso degli altri a convincere la commissione della loro non pericolosità. «Una tendenza allarmante», secondo Stephen Porter, perché questi soggetti possedevano la propensione a tradire la fiducia riposta in loro: le recidive, in media, infatti, risultavano doppie rispetto al resto del gruppo esaminato. Porter ne trae la conclusione che «quando si ha a che fare con delinquenti psicopatici è indispensabile una speciale preparazione».
Col senno di poi è facile capire in che modo quegli psicopatici si fossero spianata la strada verso la libertà: avevano interpretato la parte del peccatore pentito che raccontava ai responsabili esattamente ciò che questi volevano sentirsi dire. Sotto questo aspetto, un loro carattere tipico è il “fascino superficiale” con cui ingannano gli altri: «Di regola lo psicopatico risulta simpatico e lascia un’impressione decisamente positiva in chi l’incontra per la prima volta», scrive Hervey Cleckley, lo psichiatra americano che con il suo libro The mask of sanity ha inaugurato nel 1941 la ricerca sulla psicopatia. Come dimostrano diversi studi sperimentali, gli psicopatici infatti riescono a mantenere più degli altri il contatto visivo, guardando negli occhi l’interlocutore in una maniera che suscita fiducia.
Secondo alcuni, l’evoluzione avrebbe prodotto con gli psicopatici un tipo di uomo particolarmente attrezzato allo sfruttamento dei suoi simili. Grant Harris e Marnie Rice, del Centro di salute mentale di Penetanguishene, in Canada, concludono che «la psicopatia rappresenta una strategia vitale geneticamente determinata, che si conserva nella popolazione in quanto è legata al successo riproduttivo». Grazie alla loro tendenza alla promiscuità, i maschi psicopatici possono mettere al mondo molti bambini, di cui ovviamente saranno altri a prendersi cura. A favore di una preistoria evoluzionistica del fenomeno parla l’ereditarietà della psicopatia. Da una vasta ricerca inglese sui gemelli, risulta che la differenza fra gli psicopatici e gli altri va ricondotta per due terzi al patrimonio genetico, mentre il contesto familiare non svolgerebbe assolutamente nessun ruolo.
Nell’anamnesi di delinquenti abituali si incontrano spesso, con frequenza superiore alla media, punti deboli che possono condurre a malattie psichiatriche (ad esempio, problemi alla nascita, patologie infantili, difficoltà di apprendimento). Ciò non vale per gli psicopatici: «Questi», affermano Harris e Rice, «seguono una strategia “sana”, in senso non morale ma biologico». E una strategia che rende possibile lo sfruttamento degli altri, come ha evidenziato Andreas Mokros dell’Università di Regensburg in un esperimento in cui 24 psicopatici internati in ospedale psichiatrico giudiziario e 24 soggetti (anch’essi tutti maschi) selezionati dalla popolazione normale parteciparono ad un gioco di cooperazione simulata al computer. Ciascun giocatore, nel ruolo di abitante di un villaggio durante una siccità, doveva recarsi al punto di distribuzione a prendere la propria razione d’acqua. Il giocatore poteva anche tentare di accaparrarsi la razione di un altro, ma se anche quest’ultimo faceva lo stesso, l’inganno veniva scoperto ed entrambi ricevevano per punizione una razione molto ridotta. Al termine della prova (40 giri) i soggetti del gruppo normale si erano accaparrati appena un litro d’acqua in più del dovuto, gli psicopatici, invece, ne avevano totalizzati ben 24.
Gli psicopatici possiedono una specie di occhio “clinico” (come si suol dire) anche per scoprire e memorizzare i tratti di potenziali vittime indifese. Ricordiamo a tal proposito una ricerca sulla memoria condotta dall’équipe canadese di Stephen Porter su un campione di 44 studenti ai quali furono mostrate 14 foto: volti sorridenti o tristi, appartenenti sia a “persone di successo” (un medico, un’avvocatessa, ecc.), sia a “persone non di successo” (un portiere, una bidella, ecc.). Dopo aver osservato con attenzione le foto, i soggetti venivano intervistati su ciò che ricordavano dei vari personaggi.
Gli studenti con i punteggi più alti nell’indice di psicopatia dimostrarono una memoria sorprendentemente selettiva per le donne. Se queste si presentavano sorridenti o professionalmente realizzate, venivano ricordate poco, le donne tristi e povere, facili prede per un delinquente, rimanevano invece impresse nella loro memoria. «Siamo giunti alla conclusione che la psicopatia è associata a una memoria da predatore», ha commentato Kevin Wilson, uno dei ricercatori.
Allo stesso modo, gli psicopatici sembrano particolarmente capaci di riconoscere le persone in- sicure, come ha dimostrato Angela Book della Brock University (Ontario), filmando alcuni uomini in attesa di essere sottoposti a un esame, ai quali veniva chiesto quanto fossero stati in ansia durante l’attesa. I video (2 minuti ciascuno) erano presentati a un campione di psicopatici e a un gruppo di controllo normale (entrambi soltanto maschili). Gli psicopatici si dimostrarono chiaramente più capaci di valutare il livello di insicurezza dei soggetti ripresi durante l’attesa del test. «Sembra che alcuni tratti della loro personalità li mettano in grado di cogliere la vulnerabilità degli altri», concludono i ricercatori Canadesi.
Da questi risultati si può dedurre, inoltre, che gli psicopatici non sono affatto incapaci di empatia, come molti autori ritengono. Sono anzi bravissimi nel registrare ciò che avviene nella persona che hanno di fronte, solo che lo fanno senza alcuna simpatia o compassione. Si tratta di un’“empatia insensibile”, probabilmente «decisiva per il successo degli psicopatici come truffatori». Amanda Lorenz e Joseph Newman, dell’Università del Wisconsin, a Madison, hanno chiamato tale fenomeno «il paradosso emotivo della psicopatia».
D’altra parte, dobbiamo dire che se davvero gli psicopatici nel corso dell’evoluzione si sono specializzati nello sfruttamento del prossimo, allora le potenziali vittime, cioè il resto del genere umano, potrebbero aver sviluppato meccanismi per difendersene. Secondo Leda Cosmides e John Tooby, psicologi interessati ai meccanismi evoluzionistici, il nostro cervello sarebbe dotato di una specie di “modulo del baro”, capace di riconoscere i profittatori.
In effetti esistono già alcuni indizi preliminari di un’attitudine intuitiva a riconoscere gli psicopatici. In uno studio americano del National Institutes of Health, ad esempio, Katherine Fowler presentò ad alcuni soggetti brevissime riprese video di detenuti. Gli osservatori riconoscevano gli psicopatici con un’esattezza significativamente superiore al caso. Ciò soprattutto quando dovevano fidarsi della propria intuizione, avendo potuto vedere appena 5 secondi di filmato. Se avevano più tempo, invece, «la diffidenza iniziale rischiava di essere sopraffatta dal fascino del personaggio», notava Fowler commentando questo sorprendente risultato.
Analogamente J. Reid Meloy e M. J. Meloy, attraverso un questionario fatto compilare a medici, psicologi e funzionari della giustizia al termine di un colloquio con uno psicopatico, hanno rilevato tutta una serie di reazioni involontarie. Nel 77% dei casi, il corpo si ribellava a quel contatto ravvicinato: «Mi si accapponava la pelle»; «Mi batteva il cuore»; «Mi si è bloccato il respiro»; «Avevo voglia di scappare», erano state solo alcune delle frasi raccolte. Secondo l’interpretazione dei due autori, il nostro sistema nervoso avrebbe acquisito, nel corso dell’evoluzione, la capacità di rispondere alla «paura biologicamente fondata di cadere preda di un predatore appartenente alla nostra stessa specie», con una reazione di lotta o di fuga.
La psicopatia è un quadro di personalità molto difficile da modificare. I programmi sperimentali finora non hanno ottenuto miglioramenti nel trattamento di psicopatici adulti. Qualche speranza c’è invece per i delinquenti minorili con personalità psicopatica, come dimostrano alcuni studi condotti presso il Mendota Juvenile Treatment Center del Wisconsin, dove vengono trattati i casi più gravi. Dai precedenti dei detenuti che hanno partecipato a tale programma è risultato che una metà ha iniziato la sua carriera criminale prima dei dieci anni e che il 49% è colpevole di omicidio o lesioni gravi.
Il programma mira a far sì che i ragazzi stabiliscano legami che li tengano lontani dal crimine: rapporti duraturi, una formazione solida, lavori stabili. Oltre all’istruzione scolastica, sono previsti trattamenti per lo sviluppo di competenze sociali, il controllo degli eccessi di rabbia e la soluzione dei problemi con la droga. Alle sedute di gruppo si aggiungono sedute individuali con psicologi, psichiatri e assistenti sociali. Il tutto è integrato da un chiaro programma premiale: ogni giorno si possono guadagnare punti che determinano le attività previste per il giorno successivo, cosicché al termine di vari giorni di buona condotta il ragazzo ottiene merendine, tempo da trascorrere con i giochi al computer e altri benefici.
Come termine di raffronto si usa il normale carcere minorile, dove per migliorare la condotta dei giovani delinquenti ci si basa sulle punizioni. Si è visto che le maniere dure servono a poco con gli psicopatici. Mentre nei primi due anni dopo la scarcerazione metà dei giovani compie un nuovo reato violento, fra quelli trattati con il programma Mendota, invece, le recidive si riducono ad appena un quinto dei casi. In considerazione di questi risultati, Kent Kiehl, dell’Università del New Mexico, in un’intervista al New Yorker ha dichiarato: «La psicopatia in definitiva è trattabile solo se riusciamo ad affrontarla per tempo».
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:28:30
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:29:17
Segni particolari: SUPERMAN!!!
Segni particolari: SUPERMAN!!!
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:31:11
Oooooops!!! Segni particolari: QUAQUARAQUA!!!
Oooooops!!! Segni particolari: QUAQUARAQUA!!!
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:32:32
NOTA BENE:
NOTA BENE:
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:33:50
ZL,
mi raccomando non scrivere nessun nome o riferimento personale
ZL,
mi raccomando non scrivere nessun nome o riferimento personale
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:35:27
Assessò,
ti conosco come le mie tasche. Mi raccomando, eh? Fai del male a noi cittadini, ma senza farcene accorgere. Sei così bravo a tramare nell'ombra...
Assessò,
ti conosco come le mie tasche. Mi raccomando, eh? Fai del male a noi cittadini, ma senza farcene accorgere. Sei così bravo a tramare nell'ombra...
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:42:27
Questa è la volta buona che vado da Paola Perego per raccontare la mia storia. Non sei d'accordo, assessò?
Questa è la volta buona che vado da Paola Perego per raccontare la mia storia. Non sei d'accordo, assessò?
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 18:56:18
grande miguel bosè!! Quando ero bardascio lo vidi in concerto, non ricordo bene se a lu Uast o a lu Casale...
grande miguel bosè!! Quando ero bardascio lo vidi in concerto, non ricordo bene se a lu Uast o a lu Casale...
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 19:05:48
Dicembre, sei peggio di Animamundi
Dicembre, sei peggio di Animamundi
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 21:39:40
Bella Adonà!
Bella Adonà!
Messaggio del 17-04-2011 alle ore 23:49:50
dicè, ma tu metti queste cose chilometriche per scoraggiare la gente dal leggerle e poter dire quello che ti pare?
dicè, ma tu metti queste cose chilometriche per scoraggiare la gente dal leggerle e poter dire quello che ti pare?
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 00:25:38
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 04:46:59
ottimo domani ho un sacco di cose da leggere, ma certe cose già le avevi messe
ottimo domani ho un sacco di cose da leggere, ma certe cose già le avevi messe
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 07:44:29
VUTT
VUTT
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 09:47:16
:smic:
:smic:
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 09:47:34
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 12:11:24
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Editato da El Treble il 18/04/2011 alle 12:13:35
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Editato da El Treble il 18/04/2011 alle 12:13:35
Messaggio del 18-04-2011 alle ore 18:41:41
Una domanda per il piccioso: qual è l'assessorato dove si guadagna di più? Potrebbe essere il suo! Potrebbe...
Una domanda per il piccioso: qual è l'assessorato dove si guadagna di più? Potrebbe essere il suo! Potrebbe...
Nuova reply all'argomento:
Il quaquaraqua...
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