Cultura & Attualità

SDC
Messaggio del 19-11-2010 alle ore 23:28:59
Appunti dalla Scuola di comunita con Julian Carròn

Milano, 6 ottobre 2010

Testi di riferimento: «Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione (La Thuile 2010), suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 8 (2010); «Un dì si chiese chi era.. . », Giornata di inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl (Rho 2010), Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2010).

• Canto “li monologo di Giuda”
• Canto “Amazing Grace”

Riprendiamo il nostro cammino dopo l’estate. Vi dico solo una parola per incominciare. Il tentativo che facciamo in questa Scuola di comunità in collegamento video è soltanto di offrire un’occasione per cercare di imparare un metodo di lavoro sul testo e sulla vita, che ci aiuti a giudicare l’esperienza che facciamo perché — come abbiamo detto tante volte — non c’è esperienza senza giudizio, e senza esperienza noi non impariamo dalle cose che accadono, sono vane per la vita, sono inutili, non lasciano traccia. Tante cose ci capitano, ma non lasciano traccia perché — come ci ha insegnato sempre don Giussani — l’io cresce soltanto vivendo un’esperienza, e l’esperienza non può essere soltanto provare una reazione, un sentimento, uno spunto, ma è un giudizio. E questo è decisivo per capire il testo, perché non si capisce il testo, come a volte si pensa, soltanto combinando le parole; si capisce il testo paragonandolo con un’esperienza, perché il testo che propone il don Gius è la comunicazione di un’esperienza, e la capisce soltanto chi fa esperienza. E questo è quello che deve emergere nel lavoro insieme durante la Scuola di comunità: non riflessioni in astratto, perché tutti possiamo farne tantissime e non servono, ma testimonianze reali di che cosa abbiamo imparato dall’esperienza per capire il testo e dal testo per capire l’esperienza. Per questo, ripeto, per aiutarci tutti, per non perdere tempo (perché il tempo si fa breve), occorre essere precisi. Ricordo a quanti interverranno di fare interventi brevi, di essere precisi — come dicevo — di non dilungarsi troppo, di andare all’essenziale in modo tale che possiate essere compresi da tutti. Se uno ha voglia di intervenire, si prepari bene perché questo fa parte del lavoro: capire l’esperienza che uno ha fatto e quindi saperla esprimere adeguatamente fa parte di questo lavoro. Non veniamo qua a dilungarci senza capo né coda, perché questo vuoi dire che non abbiamo fatto il lavoro, che stiamo improvvisando. E questo non ci serve. Allora, si incomincia.

Io sono rimasta colpita quest ‘estate da due parole che tu hai detto e che sono l’inizio e la fine del librettino su cui stiamo lavorando, e dalla vicinanza tra queste due parole: conversione e contemporaneità. Perché a me sembra che indichino una la natura dell’altra, perché la conversione è uno sforzo moralistico, se non è cedere a una presenza che mi è contemporanea, a una presenza ora, e, d’altronde, della contemporaneità di Cristo parliamo solo in termini emotivi, se non determina in noi un desiderio di cambiamento. Perciò mi ha fatto impressione che io non posso più parlare di conversione senza contemporaneità e viceversa, tanto che a me ha molto impressionato il titolo del librettino: «Vivere è la memoria di Me», perché tante volte parliamo di vivere la memoria come se fosse una premessa e non fosse tutto. Questa è la prima cosa. La seconda è che io mi accorgo che Cristo è contemporaneo a me perché io divento contemporanea alla realtà che vivo, sono finalmente presente al presente, se no io dalla realtà mi difendo con tutte le cose che so e che faccio, cosicché il movimento, invece di diventare un‘introduzione alla realtà, diventa la più sottile difesa che ho. L‘ultima cosa è che quando tu alla Giornata d’inizio anno hai parlato della contemporaneità di Cristo e del Papa, io lì sono rimasta abbastanza perplessa, perché quando dico contemporaneità di Cristo non riesco a separare questa frase da te. Anzi, questa è stata forse per me una delle scoperte più impressionanti di questi ultimi tempi, cioè che non è possibile la mia conversione senza un cedere a Cristo contemporaneo; Cristo contemporaneo ha a che fare con te, se no io non mi accorgerei neanche del Papa, non sarei andata a Roma a maggio e tanto meno mi sarei accorta di quello che il Papa ha detto in Inghilterra. Però, da questo punto di vista, ho bisogno di capire bene come tu senti il seguire te.

Lascio aperta la questione, perché mi sembra che questo che dici è fondamentale per tutti. Io vi lancio una domanda: che cosa ha cambiato in voi il modo di percepire e sentire la parola conversione? Perché li è tutto. Se voi continuate a sentire la parola conversione come qualcosa che in fondo vi strappa via qualcosa, allora vi difendete, ci difendiamo dalla parola conversione. Vuoi dire che è slegata dalla contemporaneità di Cristo, e questo è il segno. Vi faccio degli esempi. Zaccheo si è convertito? Sì, eccome! Ma si è difeso da Gesù? No, l’ha ricevuto molto contento. Giovanni e Andrea, quando erano lì a sentirLo parlare, si sono difesi da Gesù? No, l’hanno seguito. Si sono convertiti? Sì. Vuoi dire che quando noi separiamo queste due parole — conversione e contemporaneità – è inesorabile che la conversione sia ridotta a moralismo e la contemporaneità a emotività, senza che provochi in noi un desiderio di cambiamento. Allora la questione è partire da questa realtà, da questa esperienza: come succede in noi, quando mi sorprendo col desiderio di cambiare, perché la conversione è proprio questo, che si desti in me il desiderio di cambiare per non perdermi quello che ho davanti. Giovanni e Andrea perché l’hanno seguito? Per guadagnare una vita eterna alternativa a quella reale, oppure per non perdere per la vita quella Presenza così affascinante che avevano davanti? E questo è decisivo per capire che cosa è la contemporaneità di Cristo, che Cristo rende veramente attraente quella realtà a cui Lui mi vuole introdurre, perché mi svela il significato del vivere. Seguire me, se non è questo, se non è per seguire quello che io cerco di seguire, quello che tento di verificare nel reale, che significato avrebbe? Che cosa vuoi dire seguire me? Io ho imparato a seguire da don Giussani, perché per lui il cristianesimo è un avvenimento che sta succedendo ora, e questo fa diventare il cristianesimo appassionante. Ma perché il cristianesimo possa essere concepito così e per venir fuori dai moralismo non basta dire che io desidero non essere moralista e voglio seguire la contemporaneità di Cristo: occorre riconoscerLo, occorre non ridurre la realtà, occorre vedere che in tanti gesti che facciamo a questo serve la Giornata d’inizio anno — noi spesso questo non lo vediamo. Allora tante volte per noi la contemporaneità di Cristo è astratta e la conversione è moralistica, perché noi nel reale non Lo vediamo (non è che non raccontiamo dei fatti, ma restiamo lì, nei contraccolpo emotivo). Per questo domandiamoci quante volte questo racconto di fatti desta in noi un desiderio di cambiamento, perché questo è il test: che io voglio non perdere quella cosa lì. A me interessava farvi presente questo, per esempio rispetto al Papa, perché quello che mi ha interessato della visita del Papa in Inghilterra è vedere lui all’opera: perché era impossibile che quella figura venisse fuori soltanto dall’energia umana, era la testimonianza palese della presenza di Cristo. Non occorre avere visioni. Gesù - dico sempre — non ha guarito tutti gli ammalati della Palestina del suo tempo, ma ha fatto vedere attraverso certi miracoli che Lui c’è, che non siamo da soli con la nostra impotenza e con il nostro niente, che la potenza di Dio si rende presente in fatti e avvenimenti. Il viaggio del Papa è uno di questi, è stato palese anche per gli avversari.

Io volevo fare una domanda sul potere dei senza potere. Io normalmente sarei stata una persona non molto buona, anzi, piuttosto cattiva, perché sono impaziente, poco misericordiosa, molto egocentrica, mi lamento in continuazione, quindi non sarei una grandissima persona, se non che in questo luogo e attraverso i miei amici ho conosciuto il metodo e le ragioni per non essere più così, per cambiare. Allora mi sono ritrovata addosso una inaspettata umanità che non viene dalle mie capacità. E volevo fare qualche esempio rapido sul lavoro. Il mio responsabile ha un motto che è «divide et impera»; io cerco di testimoniargli che per me lavorare in équipe è un‘altra cosa; i miei colleghi fanno un po‘ fatica a salutare al mattino quando arrivano e sono sempre molto precisi e corretti nella rilevazione di eventuali miei errori; io cerco di aprirmi più che posso al dialogo e mi piacerebbe davvero collaborare con loro. Sul marciapiede che c ‘è davanti al mio ambulatorio due anni fa è arrivata una zingarella che avrò avuto sedici anni, incinta; i miei colleghi e il mio responsabile la guardavano molto male e la scacciavano quando si avvicinava alla sala di attesa per prendere un caffè alla macchinetta. Io mi sono fermata tante volte di fianco a lei sul marciapiede, mi sono fatta raccontare del suo bambino, le ho portato i vestiti dei miei figli, e qualche giorno prima di tornare al suo paese mi ha detto: «Tu sei molto buona con me, mi sarebbe piaciuto avere una mamma come te». Mi è persino capitato di dire l‘Angelus mentre tiro fuori dalla busta l‘esito della tac di un mio paziente per sapere se ha risposto alla chemioterapia e lui, intanto che faccio questo, mi dice: «Sa, dottoressa, anche se non fosse andata bene, io sono tranquillo perché so che lei troverà un modo per curarmi». Potrei trovare tantissimi altri esempi; questa non è farina del mio sacco, ma accade e io riconosco la presenza e l’opera di Gesù in questo “di più” di umanità e supplico la Sua presenza in ogni momento della mia giornata. E su questo mi sembra che ci sono. La questione, allora, è questa: la mia fede ha ancora possibilità di successo su un capo che non usa la sua autorità, sui colleghi che ti attaccano, su tutte queste cose? A pagina 21 si dice: «Ma in questo clima dobbiamo accontentarci della testimonianza o possiamo ancora dare battaglie?». Io volevo un aiuto su questa vicenda.

Ma secondo la tua esperienza cosa rispondi a questa domanda? Mi sembra di aver capito che...
Hai capito perché lo hai detto! Questa inaspettata umanità da dove l’hai tirata fuori? È successo in te?

Sì.

Allora la fede ha capacità di successo? Sì. Perché altrimenti tu non avresti detto quello che hai detto. Ma è successo secondo un disegno che non era il tuo. Lo stesso capiterà per i tuoi colleghi, pazienti, eccetera, perché succede secondo un disegno che non è nostro. Qual è il metodo di Dio? Che dà la grazia a taluni per arrivare a tutti, cioè non la dà a tutti nello stesso momento. C’è la contemporaneità di Cristo — come dicevamo prima —, ma siccome Cristo non si impone, bensì si propone, dipende dalla libertà dell’altro. Come dicevo nell’omelia della Giornata d’inizio anno, non basta la testimonianza, occorre l’apertura del cuore dell’altro, perché se Cristo ha accettato di sottomettersi a essa, curvandosi sul nostro nulla, figurarsi se noi possiamo pretendere di fare diversamente! Ed Egli fa così perché questa è la grandezza dell’uomo, questa è la grandezza dei tuoi colleghi e la tua, paradossalmente. Che questa è la grandezza vuol dire che l’uomo non è un meccanismo che tu puoi impostare, è qualcosa in più, ha un mistero dentro: il mistero della libertà. A noi che cosa tocca? Che cosa c’entra questo con te e con la tua conversione? Gesù chiama te, chiama ciascuno di noi in questo ambiente a dire: «Ma io come posso dare un contributo? Che tipo di rapporto, che tipo di ascolto, che tipo di testimonianza devo realizzare per potere facilitare, per non oscurare il volto di Cristo, come diceva il Papa in Inghilterra, per rendere trasparente Cristo attraverso la mia umanità?». Questa è la nostra conversione. Per aiutarti a capire come tante volte noi riduciamo la contemporaneità ti leggo quello che mi ha scritto uno: «Mi trovavo a un matrimonio di un mio carissimo amico come testimone e stavo seduto insieme agli altri testimoni vicino agli sposi. Durante la cerimonia ho osservato il fotografo che passava vicino agli sposi, a noi testimoni e all’altare. Non so com’è qui tra di voi nel nord la vita di un fotografo, ma in Sicilia i matrimoni sono la principale fonte di guadagno. Lo osservavo e dico fra me e me che per il fotografo più matrimoni ci sono in una settimana, in un mese, in un anno, meglio è; più matrimonio uguale più guadagno. Strana la vita! Per quello lì andare a messa anche ogni giorno non è sicuramente un dispiacere, passa tutta la vita a girare intorno a Gesù che gli dà il pane. Ma non guadagna Lui. Guadagna tutto tranne che Lui. Non parlo specificamente del fotografo, ma lo uso come metafora della mia e di molti altri, penso — esperienza: una intera vita con Gesù senza guadagnare Lui. Ogni volta è sempre guadagnare un qualcosa del mondo, fosse anche un buon modo per non stare da soli la sera della Scuola di comunità. Si può stare tutta la vita con Gesù come un fotografo per guadagnare un pezzo del mondo o del proprio mondo, ma senza guadagnare Lui; guadagnare l’intelletto, il potere, la stima di sé, morose, senso di appartenenza e unità, e compagnia per non stare da soli, ma non Lui. Faccio il medico e Gesù ce L’ho davanti ogni giorno, ma rischio spesso anch’io di avere la sindrome del fotografo: Gesù come fonte di guadagno. Ogni giorno sto con i malati che mi danno uno stipendio, potere, possibilità di carriera, visibilità sociale, soddisfazione intellettuale e amici di buon rango, sto ogni giorno con Gesù. Ma rischio di non guadagnare Lui».

Parto da una cosa che mi ha colpito tantissimo della Giornata d’inizio anno: «La Sua presenza è resa visibile, tangibile e sperimentabile dal fatto che cambia la vita della gente che sta nella comunità, nella compagnia. Per questo l’acutezza con cui si percepisce la testimonianza dell’uno, dell’altro, anche non capi, l‘acume con cui si percepisce la testimonianza anche furtiva, anche tutta discreta presente nella gente della comunità è il segno più grandioso dell‘onestà di cui parlavamo. Questo è il tentativo estremo di evitare la conversione: negare l‘esistenza dei fatti e degli avvenimenti». Quindici anni fa muore il marito di una mia amica. Ha trentatré anni ed è incinta del terzo figlio, ha due bambini piccoli. Io sono lì per caso, perché abito nel portone a fianco e la conosco da quando siamo ragazzine; questa cosa mi accade davanti agli occhi e rimango lì, resto lì osservando nei giorni, nelle settimane, nei mesi, negli anni, lei e i suoi figli stare diritti nelle circostanze che avvengono nella loro vita, osservo la loro umanità che si fa grande, non perfetta, perché sono poveri cristi, ma grande: abbracciati alla croce di Cristo. E quello che accade, e di cui io mi sono resa conto, è che a un certo punto quel Cristo lì si gira verso di te e mi dice: «E tu? Mi ami tu?», cioè accade incredibilmente che l’avvenimento che ha travolto la loro vita, che l’ha segnata, l’ha trasformata e l’ha resa dolorosamente grande ha investito la mia umanità, ha cambiato la mia vita, la vita mia e di mio marito e l’ha trasformata (nel senso di una fonte di esperienza di bene inesauribile, ma, soprattutto, inaspettata). Sono sposata da diciotto anni e non ho figli; mi sono sposata perché volevo figli e li ho chiesti; li ho chiesti, li ho domandati, ho pregato, ho fatto pregare, sono andata ai pellegrinaggi e ho fatto andare un sacco di gente ai pellegrinaggi, hanno pregato i rosari tutte le mamme di questo mondo; faccio il medico, quando mi dicevano: «Cosa le devo?». «Un Ave Maria». Ma i figli non sono venuti e questo non ha mai fondato in me alcun rancore, alcun dolore, alcuna rabbia, non ha mai messo in dubbio il fatto che la mia preghiera fosse stata e fosse continuamente ascoltata. Di questo sono certa, perché è una tenerezza di Dio per la mia umanità, e l’ho vista in atto proprio nel rapporto coi tre figli della mia amica vedova: la tenerezza con cui loro hanno voluto bene a me e a mio marito, più ancora dell’affetto profondissimo che noi abbiamo per la loro vita, ha fatto sì che io e mio marito sperimentassimo una maternità e una paternità non chiesta così, però altrettanto vera.

Grazie.

Quando è uscito il tuo articolo sulla pedofilia, per la prima volta mi è capitato di non arrabbiarmi per il fatto che io non ero riuscito ad arrivare da solo al giudizio giusto (perché magari sempre dicevo: «Ho fatto Scuola di comunità, ho fatto tutto, ma...»); al contrario, mi sono sorpreso infinitamente grato che mi fosse dato qualcuno che mi portava per mano fino a riconoscere Lui, fino a riconoscere Gesù presente, anche in questo. Poi si è chiarito quest’estate, quando tu hai cominciato a parlare di conversione, che la conversione coincide proprio con la libertà, perché appena uno è corretto, è portato per mano a riconoscere Gesù, fa proprio esperienza della libertà. Io non avrei mai pensato che la conversione come coincidesse con la libertà, cioè con lo stare dentro le circostanze con Lui.

Questa è un’altra forma per dire che quello che prevale è la gratitudine perché c’è Gesù, perché c’è un Altro. Il problema non è più se sono stato all’altezza o meno, quello che prende il sopravvento è proprio che Lui c’è, che Lui è presente in mezzo a noi attraverso l’uno o l’altro. La conversione coincide con questa libertà, con questa liberazione. Facevo sempre quest’esempio ai ragazzi: quando abbiamo una persona malata grave, siamo contenti che ci sia qualche medico che capisce; uno è contento, non gli viene da arrabbiarsi perché c’è uno più bravo; è contento, è un bene, è una grazia, un tesoro avere uno che possa capire la malattia e cercare di curare. Per questo la conversione è il prevalere di questo bene, è non perderci questo bene ultimo in cui la vita consiste.

L‘altro ieri ero a scuola, insegno in un liceo classico e sono tornata all‘insegnamento dopo tre anni che facevo una rivista. Entro in questa prima liceo e già ho in mente cosa devo fare, me l‘ero preparato, parto in quarta, questi mi guardano con gli occhi sgranati, non hanno mai sentito parlare così, mi seguono, fanno domande, io sono tutta gasata. Esco fuori e vedo che uno mi segue, viene fuori e fa: «Prof guardi, glielo devo proprio dire». «Che cosa?». «Prof, guardi, lei non deve essere così materna nello spiegarci, lei ci deve provocare di più, perché noi queste cose che sta dicendo le abbiamo già sentite, perché l‘anno scorso è venuto un professore di filosofia che ha spiegato queste cose». Allora l’ho guardato e ho detto: «Ti ringrazio che me lo hai detto perché così io posso andare fino in fondo e questa tua provocazione è per me». Veramente ho riconosciuto l‘amorevolezza di Gesù per me, perché non ha voluto che io mi fermassi a metà, ma si è consegnato a me dicendomi: «Ci sono Io, questo è ciò che vale per te ed è quello che loro desiderano, nient‘altro».

Tu che cosa trattieni da questo?

Il fatto che avevo un grande desiderio...

Non fermarti a metà: che cosa vuoi dire?

Vuoi dire che volevo andare fino in fondo io dentro quello che mi stava accadendo, perché il Signore mi aveva chiamato lì.

Che cosa vuoi dire andare fino in fondo? Lasciare che Lui...

Ma che cosa vuoi dire questo?

Tenere conto della mia umanità, di quello di cui sono fatta e anche delle circostanze, perché in questo caso voleva dire tenere conto di un fattore imprevisto che era questo ragazzo.

Esatto; e questo ragazzo che cosa ti ha fatto capire?

Che il Signore usa un metodo suo.

Quale?

Di venire incontro e di farmi capire cos ‘è più vero.

Ma questo ragazzo cosa ti ha detto? Che mancavi tu! Perché l’educazione è la comunicazione di sé, cioè del proprio modo di affrontare il reale; non basta una bella lezione, occorre l’io presente. Perché questo è quello che testimonia Lui: dopo Cristo non c’è un’altra modalità di comunicare la verità, se non la testimonianza, dove i concetti diventano carne e sangue. E questa è la provocazione che ti offre il ragazzo.

E questo ha cambiato tantissimo, infatti.

Ti dico questo perché è veramente una sfida per noi. Infatti ho ricevuto tante mail dove — ne leggo una soltanto, di una persona che si è impegnata al Meeting uno può fare delle cose e non esserci: «Era stata una settimana grandissima... Ma c’è un “ma” grandissimo. Mentre succedeva tutto questo, a casa era una settimana che non rivolgevo la parola a mio marito per un litigio grande sui figli. Insomma, un macello. Alla fine del Meeting mi sono ritrovata schizofrenica, letteralmente divisa in due, stanca, amareggiata, delusa e soprattutto cinica. L’essere nella normalità con tutta la sua drammaticità mi faceva venire voglia di scappare, non volevo la realtà. Dal Meeting avevo capito che si può barare con noi stessi e con gli altri. Si può fare tutto molto bene e non esserci; si possono fare bei discorsi e non esserci; si può avere il cuore duro e parlare del desiderio del cuore (perché i discorsi li sappiamo tutti); si può smettere di credere che Gesù risponde e dire ai volontari che solo Gesù risponde. Non ho detto a nessuno questa sofferenza perché non volevo discorsi, volevo rimanere sola, non volevo essere aiutata, come se il tarlo dello scetticismo avesse scavato una voragine. Ma nella disperazione ho scritto a uno, vomitando tutto quello che avevo dentro. E questo non mi ha mollato e una volta mi ha detto: “Leggi il capitolo sul sacrificio”, e man mano che lo leggevo (avevo cominciato soltanto per fargli piacere) mi rendevo conto, piangendo, che io non potevo scappare da nessuna parte, che solo in Gesù tutto prende un senso. Ecco, era lì che mi aspettava. Sono andata a confessarmi, Gli ho chiesto di riprendermi, ma Lui era già lì che bussava, ma io tenevo la porta chiusa e Lui aspettava quel sì. Quando sperimenti la tua immensa pochezza puoi entrare nel mistero della Sua grandezza e io non voglio vivere per nulla di meno, io voglio un rapporto personale, vivo, carnale con Gesù, null’altro mi basta. Il cinismo, lo scetticismo, il relativismo hanno scavato un solco grande anche in noi che, sentendoci immuni, ci caschiamo dentro come pere cotte». Possiamo non esserci, per questo il segno della contemporaneità è trovare un io che ci sia con tutto se stesso: «La gloria di Dio è l’uomo vivente», dice sant’Ireneo. Quello che rende gloria, che fa trasparire Cristo non sono le nostre parole, anche le nostre parole, ma la questione è che ci siamo noi. Lo stesso mi dice un altro: «Ti scrivo a breve distanza dalla mia precedente sotto la pressione della commozione che mi invade per l’esito del lavoro che ci proponi [perché il lavoro che stiamo facendo è proprio per vincere questo, affinché noi possiamo essere sempre di più nel reale, così come abbiamo visto che il Papa può essere davanti a persone che hanno una modalità diversa di pensare, ma lui può andare lì e testimoniare con tutte le ragioni che cosa è Cristo], che per me ha coinciso con il cercare di stare davanti a quello che ci dici, quindi davanti a Cristo, con lo struggimento di una domanda il più possibile inesausta che io viva, perché da solo non riesco. E questo sta producendo frutti per me veramente eclatanti, che partono sempre da un giudizio. Mi ha colpito moltissimo, per esempio, la sottolineatura dell’iniziativa personale. Se penso alla mia vita, alla luce di questo richiamo, improvvisamente sono rimasto allibito tanto da sorprendermi a domandarmi: ma io finora dov’ero? Quando don Giussani dice che manca l’umano [adesso cominciamo a renderci veramente conto e comincia a venire fuori con semplicità]... Dov’era il mio io? La risposta è arrivata immediatamente: era sul lapis roulant; un tapis roulant, a me sembra, non è soltanto quando, per esempio, si partecipa senza consapevolezza a un gesto proposto, ma si gioca in ogni istante; l’iniziativa personale deve essere in ogni momento». Il segno di Lui è proprio questo: che ci rende presenti al presente.

Ascolta, io vorrei non esserci, proprio non esserci. La situazione di mia nonna è un disastro: ospedali, case di riposo, assistenti sociali. Tu dici: «Cristo risorto». Dov‘è questo Cristo risorto? Io sono venuto qui e sono molto arrabbiato, perché vedere mia nonna che è così, che non sente più... Ma dov‘è questo Cristo risorto, dov‘è?

E tu come puoi guardare tua nonna se non c’è questo Cristo risorto? Tu devi farti la domanda alla rovescia perché tu, che vedi la nonna così, perché questo è un fatto...

Questi sono i fatti.

Questi sono i fatti, e tu devi domandarti: questa è la fine? Per me sì, per me sì.

E tu puoi mettere la mano sul fuoco che esiste solo quello che tu hai nella tua testolina o che può esserci più realtà nel cielo e nella terra che nella tua filosofia? Tu puoi mettere la mano sul fuoco che non c’è altro oltre quello che tu vedi? Puoi metterla sul serio? Ancora non ho trovato nessuno che mi abbia detto di sì. Comincia a spalancare la tua ragione, perché poi è la mancanza di questo che non ci consente di vedere quello che c’è.

Io vedo solo dolore intorno a me, solo dolore.

È questo il punto: che vediamo soltanto questo. Ma perché tu veda tutto quanto il resto, occorre che succeda un’altra cosa e che tu sia disponibile.

Ossia?

Ossia: vediamo succedere tanti fatti, e tu puoi star lì arrabbiato nero per tua nonna e non renderti conto di che cosa sta succedendo davanti ai tuoi occhi. Se tu non vai a fondo del cambiamento delle persone, di quello che vivono, della loro testimonianza che c’è qualcosa in più di quello che tu vedi, perché sei incastrato pensando soltanto a quel dolore, se tu non guardi in giro...

Dov‘è che devo guardare? Più che un affetto che sta per morire cosa devo vedere?

Proprio perché sta per morire ti conviene guardare, allargare la ragione, per vedere se questo che tu stai vedendo è tutto. Perché se è tutto, non c’è speranza né per tua nonna, né per te, né per nessuno di noi. Ma se questo non è tutto e Cristo è risorto, allora la speranza c’è per te, per tua nonna e per noi, capisci?

Se Cristo è risorto?

Certo! E questo si vede nei fatti e negli avvenimenti che documentano la Sua presenza e la Sua opera, qui e ora. La questione è che tutti questi fatti, per quello che ho detto alla Giornata d’inizio anno, non li vediamo, e tu sei lì incastrato guardando la realtà soltanto attraverso il buco della serratura. E questo non è tutto, capisci? Non è tutto, è come se tu vedessi il reale ridotto. E per questo non metti la mano sul fuoco che quel che tu vedi sia tutto. Almeno questa lealtà con te stesso l’hai, non puoi non tacere. Allora dico: incomincia proprio per questo, perché può esserci qualcosa in più di quello che tu vedi che ti dà la speranza anche per guardare tua nonna.

A cosa devo guardare, scusa?

Tu hai sentito qui delle testimonianze di persone cui è cambiata la vita. Questo cambiamento è soltanto perché sono più brave? Se tu sei presente nella vita della comunità, vedi dei fatti che non sono riducibili a una spiegazione qualsiasi, ma che testimoniano qualcosa d’altro, mi spiego? Tu l’hai visto, tu l’hai sentito? Ma per te questo è uguale a niente, questo non documenta che Cristo sia risorto; siccome non lo vedi e non lo vuoi riconoscere, quando vai davanti a tua nonna che sta morendo, non hai niente tranne quello che tu vedi. Ma c’è più realtà nel cielo e nella terra che nella tua testolina. Tu sei disponibile a questa conversione o no?

No.

Basta, questo è il punto. Allora neanche se resuscita un morto potrà convincerti. Questa è una documentazione di quello che succede; drammatica, perché lo diciamo sinceramente non è che il nostro amico non sia sincero —. Il problema è se è vero quello che diciamo sinceramente! E come vedete, quando arriviamo al punto noi pensiamo che c’è sempre qualcosa di più interessante da fare che quello che ci suggerisce don Giussani. E poi affoghiamo nelle riduzioni di cui ho parlato alla Giornata d’inizio anno, e davanti al dolore non reggiamo. Possiamo incominciare a capire che noi ci troveremo nella stessa situazione, se questo percorso che ci ha proposto don Giussani non lo facciamo. Ciascuno deve decidere, poi non lamentatevi quando tutto diventa buio. Ma quando uno vi sfida se c’è soltanto questo, lì almeno un attimo di lealtà con voi stessi vi consente di fermarvi. Vuol dire che c’è qualche spiraglio ancora, qualche crepa.

• Veni Sancte Spiritus.
Messaggio del 20-11-2010 alle ore 13:21:15
L’IDEA DI MEDIOEVO

Introduzione alla nuova edizione

Albert Einstein affermava che «è più difficile disintegrare i pregiudizi che disintegrare gli atomi». Così se un programma televisivo, un articolo giornalistico o un manuale spiegano che tutti i poteri medievali erano trasmessi con un’investitura feudale, o che nel dicembre del 999 nelle case dei contadini incombeva la paura dell’anno 1000, nessuno si meraviglia: eppure la ricerca professionale ha superato queste convinzioni da quasi un secolo.
In particolare la cultura contemporanea continua a usare il medioevo come contenitore di luoghi comuni. Sarebbe sbagliato e supponente attribuire questi equivoci soltanto a ignoranza, e sarebbe troppo lungo costruire l’elenco dei miti storiografici che ne conseguono. È forse più utile considerare in virtù di quali categorie (politiche, culturali in senso stretto, di evasione) i principali miti sulla storia medievale siano sopravvissuti nonostante le smentite degli studi: in questo modo, dando peso alla psicologia di chi legge o — più in generale — di chi si affaccia sul passato, si può in un certo senso tentare un abbozzo di «storiografia percettiva».
La prima categoria è quella della semplicità, intesa come comunicabilità semplice e in particolare come rappresentabilità schematica di un contenuto storico.
In Italia risulta semplice ed efficace sul piano divulgativo la presunta delega tutta feudale dei poteri. Questa tesi ha avuto lunga fortuna a causa dei più tradizionalisti fra gli storici del diritto, per i quali soltanto lo Stato poteva decidere una propria diversa organizzazione:
pertanto il potere locale medievale — la «signoria di banno» della definizione di Georges Duby — è per lo più inteso come «feudo», nato da delega dei re o dalla loro momentanea insipienza.
In Germania — dove la cultura storica (e non solo medievistica) è più aggiornata in tema feudale — l’esigenza di semplicità sta nel dare per scontata la coincidenza fra i confini del possesso della terra e quelli della signoria locale: come se i signori non fossero altro che latifondisti che hanno anche poteri politici sui loro contadini, e come se soltanto la forza coordinante dei principi territoriali desse un minimo di razionalità territoriale all’insieme.
In Inghilterra ha avuto ovviamente peso la fortuna letteraria del medioevo romantico di Walter Scott, che per di più rifletteva un rapporto re-baroni corrispondente — proprio perché progettato e costruito in forma piramidale dai Normanni invasori nel secolo XI — all’immaginario comune di feudalesimo: ma anche questa semplice certezza si sta incrinando e, in anni recenti, Susan Reynolds sta cominciando a mettere in discussione il carattere feudale della distribuzione del potere nel regno inglese.
È sempre da ascrivere alla sua semplicità e alla sua rappresentabilità schematica la permanente efficacia dell’immagine della curtis compatta, collegata all’idea di economia «naturale» e chiusa, contrapposta alla rivoluzione commerciale, ai mercati, alla moneta. Alla base della curtis disegnata con due cerchi concentrici, isolati dai mercati esterni, ci sono le convinzioni molto invecchiate dei cosiddetti «minimalisti», storici dell’economia attivi fra Otto e Novecento, le cui tesi sono state ancora di recente rivisitate e contestate da Pierre Toubert. Indubbiamente è meno semplice rappresentare graficamente la complessità della curtis aderente al vero, con parti a gestione diretta e altre a gestione indiretta variamente dislocate e distribuite su diversi villaggi: una simile immagine non entra nella cultura corrente neppure quando è mediata correttamente da uno strumento di divulgazione come l’Atlante Enciclopedico del Touring Club Italiano.
Qui sopravviene un altro fattore. L’idea, cara ai minimalisti, che nel medioevo l’economia sì reggesse sul baratto e non ci fosse circolazione monetaria, non è soltanto semplice: soddisfa anche un bisogno di esotismo che è tipico della categoria del distanziamento, contrapposta dagli psicologi a quella, contraria, dell’assimilazione. Il medioevo colpisce di più e meglio la cultura corrente se ne sottolinea la distanza, se appare come contenitore di diversità. Nella nostra modesta «storiografia percettiva» vediamo studenti e pubblico attratti da certi temi sulla base dell’assimilazione (come si conduceva la vita quotidiana nel passato, quali sentimenti si provavano), perché c’è un gran bisogno di non allontanare l’attenzione dal sé di oggi. Ma studenti e pubblico sono attratti anche da contenuti e risposte di cui si accentua forzatamente la diversità dal presente sulla base del fascino del distanziamento. Il medioevo nella cultura europea occidentale serve a regalare la dimensione dell’esotico senza allontanarsi nello spazio, bensì andando indietro nel tempo. C’è un esotismo positivo (anche in campi molto diversi, dal Graal ai miti della vita comunitaria) e ce n’è uno negativo: quello dell’economia di sussistenza, appunto, oppure, per fare un altro esempio celebre, quello dello jus primae noctis, il presunto diritto del signore medievale di accoppiarsi con la sposa di un suo suddito alla vigilia della prima notte di nozze.
Lo jus primae noctis è il simbolo di un ricordo falsificato, sbagliato di medioevo; ed è anche il simbolo dell’inefficacia delle ricerche professionali sulle storture della memoria collettiva. Felix Liebrecht nel 1864 e Karl Schmidt nel 1884 si impegnarono a smontare il mito di questo presunto diritto, con argomentazioni rigorose che invitavano a non confondere i frequenti soprusi con una norma. I loro argomenti sono stati ripresi, proprio per la constatata inefficacia delle giuste dimostrazioni ottocentesche, da Alain Boureau, che a quello che i francesi chiamano droit de cuissage ha dedicato nel 1995 un libro di radicale smentita. Ma queste autorevoli messe a punto hanno scarsa efficacia anche quando, come nel caso di Boureau, sono scritte con stile accattivante, in libri di editori importanti e di larga circolazione. La cultura di massa su alcuni temi non si limita soltanto a non recepire, non vuole proprio ascoltare: si comporta come i bambini quando si tappano le orecchie con le mani ed emettono suoni per non essere raggiunti da parole non gradite.
Perché? Perché non si vuol perdere, a causa della «storia», un frammento di «memoria» che ha una funzione culturale e sociale. In questo caso la funzione è quella di valorizzare l’attitudine delle comunità locali di contrapporsi al potere: le comunità nobilitano di eroismo popolare le proprie tradizioni e su questa ipotesi inventano nel secolo XIX riti carnevaleschi con importanti contenuti storici (ovviamente deformati). La permanente efficacia di tali ricostruzioni è poi ovviamente garantita, nei nostri giorni, dall’industria del turismo.
Se qui siamo nel campo delle distorsioni quasi consapevoli, bisogna riconoscere che alla specifica invenzione dello jus primae noctis presiede anche un meccanismo spontaneo di conoscenza. Questo meccanismo consiste in una sorta di «paretimologia concettuale»: alcuni giuristi e intellettuali del Cinquecento trovano nelle campagne un pagamento in moneta, il formariage («foris maritagium») per questioni riguardanti il matrimonio delle persone in condizione non libera (in particolare vi si doveva sottoporre il servo che intendesse sposare una serva di padrone diverso dal suo); gli eruditi non pensavano che quel pagamento fosse sempre stato tale e lo supponevano esito di una civilizzazione progressiva, a partire da un antico e odioso pagamento in natura che in realtà non risulta mai documentato.
Sempre nella categoria del distanziamento possiamo immettere gli usi del medioevo come contenitore, lontano e comodo, di origini, radici, comportamenti sociali che sono assegnabili a un esotismo né positivo né negativo: qui il medioevo è un «altrove» che non impegna troppo lo studioso — di solito non medievista — che ha bisogno di formalizzare, per quanto sommariamente, un «prima» lontano rispetto alle sue specifiche ricerche. E, per inciso, si può osservare che il medioevo dei non medievisti (quello evocato da modernisti, sociologi, antropologi, letterati) ha un grande successo presso il largo pubblico proprio perché corrisponde alla cultura comune e a ciò che quel largo pubblico si aspetta. È il caso delle origini etniche delle nazioni, che piacciono, immaginate così, non solo al lettore comune ma anche a vari scienziati sociali, nonostante le negazioni degli specialisti e in particolare di Walter Pohl.
Il già ricordato errore dei giuristi del secolo XVI, quelli su altri temi di molti eruditi d’antico regime, gli usi del medioevo da parte di scienziati sociali odierni — che sono, a ben vedere e giustamente, sempre dei contemporaneisti — nascono per lo più da una deformazione prospettica in gran parte spontanea per chi non sia specialista. Questa deformazione è tipica della conoscenza umana nei rapporti con la storia: si vede e si comprende meglio ciò che è più vicino, quindi più recente, e si interpreta ciò che è avvenuto in precedenza alla luce dei suoi esiti. Insomma, la nostra mente si comporta come se i nostri occhi guardando indietro, verso il passato, vedessero grandi e dettagliati i tempi più vicini a noi, e piccoli e sfocati quelli più lontani: quindi il «prima» può essere ricostruito superficialmente, per assimilazione o per contrasto.
La deformazione prospettica è ben tangibile nella storia dei castelli medievali. È difficile convincere studenti e interlocutori che i castelli medievali tipici non sono quelli, cosiddetti «residenziali», del tardo medioevo, ed è difficile perché sono per lo più i castelli trequattrocenteschi a essere ancora in piedi, visitabili nelle gite scolastiche nostre e dei nostri studenti. Risulta sempre arduo allontanare l’immagine di questo castello «tipico» e sostituirvi quella di un villaggio fortificato, o di recinti di legno e di pietra.
Anche più evidente, e ancora meno noto, è il caso della storia della famiglia. Gli specialisti come David Herlihy e Christiane Klapisch ci hanno spiegato che la tipica famiglia rurale del medioevo era una «two generations family», con padri e figli e basta, cioè nucleare come oggi. Ebbene, quasi nessuna persona, anche di cultura, lo immagina: perché le famiglie rurali successive alla rivoluzione industriale erano patriarcali, perché l’Ottocento e il primo Novecento mostrano convivenze larghissime e — proprio perché è un modello in contrasto con le tendenze attuali — è spontaneo ritenere la famiglia allargata come un residuo, un residuo di usi dell’antico regime e del medioevo.
Agisce, in questa e in altre deformazioni prospettiche, l’idea di un progresso lineare e permanente della storia: un’idea tanto istintiva quanto politicamente strumentalizzata, in ogni caso falsificante e dannosa per l’uso sociale della storia, un’idea che l’approfondita conoscenza del medioevo si presta bene a correggere. Può essere che in queste correzioni i medievisti non si siano finora impegnati con sufficiente energia. E la cosa non appare strana, se si riflette sulla biografia di molti di loro: è vero che pressoché tutti, conducendo ricerche sul campo, pervengono a quelle correzioni dei miti del senso comune di cui stiamo parlando; ma è vero anche che molti fra essi sono stati attratti dal medioevo, in età scolare, proprio perché affascinati da quei miti; e quindi il loro impegno dì correzione può risultare in qualche misura frenato da un atteggiamento culturalmente benevolo verso l’«errore affascinante».
Sull’uso dei medesimi miti da parte dei non medievisti si può concludere individuando due cause principali:
la prima è che è naturale che sulle cose non direttamente studiate si attinga alla cultura più sedimentata; la seconda è da cercare nel maggiore schematismo delle soluzioni tradizionali, grazie al quale risulta più comodo il ricorso euristico al medioevo. Evidentemente non a tutti si può chiedere l’equilibrio manifestato dalla modernista Renata Ago, che nel suo libro su La feudalità in età moderna affronta i «feudalesimi» intesi al plurale, rivendicando il diritto alla definizione da parte di sistemi sociali di poco precedenti la Rivoluzione francese, ma non deformando la realtà dell’originario rapporto vassallatico-beneficiario medievale: qui al mito si sfugge perché con la Ago ci troviamo di fronte a un solido specialismo diacronico e verticale, in tema appunto di feudalesimo.
Le categorizzazioni e gli esempi fin qui accennati, e poi sviluppati nelle pagine seguenti, confermano che la percezione del senso comune sul medioevo nasce non dalla pratica storiografica degli specialisti, bensì da esperienze disciplinari non medievistiche, dalla didattica e dal giornalismo. C’è dunque una cultura storica non caratterizzata da una tempestiva ricezione dei progressi scientifici, ma corrispondente con un deposito di conoscenze sedimentate, spesso lontane dalla realtà accerta- bile del medioevo. Credo che gli storici debbano assumersi la responsabilità, nei loro studi, di comunicare con chiarezza sia le novità delle loro ricerche, sia ciò che di conseguenza deve essere cambiato in quel deposito di conoscenze. Le pagine che seguono intendono, senza pretese di sistematicità, formulare un invito in quella direzione e fornire un bilancio di saperi che possono risultare sorprendenti anche se consolidati.

Torino, marzo 2005
Messaggio del 20-11-2010 alle ore 14:30:33
Appunti dalla Scuola di comunità con Juliàn Carròn

Milano, 20 ottobre 2010

Testi di riferimento. «Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di
Comunione e Liberazione (La Thuile 2010), suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 8 (2010);
«...un dì si chiese chi era...», Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl (Rho 2010), Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2010).

• Canto “Zachée”
• Canto “Al mattino

L’ultima domanda e risposta della scorsa Scuola di comunità ha sollevato tantissimo dibattito e per questo vorrei tornare sulla questione partendo dalle vostre lettere.
«Carissimo Juliàn, sono rimasto molto colpito dall’ultimo intervento della scorsa Scuola di comunità e dalla tua risposta, che però non mi ha totalmente soddisfatto e che ti chiedo, se è possibile, di approfondire, dato che è un punto che mi tocca particolarmente. Per varie vicende ho dovuto scontrarmi personalmente con la malattia, il dolore e la possibilità concreta della morte imminente, ma anche in circostanze molto meno drammatiche mi sono trovato ad affrontare situazioni di male e di buio in cui la risurrezione e la contemporaneità di Gesù suonavano come parole vuote. In questi momenti mi è capitato di vivere la stessa profonda rabbia del ragazzo che è intervenuto. Gridare questa rabbia a qualcuno nel movimento e nella Chiesa è esprimere una domanda che inevitabilmente si incanala verso gli unici ambiti da cui possiamo aspettarci una risposta. Ci vuole coraggio per gridare questa assenza (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”), perché esce dagli schemi ciellini per cui è bene dire solo ciò che non crea problemi ed è coerente con il discorso. Quando si vive nel buio e non si percepisce una presenza, non basta sforzarsi per vedere e neppure cercare di giustificare il male cercandovi forzosamente degli aspetti positivi, per esempio che “nella pazienza si rivelerà il disegno buono”, “la risposta verrà in un altro modo che non ti aspetti”, “magari questo può aiutarti per...”. Ti chiedo di aiutare sia me che molti altri a capire come affrontare la realtà di questa “assenza”. Non basta dire che ci sono altre situazioni in cui la Presenza si vede, perché questo non fa che acuire la drammaticità di un “qui e ora” in cui la Presenza non la si vede. Non basta neppure la coscienza, sempre acutissima in questi casi, che senza la Risurrezione nulla avrebbe senso; il non-senso a volte pare una possibilità concreta e la fede usata come anestetico e supporto psicologico alla intollerabilità del male risulta fragile e inconsistente; non basta neppure l’invito alla preghiera, certamente essenziale anche quando espressa da un grido disperato, perché quando si grida al buio prima o poi il grido si spegne». Questa è una delle tante lettere.
Ve ne leggo un’altra: «Quel ragazzo che vive il dramma della nonna siamo noi. In lui si è espresso un grido che è il grido di ciascuno; sì, sì, la compagnia, il movimento, la Chiesa, i santi, Cristo stesso; ma qui si soffre, ma qui c’è il male, ma qui si muore; allora a cosa serve la fede? L’asprezza di questa domanda è esattamente il solo punto tenendo presente il quale si può risolvere la famosa distanza fra sapere e credere. Noi infatti sappiamo per la grazia della fede, cioè riconosciamo vero — vero come è vero che in questo momento io sono qui davanti al computer a scrivere, come è vero che oggi il cielo è nuvoloso — che Cristo, il Figlio onnipotente creatore del cielo e della terra, è morto in croce affinché io, e con me tutte le persone che amo, con tutto il mondo, potessi salvarmi, cioè serbarmi, cioè conservarmi, non perdermi, durare per sempre, non andare a finire in un buio piccolo di dolore prima e di putrido nulla dopo. È esattamente lì, dove si situa quel grido, che Cristo apre una inattesa possibilità, apre una inaudita speranza, talmente esagerata, talmente rispondente al nostro cuore che spesso noi stessi stentiamo a credere vera. Se il punto di aggancio non avviene a livello di quel grido e di quella risposta, non c’è movimento che tenga, non c’è credere che tenga, non c’è Carròn, Rose, padre Aldo, Cleuza, eccetera eccetera che tenga; non c’è Cristo. Da figlio, però, vorrei rimproverare lei, padre, o forse tirarle solo un po’ la giacca, per compassione verso il mio fratello. Quel ragazzo è venuto a gridare a noi la sua impossibilità a vedere; la sua ostentata chiusura è piena di un sano dubbio, come lei giustamente ha cercato di insinuare, né può essere diversamente. Se non dubitasse, infatti, lui stesso per primo che le sue stesse affermazioni negative non fossero poi del tutto vere, quale motivo avrebbe avuto di venirle a dire lì? Per questo, la chiusura frettolosa sulla sua persona dopo aver ottenuto la “dimostrazione” della irragionevolezza della sua posizione, mi ha ferito. Quel ragazzo siamo noi, capricciosi e incapaci di vedere, ma in fondo in fondo desiderosi che qualcuno forzi la nostra testardaggine e ci abbracci aiutandoci a capire che la nostra posizione è un brutto sogno e la promessa della realtà inaspettatamente e immeritatamente verrà mantenuta. La supplico, lo cerchi, gli dia la caccia, non lo lasci andare con il suo tragico disappunto; recuperandolo, lei riabbraccia ciascuno di noi».
Iniziamo su questo.

Rispetto a questo intervento e alla vostra discussione, io, mentre parlavate, mi sono accorta che mi libera non un abbraccio generico, ma un giudizio come quello che hai dato tu quando lui diceva: «Cristo risorto dov‘è?», e tu dicevi: «Tu devi farti la domanda alla rovescia: come puoi guardare tua nonna se non c’è Cristo risorto?»; oppure: «Puoi mettere la mano sul fuoco che non c’è altro oltre quello che tu vedi?», oppure, quando lui diceva dell‘affetto che sta per morire: «Ma proprio perché sta per morire ti conviene guardare, allargare la ragione per vedere se questo che tu stai vedendo è tutto». Io quando ho sentito queste risposte ho fatto un ‘esperienza di liberazione perché, soprattutto in certi momenti, io non ho bisogno di parole buone, io ho bisogno di parole vere, ho bisogno di sentire qualcosa di talmente vero che mi mette anche con le spalle al muro, perché solo così io posso ricominciare e cambiare. L‘altra cosa che volevo dire è che, mentre sentivo la vostra discussione, mi è tornato in mente un episodio del Vangelo che avevo sentito qualche giorno prima in cui i sacerdoti, per sfidare Gesù, Gli dicono: «Con quale autorità fai quello che fai?»; e Gesù con un‘intelligenza senza pari gli fa una domanda, e con una domanda li mette con le spalle al muro facendo venire fuori la loro posizione. Io lì ho detto: «Ma che uso della ragione!», e questo uso della ragione io l‘ho riconosciuto nella vostra discussione, cioè questo stesso tratto di Cristo l’ho riconosciuto quella sera. Per cui per me, tra l’altro, in quella discussione e è stata l’esperienza della contemporaneità di Cristo.

Quello che libera è un giudizio, ma che cos’è un giudizio? lo sono d’accordo con quello che abbiamo sentito; davanti a una situazione come quella del nostro amico della volta scorsa, o quando noi ci incastriamo come lui — perché possiamo anche noi ingarbugliarci —, è vero che possono anche non bastare altre situazioni in cui la Presenza si vede — anche se poi dirò una cosa su questo —; non basta neppure la coscienza che senza la Risurrezione nulla avrebbe senso, perché questo non dimostra la Risurrezione; è vero che non basta l’invito alla preghiera, perché uno può pregare come se Cristo non fosse risorto. La questione è, amici — e ritorniamo all’inizio del Si può vivere così? sulla fede —, se il punto di partenza della fede è un fatto e la fede è un percorso di conoscenza (anche se il fatto che io abbia fatto un’esperienza vera della Sua presenza, in realtà, non mi fa mettere davanti a una situazione come se non avessi visto niente...). Mi facevo questo esempio: se Giovanni e Andrea dopo averLo visto risorto si fossero trovati ad affrontare la situazione del nostro amico con la sua nonna morente, lo avrebbero fatto in modo nuovo rispetto agli altri o no? Sarebbe stato impossibile per loro guardare la nonna in quella situazione senza avere negli occhi che avevano visto un loro Amico, che avevano essi stessi riposto nella tomba, risorto! Sì o no? Ciascuno deve guardare questo. Aldilà della difficoltà che provo adesso, dello strappo che subisco, della sofferenza che patisco, la questione è che se sto volendo veramente il bene di quella persona, io posso guardarla con questa presenza di Cristo risorto negli occhi! E questo lo capisco benissimo, non è che Io dico adesso per rispondere: perché io questo lavoro l’ho dovuto fare davanti alla salma di mio padre. A me non è stato risparmiato, anche io potrei essere stato bloccato da questo distacco, perché quale essere umano è mai pronto per la morte del padre? Ma se io non avessi fatto li questo lavoro a cui io sono stato introdotto dal movimento... La morte è l’ultima parola sulla vita di mio padre o io ho visto qualcosa che neanche questo momento è in grado di cancellare? Mi è venuto in mente l’esempio di Giovanni e Andrea e dei discepoli, perché il giudizio è un fatto, è il riconoscimento di un fatto. Per questo è vero che non bastano solo alcune cose: occorre la fede, occorre il riconoscimento di un fatto. E un fatto non sono pensieri o consolazioni o sentimenti o stati d’animo (pur brutti che siano): un fatto è un fatto e nessuno lo può cancellare, lo posso non volerlo guardare, ma che io non lo voglia guardare non vuol dire che per me Cristo non è risorto e che non c’è speranza per la nonna. Tante volte noi ci incastriamo e subiamo le circostanze in un modo che è vecchio, perché il file non è aggiornato, perché in fondo noi continuiamo a guardare il reale come se Cristo risorto non fosse un fatto, non fosse un dato del reale. Guardo a tutto il reale così com’è e vedo tanti fatti che documentano la Sua presenza, eppure continuo come se ciò fosse uguale a nulla. Ma non è uguale a nulla! Il fatto è un fatto! Ma ho aggiunto: il giudizio è il «riconoscimento» di un fatto; nel riconoscimento del fatto c’entra la libertà, come abbiamo visto. E questo è qualcosa che nessuno può fare al nostro posto; possiamo accompagnarci, ma nessuno ci può sostituire. Per questo dice Gesù alla sorella di Lazzaro: «Se credi, tuo fratello risorgerà». Se credi, cioè se tu riconosci questo. Dunque, quando diciamo che noi vogliamo una compagnia che ci aiuti a capire che la nostra posizione è un brutto sogno e che la promessa della realtà verrà mantenuta, possiamo dirlo come un volontarismo. Come se dirlo e ridirlo più potentemente ci consentisse di riuscire a mantenerlo. No! Quel che consente che una promessa venga mantenuta è che c’è un fatto che lo documenta: Cristo è risorto. Non è che la promessa sarà mantenuta perché io o chiunque altro affermo questo con più potenza o con più intensità o con più calore; dipende dalla verità con cui è successo il fatto e con cui io lo riconosco. In questo senso sentite cosa mi scrive un’altra persona: «Ti ringrazio per la risposta a quel ragazzo triste. Spesso mi è capitato di imbattermi in situazioni come queste e ciò che io dicevo era che il Mistero non si può spiegare (però ero certo che tutto avesse un senso). Ma tu nella discussione hai dato delle ragioni più adeguate [perché noi siamo cristiani, non affermiamo il Mistero come se fossimo ancora «a livello del senso religioso», noi abbiamo dei fatti: la fede cristiana, amici, parte dai fatti e perciò possiamo dare ragione dei fatti, non un generico “sperém”; dobbiamo rifare tutto il percorso di Si può vivere così? da capo: la fede parte da un fatto che genera una speranza, e questa speranza è piena di ragioni per il fatto accaduto]. Tu hai dato delle ragioni più adeguate e soprattutto lo hai costretto a guardare quello che c’è e che quindi non si può negare: fatti e non promesse di bene. Questo è decisivo e cambia tutto. Anche l’esempio di mettere la mano sul fuoco per affermare che non esiste ciò che uno non vede lascia davvero senza armi di difesa; è talmente ragionevole che siamo creature e non il Creatore; mi è venuto in mente il pezzo della Scuola di comunità dove si cita la Bibbia: “Dov’eri tu quando io ho fatto il cielo?”. Ecco dov’è Cristo risorto: alla Giornata d’inizio anno ho invitato un’amica mia che da dieci anni non riesce a stare più di dieci minuti in piedi o anche seduta su una sedia per un mal di schiena che non si riesce ancora a spiegare. E venuta con un pass disabili; è stata ad ascoltare sdraiata su un lettino; ogni tanto si sedeva per prendere appunti, ma abbandonava e si sdraiava nuovamente. Alla fine della lezione mi ha detto: “Io ho capito il perché di questi dieci anni di dolore. Io non sarei mai stata qui sennò”. Parlava del suo male come di una grazia ricevuta e io la guardavo con commozione, perché chi può dire così di un male così invalidante? O sei pazzo o c’è qualcosa che sa far respirare veramente nella fatica. Poi le telefono nei giorni dopo e mi ha detto che il dolore non è tolto, lo sconforto non è tolto [non è un narcotico, la fede!], ma che tutto ha un senso adesso, perché lei è certa di essere su di una strada. Alcuni mi dicevano che la Giornata d’inizio anno non l’avevano capita: perché stavamo dando per supposta una strada. Lei è resa certa da questo: che siamo su di una strada. È certa anche di essere solo all’inizio di un cammino, ma di avere accanto Gesù e ciò la rende lieta».
E qui non posso evitare di citare l’evento imponente che è stata la morte della nostra amica Marta, ex universitaria della Cattolica proveniente da Rimini. Alcuni avranno forse letto il dialogo che ha avuto con suo papà. Vi leggo qualche stralcio perché dice di una ventisettenne sulla soglia della morte che testimonia che cosa le consente di stare davanti al dolore proprio (non a quello di altri...). «Marta, chi è Gesù per te?», le domanda il babbo. «Eccolo, smettila con i ragionamenti, smetti di ragionare. Gesù è “Io sono Tu che mi fai”. La cosa più evidente è che siamo oggetto di un amore infinito, un Altro ti ha voluto e ti vuole bene. Guarda, guarda quello che hai!». Gli dice di non ragionare, ma lei che cosa sta facendo? Sta usando alla grande la ragione: la cosa più evidente è che siamo oggetto di un amore infinito. E che cosa fa questa ragazza sull’orlo della morte? Invita a guardare: guardiamo quello che abbiamo! E prosegue: «Guarda la realtà tutta, non servono tanti ragionamenti, guarda, è come quando fai la piadina, hai l’impasto fra le mani. Per essere felici occorre amare Lui più di tutto, sopra ogni cosa e questo ti fa amare tutto, più intensamente. io amo tutto, tutto della mia vita, da quando sono nata fino ad adesso. La vita è gioia e dolore ed è così perché l’ha fatta così Gesù, è per questo che dico sì alla mia malattia. Uno si lava, si veste bene, sceglie delle cose belle, ha cura di sé perché un Altro ha cura di lui. Questo succede per grazia, lo devi chiedere tutti i giorni e chiedere che ti dia pace. La felicità la vivremo in Paradiso, qui possiamo chiedere che ci faccia vivere con pace». «Tutte queste cose dove le hai imparate? Grazie agli amici?». «L’amico è come l’obbiettivo di una macchina fotografica, mette a fuoco, mette a fuoco, cioè ti aiuta a fare luce dove c’è il vero, ma tutto il rapporto è tuo e basta, tuo con Lui, basta, nessuno di diverso, non tu-l’amico-e-Lui, è tuo e basta, sei tu che domandi, sei tu che chiedi, sei tu che gridi, sei tu che gli chiedi: amami!». «E Lui ti risponde». «Lui ti risponde nella realtà». «Ad esempio, in questo caso con tutta la gente che ti si muove intorno». «Guarda che roba, ma non solo:
mi sta cambiando, sta cambiando me e intanto io aspetto la guarigione». «Tutti l’aspettiamo. Preghiamo, lottiamo, domandiamo, chiediamo. Dicevi prima: “lo tengo a me perché c’è un Altro che tiene a me”? Dicevi così?». «Sì». «Tutte queste cose come le hai imparate’?». «Vivendo, vivendo in compagnia di amici grandi». «E guardando?». «Sì, vivendo tutto appieno; ma come si fa a vivere tutto appieno? Ci vuole anche un metodo e una strada, e la strada e il metodo io l’ho imparato in università. Io Gesù l’ho incontrato in università». «Bello quello che mi dici, bisogna che ne parliamo più spesso di queste cose». «E no! E qui che dico io, non è un problema di parlare». «Ma quando mi comunichi la tua esperienza a me aiuta, è un fatto quello che mi racconti». «Però il problema non è stare al tavolino a parlare, il problema è che tu domani mattina ti alzi e vai davanti allo specchio e dici: “Io, Giorgio, sono Tu che mi fai”, e tutta la giornata chiedi che Lui si faccia vedere da te, non è che ne parliamo io e te, capito? Non è quello il problema». E chiude la conversazione così: «Non è un problema di parlare: è il tuo rapporto personale con Gesù. in quello non ti può sostituire nessuno». Ventisette anni, con suo padre!
E aggiungo, a seguire, quel che mi scrive padre Aldo dal Paraguay: «Volevo ringraziarti per la Scuola di comunità. Mi ha colpito tanto il dialogo con l’ultimo ragazzo che è intervenuto, perché mi rendo conto che questo atteggiamento può essere spesso anche il mio, che vivo circondato da un mare di dolore e che spesso ascolto reazioni, come quella di questo ragazzo, da quelli che stanno per morire o dai parenti. Ma l’atteggiamento con cui sfidasti il ragazzo e mi sfidi, provocandomi a non staccare lo sguardo da Cristo risorto e invitandomi alla conversione, in modo che qualsiasi circostanza e qualsiasi dolore diventi uno strumento di grazia, mi ha sconvolto. Ogni giorno capisco di più che anche davanti al dolore noi dobbiamo poter stare con la Sua presenza. Occorre un lavoro personale, così che né morte né vita possano staccarci dall’amore di Cristo. Prego per questo ragazzo, per me, perché la commozione (“Chi sei Tu, o Cristo, che con un amore eterno mi hai amato avendo pietà del mio niente?”) trasformi quel “no” in un “sì”. Ti ringrazio anche per la tua apparente durezza, che in realtà è la suprema forma di tenerezza quando è l’amore al destino dell’altro quello che definisce i nostri rapporti». Sono contento che sia venuto fuori questo punto, perché ci fa capire veramente, quando arriviamo al dramma del vivere, che cosa veramente ci fa compagnia fin nel buio. E questo apre tutta la questione di quello che abbiamo detto in Vivere è la memoria di Me: che cos’è la vera compagnia? E che cos’è la memoria?

Racconto i ‘esperienza del cambiamento causato da una novità improvvisa i ‘altra mattina. Mi ero sentito smarrito il giorno prima quando, come non mi accadeva da molto tempo, la giornata era iniziata con un senso di estraneità verso le cose e le persone, di fastidio per il limite in cui durante il giorno mi imbattevo in continuazione: i collaboratori distratti e imprecisi, il cliente sgarbato, la mia stanchezza perché il bimbo non dorme la notte, I ‘amico che mi sembrava non corrispondere all’aspettativa che avevo, la fatica di dialogo con mia moglie alla sera. Tutto quel giorno mi sembrava contro di me. E stato inevitabile alla sera pensare alla canzone con cui abbiamo iniziato la Giornata d’inizio anno e sorprendermi in quella situazione, mentre quando lì ne avevi parlato mi sembrava una posizione lontanissima da me, che non mi riguardava. Mi sono accorto, perciò, che in questo tempo non avevo sentito urgente per me quel tuo richiamo alla conversione, come se non mi riguardasse veramente. Al mattino dopo mi sono svegliato con un senso di insoddisfazione e di preoccupazione per il timore di vivere un ‘altra giornata pesante e faticosa come la precedente. In maniera più o meno consapevole ho chiesto a Gesù di farsi vedere, di aiutarmi Lui quel giorno a vincere quell‘estraneità con la vita che mi spaventava, perché non mi corrispondeva ma non sapevo come uscirne. Mentre facevo colazione ho visto il nuovo Tracce che non avevo ancora guardato. Mi ha incuriosito il titolo dell‘editoriale, ho iniziato a leggerlo. Mi ha colpito subito quando, parlando del relativismo, dice che esso ha un risvolto concreto nella nostra vita di tutti i giorni; diceva: «Se tutto è uguale, la conseguenza non è che tutto ha lo stesso valore: è che nulla vale la pena. Tutto si consuma in fretta. E nella vita — nella nostra vita quotidiana: il lavoro, i rapporti, la famiglia... — genera disillusione. Fastidio. A volte, rabbia». Mi sono sentito drammaticamente descritto, altro che non aver bisogno di conversione! Proseguendo la lettura sono stato travolto come da una novità improvvisa dall‘invito a leggere la Giornata d ‘inizio anno che pure avevo già letto, ma senza questa urgenza: «Lì diventa chiaro qual è i ‘unico antidoto a questa malattia che corrode da dentro l‘esistenza: la memoria. Il riaccadere di Cristo nella nostra vita, ora». Mi sono quasi immediatamente ripreso dal torpore con cui avevo iniziato la giornata, che ha lasciato il posto come a un senso di speranza e di liberazione; ho sentito amico fino al profondo dell’anima chi aveva scritto l’editoriale perché aveva così bene descritto l’attesa del mio cuore, rimettendomi all‘improvviso davanti al luogo in cui Cristo ha intrapreso la lotta per la mia conversione (che è la compagnia del movimento, ma innanzitutto la tua testimonianza, il tuo richiamo continuo alla contemporaneità di Cristo, il tifo indicarmi fatti, avvenimenti e persone che ci rendono familiare la presenza di Colui che il mio cuore così tanto desidera); e la giornata è diventata inaspettatamente una promessa di bene. Al lavoro le stesse persone di prima con gli stessi limiti, quel giorno erano anziché ostacolo una sfida, un‘occasione di giocare tutto in me stesso; gli stessi amici sono come ritornati segno della tenerezza del Mistero per me, mia moglie segno della fedeltà di Dio nella mia vita; addirittura il bambino che non ci fa dormire la notte da motivo di lamento è diventato per me un‘opportunità per alzarmi presto questa mattina a leggere con gusto nuovo la Giornata d’inizio anno alle sei del mattino. Ho provato nell‘esperienza che hai proprio ragione quando dici che non dobbiamo farci illusioni: occorre un lungo cammino di conversione per vincere in noi l’influsso dei relativismo che rende difficile la capacità di conoscere la verità che ci dà più vita e più amore.

Grazie.

Da circa due anni sto vivendo una situazione lavorativa molto pesante. Io sono medico e per motivi che non hanno nulla a che vedere con la mia professione tutto il mio reparto è stato oggetto di una vera e propria vessazione. E questo si è acuito negli ultimi mesi creando uno sconforto tra i miei colleghi e favorendo un clima da basso impero in cui ciascuno pensa per sé. E probabilmente uno scenario comune per molti, ma, per fortuna, non per me, poiché al contrario il gruppo in cui lavoro era stato (soprattutto per il mio contributo) cementato negli anni avendo a cuore il bene comune di tutti. Questa situazione ha determinato in me in questi mesi una grave sofferenza per il male gratuito che vedevo e / ‘impossibilità a cambiare questa circostanza così arida e desolata, e che generava in me paura a manipolare la realtà per un ‘ipotesi di bene presente. Capivo che i discorsi ciellini, tutti giusti, che sentivo e che facevo io stesso — ne potrei citare a migliaia non mi bastavano; poi, riflettendo, mi sono chiesto come mai situazioni anche molto dolorose vissute in questi anni, in particolare alcuni gravi lutti familiari, tra cui la morte di mio padre, non mi avessero gettato nello stesso sconforto. La risposta che mi sono dato era che in quei casi il dolore e la pena non li avevo portati da solo, ma fisicamente ero stato sostenuto dai miei amici che mi erano stati vicini accompagnandomi e aiutandomi fino nei dettagli più banali. Non è che mi è stato risparmiato il dolore, però il bene lì era presente, lo vedevo. Ma questa volta ero praticamente solo. Dico praticamente, perché in verità ci sono state almeno tre persone che mi hanno aiutato per il poco che hanno potuto e che mi hanno sostenuto. Con una di queste, che è vedova e con un figlio in difficoltà, mi sono confrontato rispetto a queste riflessioni; e lei mi ha raccontato come, quando è morto suo marito, anche lei fosse stata fisicamente sorretta da una gran quantità di persone che realmente l’avevano aiutata. Poi però, con il passare dei mesi, quando si alzava al mattino o quando era stanca morta la sera, continuamente le si ripresentava il volto di questo figlio in difficoltà come un tarlo, come un punto ineludibile. E questo — mi raccontava — l‘ha quasi costretta a comprendere che questa situazione, in cui il tuo problema e la tua angoscia sono solo tuoi, è anche il punto di maturità in cui sei chiamato a fare i conti fino in fondo, e davvero solo tu, con il Mistero che ti chiede di riconoscerLo e di invocarLo con insistenza. Devo ammettere che ho immediatamente accusato il colpo; l‘ipotesi che proprio questa aridità che mi riempiva il cuore di angoscia fosse un ‘occasione per la mia vita non i ‘avevo nemmeno contemplata. Così nei giorni seguenti ho cominciato a vivere tutte le circostanze, esattamente le stesse di prima, partendo da questa posizione, chiedendo a Gesù che fossi capace di riconoscerLo. L‘effetto immediato è stata la scomparsa della paura, perché anche questo aspetto a me così in viso acquistava un valore per la mia vita; e la scomparsa della paura ha determinato un conseguente sguardo diverso sulla realtà, che tornava a essere amica. Questo mi ha sbloccato e ho ricominciato a trattare la realtà come possibilità di bene e a provare a manipolarla per il pur piccolo spazio di azione che mi era concesso nella situazione. Ora quello che chiedo per la mia vita è di non recedere da questa posizione di mendicanza di fronte al Mistero. Non chiedo certamente di rimanere in questa circostanza così ostile, anzi, Dio me ne scampi; ma che resti desta in me la stessa urgenza di cercarLo che questa circostanza ha determinato.

Cerchiamo di non perdere il nocciolo della questione. Guardate che non ha raccontato un fatto eclatante... Che cosa ha determinato questo cambiamento?

Il fatto di poter guardare la circostanza come amica.

Punto. Capite? Punto! Che qualcuno mi apra alla possibilità di guardare la realtà non secondo la mia misura, e questo può essere un punto di maturità per te; è un’ipotesi che uno prende quando è alle strette perché uno è più bisognoso, e quindi meno presuntuoso. Questo introduce uno spalancare la ragione in modo tale che io posso incominciare a percepire la realtà, anche quella in cui sono bloccato, come un’occasione per la mia vita. Guardate che non occorrono cose assolutamente eccezionali, come tante volte ci aspettiamo che succeda non so che cosa: basta semplicemente che noi siamo leali con questo uso vero della ragione come categoria della possibilità che introduce un Altro, e questo ha un effetto immediato: scompare la paura, la realtà diventa amica e tutto incomincia ad acquistare un altro volto. Occorre semplicemente essere aperti, anche minimamente, a questo. E sono stupito, perché ogni volta me ne date più testimonianza. Vi leggo questa lettera: «Mi ha molto colpito come alla Scuola di comunità tu hai risposto a quel ragazzo. Tu hai sfidato la sua ragione chiedendogli se ammetteva qualcosa di diverso rispetto a quello che gli passava in testa. Mi accorgo che questo atteggiamento è proprio il mio, perché è vero che di fronte a ogni circostanza è sempre una mia misura il punto di partenza per giudicare. Dico questo perché rispetto al tema della conversione su cui ci stai facendo lavorare non è che manca il desiderio di Lui [tutti l’abbiamo: sono sicuro che siete qua perché l’avete!], ma ultimamente non prevale la Sua presenza rispetto al mio pensiero, non prevale come possibilità sulla mia misura. Guardare la realtà tutta con la certezza istantanea che per il fatto della presenza di Cristo questa è per me, mi pare quasi impossibile [e questo possiamo dirlo dopo anni di vita nel movimento, dopo anni di testimonianze a migliaia]. Ed è così vero che, come dici tu, anche quello che vedo capitare in altri mi colpisce; ma poi rimane impossibile per me [vediamo che negli altri tante misure sono saltate per aria, ma questo è come se ultimamente fosse impossibile per sé]. La cosa diventa ancora più pesante quando si pensa a quello che di bello è capitato nella propria vita, dove è evidente, almeno per me, che è un Altro che opera nonostante me». La conversione non è, come tante volte la concepiamo, soltanto smettere di fare qualcosa di cattivo per fare le cose buone — perché a questo quasi potremmo essere disponibili (quasi!) —. Ma per cambiare la misura occorre quasi un cataclisma! Guardate che quando Gesù usa la parola conversione sta riferendosi a questo: cambiare il modo di percepire il reale, il nous, cioè il modo di usare la ragione. Non è che Giussani era un illuso quando ci faceva lavorare su queste cose, e dalla prima ora del liceo Berchet sapeva benissimo qual è la battaglia, perché noi siamo incastrati in questa misura. Invece, quando lasciamo entrare un’altra possibilità, allora incominciamo a vedere com’è davvero la realtà.

Volevo raccontarti l‘esito del lavoro di Scuola di comunità. Il primo esito è un cambio dell‘assetto di fronte al reale, nel senso che fin da quando apro gli occhi al mattino è come se non potessi più prescindere dal dato che la realtà è, così com‘è nel senso letterale del termine, come qualcosa che ti è dato: che uno si svegli, che abbia il marito, i figli, una casa, un lavoro, i genitori, la fede. Detto ciò, quando tu hai cominciato a prendere sul serio per te e quindi a sfidare noi sul punto della conversione, io mi sono trovata rigida e timorosa; e ovviamente questo mi ha addolorato e turbato.

Perché? Perché ti sei irrigidita?

Non lo so.

Quando dico che noi, davanti alla parola conversione, ci difendiamo, sto dicendo questo; non sappiamo perché, ma appena la sentiamo, diventiamo rigidi e timorosi. Questo è quello che voglio dire.

Nonostante questo aspetto di grazia che io mi sento addosso.

Ti ringrazio, perché è quello che sperimento anch’io.

Mi sono sentita turbata nonostante tu dopo nel testo sei stato comprensivo: non preoccupatevi, in fondo «si resiste a qualcosa di presente». Non riuscivo a capire come mai potessi resistere a quello che io credo essere il mio desiderio più grande. Allora ho fatto una cosa che è l’unica cosa che mi accompagna nelle giornate; e qui c ‘è stata la sorpresa più grande, nel senso che io capisco che non mi sarei nemmeno accorta né della contemporaneità né della conversione, se non ci fosse stato l’inserirsi di un terzo fattore che è il metodo che tu ci hai proposto. Anche perché io mi sono accorta che al di là del riconoscerLo presente, in tutti questi dati io ho bisogno continuamente di reincontrarLo ogni giorno, ho bisogno di vedere in quell’uomo che ho sposato da ventidue anni e che conosco fino al punto di poterlo prevedere un punto di novità ultima, ho bisogno di vedere in quel lavoro che faccio (che è il trionfo dell‘ordinario) un punto di possibilità per il cambiamento mio, ma non solo mio, del mondo, della storia. E allora a questo punto io capisco quel che diceva la mail che citavi prima, che non bastano la Rose, padre Aldo, eccetera. Ma invece io ce li ho in mente; io quando penso a dover perdonare o essere perdonata ho in mente il Papa; quando guardo i miei figli ho in mente la Rose; quando entro in ufficio ho in mente la Marta Cartabia e quello che ha detto lei, fino al continuo rapporto con quel che ci dici tu, perché altrimenti per me vivere la mia umanità così com‘è, fino a quel punto che mi porto dentro di solitudine profonda che niente e nessuno sembra colmare, e vivere tutto questo come una risorsa non è possibile.

Che cosa lo rende possibile? Perché questa è la conversione da cui tu puoi non difenderti.

Che Qualcuno si è piegato e mi ha amato di un amore infinito.

La questione è questa. Davanti a uno che ti dice: «Mi ami tu?», tu ti irrigidisci? No. Dico questo perché uno si irrigidisce davanti a certe cose che deve lasciare o che deve togliere, non a un abbraccio. È vero o no? Perché noi, un istante dopo aver detto la parola conversione, la riduciamo al moralismo solito (cioè che devo cambiare qualcosa). Il primo cambiamento a cui ci sta invitando da sempre don Giussani è che la prima attività è quasi una passività, che è accogliere l’abbraccio di un altro! Zaccheo si è convertito?

Sì.

Ha resistito?

No.

Si è irrigidito?

No.

Perché no? Perché lui ha accettato; prima di tutto non prevedeva di dover cambiare niente, ha accettato quell’imprevisto di Uno che abbracciava tutta la sua umanità. La questione è che noi stacchiamo questo; e poi immaginiamo la conversione come se fosse qualcosa di nostro. No. È sotto la pressione di questa commozione che Zaccheo è cambiato. Ma noi stacchiamo: c’è il discorso sentimentale e poi la conversione moralistica. Stacchiamo due cose che non si possono dare che unite! Tanto è vero che se si staccano, non esistono, e uno si blocca. Perché? Questa è la questione:
perché noi abbiamo già ridotto Cristo non al dono della Sua presenza, ma agli atteggiamenti che dobbiamo cambiare. Quando Zaccheo ha accolto quello sguardo mai visto prima, è rimasto così sconvolto dalla Sua tenerezza che poi, senza sforzo, è cambiato. Mi spiego? Se noi non accettiamo questo, se quando tu ti irrigidisci non Lo lasci entrare — non è che devi cambiare la rigidità, non è che devi prima metterti a posto, se potessimo metterci a posto senza Cristo, allora che cosa faremmo qua? —, allora la conversione diventa un’ansia. E in fondo Cristo è solo una parola, un ornamento. Infatti nell’immaginario collettivo odierno (e ci siamo dentro anche noi, eccome), come viene concepita la figura di Cristo? E venuto, se ne è andato, ci ha lasciato qui da soli con qualche regola da seguire, poi tornerà per giudicarci in un summit finale. Quando mi irrigidisco e non riparto di nuovo dal bene che ho sperimentato, io da questa rigidità non vengo fuori, da questo essere incastrato non vengo fuori. Occorre costantemente sfidare questa rigidità con la Sua presenza. E questo è un lavoro.
Finisco leggendo ancora una mail che spiega bene quello che ci fa veramente entrare nel reale con una modalità diversa: «Voglio raccontarti come il lavoro della Scuola di comunità mi ha aiutato e mi sta aiutando ad affrontare le circostanze di nuovo, anche le più impensabili. Circa un anno fa ho ottenuto per pura grazia il trasferimento per motivi di famiglia. Il primo giorno di lavoro mi presento al direttore della filiale (lavoro in banca), che mi dice senza mezzi termini che se avesse potuto scegliere, non avrebbe mai scelto me per il lavoro che dovevo fare, ma una persona che avesse fatto quel lavoro da molto più tempo. Per me è stato un periodo non facile, ma ricco di grazia. Ogni giorno entravo in ufficio con la domanda che Lui si facesse vedere, che non mi facesse sentire sola in un ambiente così ostile, che potessi conoscerLo di più. Dopo circa un mese il direttore viene nel mio ufficio e mi dice: “Guarda, dimenticati quello che ti ho detto il primo giorno; se ora mi chiedessero di scegliere tra te e uno che fa questo lavoro da una vita, sceglierei te perché, oltre ad aver imparato a fare questo lavoro meglio di chi lo fa da una vita, anche umanamente ho conosciuto poche persone così”. A me sono venuti proprio i brividi, perché era evidente che era opera di Cristo. La conversione è proprio quello che dici: che si desti in me il desiderio di cambiare per non perdermi quello che hai davanti, e implica proprio uno spostamento personale, cioè voltarmi a guardare dove Cristo mi provoca nel reale, altrimenti lo faccio fuori. Questo è stato evidente in questo altro episodio che mi è accaduto. Qualche mese fa sono stata a dei corsi di formazione per la banca per cui lavoro e da un confronto con i colleghi emergeva un grande malcontento: chi si lamentava del direttore poco comprensivo, chi dei colleghi poco collaborativi. Io ho avuto un contraccolpo perché in quel momento ho detto: “Per me il lavoro non è questo”. Poi dopo qualche mese una collega in una chiacchierata, raccontandomi un po’ di come sta vivendo il lavoro, mi dice a un certo punto: “Va be’, ma tanto tu sei già arrivata”. Queste erano evidentemente due occasioni privilegiate in cui il Mistero mi stava provocando. La conversione per me è coincisa nel prendere sul serio questi due episodi che mi hanno aperto una voragine di domanda sul significato di me [il Signore ci chiama in questo modo: se noi non intravediamo neanche una possibilità di guadagno per noi, allora non ci muoviamo e riduciamo il cuore a sentimento]. Mi è venuto il desiderio di approfondire per me che possibilità è il lavoro, ed estendere questo invito anche ai colleghi e agli amici. Parlando con alcuni di questo desiderio ho proposto di invitare per un incontro pubblico un caro amico che è la testimonianza vivente di un’umanità cambiata dall’incontro con Cristo. Così ho invitato i miei colleghi e il direttore della mia filiale. È venuto solo il mio direttore, che alla fine dell’incontro non sapeva più come ringraziarmi dell’invito, talmente è rimasto folgorato da quello che ha sentito; e mi ha detto: “Vorrei fare parte anch’io di questa storia.
Se lo sapevo, portavo anche le mie figlie e mia moglie” [questa è proprio la modalità con cui Cristo si fa conoscere: affrontando il reale come tutti ma con questa novità negli occhi, e Lui appena trova un interstizio nel nostro cuore ci lega a sé]. Ti ringrazio davvero per la passione con cui ci accompagni nel fare questo percorso, non ci lasci mai scampo. Sicuramente questi fatti qualche anno fa [attenzione!] mi avrebbero solo colpito, li avrei raccontati alla Scuola di comunità senza arrivare a dire: “Chi sei Tu, o Cristo mio, che fai accadere queste cose e così mi attrai sempre più a Te, mi fai domandare sempre più di Te?”». Questa è la conversione, che a uno viene il desiderio per lo stupore: chi sei Tu, Cristo? Questa è la promessa che la proposta di don Giussani ha dentro. Non occorre aspettare non so che apparizione; occorre semplicemente accettare questa ipotesi per entrare nel reale in ogni circostanza in cui la vita ci sfida. Altrimenti sentire queste cose e non vederle nella propria esperienza non ci basta, lo sappiamo bene. Per questo, senza che ciascuno di noi accetti questa sfida e questa verifica, questa evidenza e questa certezza non cresceranno. Invece quando accettiamo, vedete che cosa succede...

Per la prossima Scuola di comunità continuiamo il lavoro sulla lezione di La Thuile, perché non l’abbiamo neanche sfogliata oggi: che cosa è cambiato in noi leggendo la lezione? Come concepiamo la comunione e la compagnia e che cosa vuol dire la memoria? Che cosa ci fa compagnia fino alla malattia o alla morte, che cosa? Senza di questo noi non potremo veramente capire fino in fondo che cosa è proposto nella lezione.

• Gloria.
Messaggio del 20-11-2010 alle ore 19:52:49
«Sotto natale ho visto numerosi volumi sulle entrate della Chiesa.»
«Tutti a puntare il dito contro le entrate della Chiesa, ma nessuno pensa a quanto fa guadagnare la Chiesa in occasione delle nascite, dei battesimi, dei compleanni, degli onomastici, delle comunioni, delle cresime, dei matrimoni, degli anniversari, delle feste comandate, della pasqua, del natale, delle feste patronali, dei sacerdozi e dei funerali. Quanto fa guadagnare la Chiesa per mantenere una parrocchia, una famiglia, un figlio all’università, un padre lavoratore, una moglie disoccupata. Quanto spendono due coniugi lavoratori al supermercato, in libreria, al fioraio, in pizzeria, al ristorante, in banca, per l’automobile, per la casa, per l’azienda e cose varie?»
«Tantissimo!»
«E allora? Pensi che questi libri sulle entrate della Chiesa siano giustificate?»
«Penso di no...»
«Pensi che se lo dici agli atei ti crederebbero?»
«Penso di no. Anche di fronte a dati evidenti come questi, penso che non mi crederebbero.»
«Bene, così come non credono all’evidenza dei dati materiali, non credono neanche nella parola di Dio. Non è che non la capiscono, la capiscono eccome, ma la rifiutano e accampano mille scuse per fingere di non capirla.»
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 07:02:31
Appena ho una settimana di ferie, rispondo
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 12:17:27
Dicè, DIO NON ESISTE...
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 13:25:57

Dicè, DIO NON ESISTE...



e se esiste, comunque è sempre girato di culo!!!!



sdasssssssssssssssssssssss
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 15:11:01
Non credo che chi rifiuta la parola sia così stupido da non credere in Dio. C'è chi accoglie la parola di Dio e la fa fruttare fino alla realizzazione completa di sé, e chi la rifiuta, questo sì. Ma dire: "non credo, perché non la capisco o perché sono più intelligente di te", mi pare ridicolo.





Il fatto è che accogliere la parola è difficilissimo, comporta dei sacrifici, ci riescono solo i chiamati e questa società edonista che facilita sempre il compito sino a renderci debolissimi e vanitosi, ci allontana da Dio.





E' come partecipare alla maratona di Monaco, per completare il percorso occorre essere allenati, occorre fare molti sacrifici, figuriamoci per entrare tra i primi 100! Non tutti ci riescono. Infatti sono pochissimi i lancianesi che hanno partecipato ad una maratona. Ancor di meno sono i lancianesi che l'hanno completata veramente.
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 20:12:00
Molto importante

Il senso religioso


di Luigi Giussani

1. Di che si tratta

Per affrontare il tema del senso religioso in modo sgombro da equivoci e perciò più efficace ricondurrò la metodologia di tale lavoro a una triplice premessa.
Nell’abbordare la prima di esse vorrei citare come punto di approccio una pagina dal libro Riflessioni sulla condotta della vita di Alexis Carrel:

«Nello snervante comodo della vita moderna la massa delle regole che danno consistenza alla vita si è spappolata; [...] la maggior parte delle fatiche che imponeva il mondo cosmico sono scomparse e con esse è scomparso anche lo sforzo creativo della personalità [...]. La frontiera del bene e del male è svanita, [...] la divisione regna ovunque [...]. Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».

Interrompo per osservare che qui Carrel usa il linguaggio di chi si è sempre dedicato a un certo tipo di studio, scientifico (ricordiamo che egli fu giovanissimo Premio Nobel per la medicina): la parola «ragionamento» potrebbe utilmente essere sostituita dalla parola «dialettica in funzione di una ideologia». Infatti la nostra — prosegue Carrel — è un’epoca di ideologie, nella quale cioè invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall’intelletto: «così il trionfo delle ideologie consacra la rovina della civiltà».

2. Il metodo di ricerca è imposto dall’oggetto: una riflessione sulla propria esperienza

Questo brano di Carrel ha bene introdotto il titolo della prima premessa: per una indagine seria su qualsiasi avvenimento o «cosa», occorre realismo.
Intendo con questo riferirmi all’urgenza di non privilegiare uno schema che si abbia già presente alla mente rispetto alla osservazione intera, appassionata, insistente del fatto, dell’avvenimento reale. Sant’Agostino, con un cauto gioco di parole, afferma qualcosa di simile con questa dichiarazione: «Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla».3 Tale dichiarazione indica un atteggiamento opposto a quello che è più facile ravvisa- re nell’uomo moderno. Se infatti sappiamo una cosa, possiamo dire anche di pensarla; ma sant’Agostino ci avverte che non è vero il contrario. Pensare qualcosa è la costruzione intellettuale, ideale e immaginativa, che noi operiamo in proposito; ma sovente concediamo troppo privilegio a qusto pensare, per cui senza rendercene conto — o addirittura anche giustificando l’atteggiamento che sto per definire — proiettiamo sul fatto ciò che ne pensiamo. L’uomo sano invece vuole sapere come un fatto sia: solo sapendo come è, e solo allora, può anche pensano.
Così, sulla scia della osservazione di Carrel e di quest’ultima di sant’Agostino, insisto nell’affermare che anche per l’esperienza religiosa è importante innanzitutto sapere come sia, di che cosa esattamente si tratti.
È chiaro comunque che, prima di ogni altra considerazione, dobbiamo affermare che proprio di un fatto si tratta, anzi del dato di fatto statisticamente più diffuso nell’attività umana. Non esiste infatti attività umana che sia più vasta di quella individuabile sotto il titolo «esperienza o sentimento religioso». Essa propone all’uomo un interrogativo su tutto ciò che egli compie, e viene perciò a essere un punto di vista più ampio di qualunque altro. L’interrogativo del senso religioso — come rivedremo — è: «che senso ha tutto?», e dobbiamo riconoscere che si tratta di un dato emergente nel comporta- mento dell’uomo di tutti i tempi, e che tende a investire tutta l’attività umana.
Se dunque noi vogliamo sapere come sia questo fatto, in che cosa consista questo senso religioso, il problema di metodo ci impegna subito in modo acuto. Come affronteremo tale fenomeno per essere sicuri di riuscire a conoscerlo bene?
Occorre dire che la maggior parte delle persone si affidano in questo — coscientemente o incoscientemente — a quello che dicono gli altri, e in particolare a quello che dicono coloro che contano nella società: per esempio, i filosofi che l’insegnante spiega a scuola, i giornalisti che normalmente scrivono sui quotidiani e sui periodici che determinano l’opinione pubblica. Come faremo a sapere che cosa è questo senso religioso: studieremo dunque quel che ne dicono Aristotele, Platone, Kant, Marx o Engels? Potremmo anche far così, ma usare innanzitutto questo metodo è scorretto. Il motivo è che non si può su quest’espressione fondamentale dell’esistenza dell’uomo abbandonarsi al parere di altri, per esempio assorbendo l’opinione più in voga o le sensazioni determinanti l’aria che respiriamo.
Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto. Se io mi trovassi seduto a parlare davanti a una sala piena di gente e avessi un notes sul tavolo, che parlando intravvedo con la coda dell’occhio, e io mi domandassi che cosa sia quel biancore che colpisce la mia vista, potrei pensare le cose più disparate: gelato sparso, un brandello di camicia, ecc... Ma il metodo per sapere di che cosa veramente si tratti mi è imposto dalla cosa stessa. Non potrei cioè dire che preferirei mettermi a contemplare un altro oggetto rosso in fondo alla sala o gli occhi di una persona in prima fila: se volessi veramente conoscere l’oggetto biancheggiante, dovrei necessariamente rassegnarmi a chinare la testa e a prenderne visione fissando gli occhi su di esso.
Vale a dire, il metodo per conoscere un oggetto mi è dettato dall’oggetto stesso, non può essere definito da me. Se al posto del notes di cui si parlava poc’anzi ipotizzassimo che sullo scorcio dell’occhio fosse possibile avere l’esperienza religiosa come fenomeno, anche in questo caso si dovrebbe dire che il metodo per conoscerla deve venire da essa suggerito.
Ora, che tipo di fenomeno è l’esperienza religiosa? Essa è un fenomeno che attiene all’umano, pertanto non può essere trattata come un fenomeno geologico o meteorologico. E qualcosa che riguarda la persona. Allora come agire? Poiché si tratta di un fenomeno che avviene in me, che interessa la mia coscienza, il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere. Mi occorre un’indagine su me stesso, un’indagine esistenziale.
Risolta tale indagine, allora molto utilmente ne confronterò i risultati con ciò che al riguardo viene espresso da pensatori e filosofi. E a quel punto in un simile confronto si arricchirà il dato che avrò raggiunto, senza il rischio di far assurgere a definizione un parere altrui. Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma, arricchimento o contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinione inevitabilmente alienante. Di una questione importante per la mia vita e per il mio destino adotterei acriticamente un’immagine indotta da altri.

3. L’esperienza implica una valutazione

Ma quanto finora esposto è solo l’inizio del procedimento, perché dopo aver condotto un’indagine esistenziale è necessario saper emettere un giudizio a proposito dei risultati di tale indagine su noi stessi.
Evitare l’alienazione in ciò che altri dicono non esime dalla necessità di dare un giudizio su quanto in se stessi si è trovato nel corso della indagine. Senza una capacità di valutazione infatti l’uomo non può fare alcuna esperienza.
Vorrei precisare che la parola «esperienza» non significa esclusivamente «provare»: l’uomo sperimentato non è colui che ha accumulato «esperienze» — fatti e sensazioni — facendo, come si dice, di ogni erba un fascio. Tale accumulo indiscriminato genera spesso distruzione e vanificazione della personalità.
L’esperienza coincide, certo, col «provare» qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che si prova. «La persona è innanzitutto consapevolezza. Perciò quello che caratterizza l’esperienza non è tanto il fare, lo stabilire rapporti con la realtà come fatto meccanico [...]. Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose». Un giudizio esige un criterio in base al quale viene operato. Anche per l’esperienza religiosa occorre domandarsi, dopo aver svolto l’indagine, quale criterio adottare per giudicare quanto si è trovato nel corso di quella riflessione su se stessi.

4. Criterio per la valutazione

Domandiamoci allora: qual è il criterio che ci permette di giudicare ciò che vediamo accadere in noi stessi?
Due sono le possibilità: o il criterio in base al quale giudicare ciò che si vede in noi è mutuato dal di fuori di noi, o tale criterio è reperibile dentro di noi.
Nel primo caso ricadremo nell’evenienza alienante che abbiamo descritto prima. Se anche avessimo svolto un’indagine esistenziale in prima persona, rifiutando perciò di rivolgerci a indagini già svolte da altri, ma prelevassimo da altri i criteri per giudicarci, il risultato alienante non cambierebbe. Faremmo ugualmente dipendere il significato di ciò che noi siamo da qualcosa che è fuori di noi.
A questo punto però mi si potrebbe intelligentemente obiettare che, poiché l’uomo prima di esserci non c’era, non è possibile che possa darsi da sé un criterio di giudizio. Questo viene comunque «dato».
Ora, che questo criterio sia immanente a noi — entro di noi — non significa che ce lo diamo da soli: è attinto dalla nostra natura, vale a dire ci viene dato con la natura (dove la parola «natura» evidentemente nasconde la parola Dio, indizio cioè dell’origine ultima del nostro io).
Solo questa può essere considerata un’alternativa di metodo ragionevole, non alienante.
Il criterio per giudicare quella riflessione sulla propria umanità deve dunque essere immanente alla struttura originaria della persona.

5. L’esperienza elementare

Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto. Ciò che ogni uomo ha il diritto e il dovere di imparare è la possibilità e l’abitudine a paragonare ogni proposta con questa sua «esperienza elementare».
In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l’uomo nell’universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo — come strumento di tale universale confronto — di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende.
A esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc...). Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica. Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali.
Ipotizziamo davanti a noi il solito notes dell’esempio già fatto. Se qualcuno ci venisse accanto e ci dicesse seriamente: «Sei sicuro che sia un notes? E se non lo fosse?» la nostra reazione sarebbe di uno stupore venato di paura, come chi si trovi di fronte a un eccentrico. Aristotele diceva argutamente che è da pazzi chiedersi le ragioni di ciò che l’evidenza mostra come fatto. Nessuno potrebbe vivere a lungo e con sanità sulla linea di quelle assurde domande. Ebbene, questo tipo di evidenza è un aspetto di ciò che ho chiamato esperienza elementare.
Vorrei proporre un altro esempio, grottesco ma significativo. In un liceo il professore di filosofia spiega: «Ragazzi, tutti noi abbiamo l’evidenza che questo notes sia un oggetto fuori di noi. Non c’è nessuno che possa evitare di riconoscere che la sua prima impressione al riguardo sia quella di un oggetto fuori di sé. Supponete però che io non conosca quest’oggetto: sarebbe come se esso non esistesse. Vedete allora che ciò che crea l’oggetto è la nostra conoscenza, è lo spirito e l’energia dell’uomo. Tant’è vero che se l’uomo non lo conoscesse sarebbe come se non fosse». Ecco un professore «idealista», diciamo. Facciamo l’ipotesi che questo insegnante si ammali gravemente e che venga sostituito. Il supplente, informato dagli studenti del programma svolto, decide di riprendere l’esempio del professore assente. «Tutti noi siamo d’accordo — dice — che la prima evidenza è che questo sia un oggetto fuori di noi. E se non lo fosse? Dimostratemi che c’è, come oggetto fuori di me, in modo incontrovertibile»: ecco un professore problematicista, scettico o sofista. Ammettiamo ancora che per imprevedibili circostanze arrivi in quella classe un altro supplente di filosofia e che riprenda il discorso allo stesso punto. Dice: «tutti abbiamo l’impressione che questo sia un oggetto fuori di noi: è un’evidenza prima, originaria. Ma se io non lo conosco? È come se non esistesse. Vedete dunque che la conoscenza è un’incontro tra un’energia umana e una presenza. È un avvenimento in cui si assimila l’energia dell’umana coscienza con l’oggetto. Vedete dunque, amici miei, che occorrono due cose per la conoscenza: l’energia della nostra coscienza e l’oggetto. Come si produce tale unità? È domanda affascinante di fronte alla quale abbiamo potere fino ad un certo punto. È certo però che la conoscenza è composta di due fattori». È un insegnante «realista».
Abbiamo visto tre interpretazioni diverse dello stesso argomento. Quale delle tre sarà «giusta»? Ognuna di esse ha la sua attrattiva, ognuna esprime un punto di vista vero. Con quale metodo si arriverà a decidere? Occorrerà prendere in esame le tre opinioni e confrontarle con i criteri di quella che ho chiamato esperienza elementare: ai criteri cioè immanenti alla nostra natura, a quel complesso di esigenze, di evidenze con cui nostra madre ci ha fatti nascere. Dei tre professori chi utilizza un metodo più corrispondente all’esperienza originale? Il terzo rivela una posizione più ragionevole, perché tiene conto di tutti gli elementi in gioco; ogni altra metodologia cade in un criterio riduttivo.
Ho proposto questo esempio per insistere sulla necessità che la riflessione su di sé sia vagliata, per giungere a un giudizio, attraverso il confronto tra il contenuto della riflessione stessa e il criterio originale di cui siamo tutti dotati. Una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come impronta interiore. Così, quando essi diranno «io», utilizzeranno questa parola per indicare una molteplicità di elementi derivanti da diverse storie, tradizioni e circostanze, ma indubbiamente quando diranno «io» useranno tale espressione anche per indicare un volto interiore, un «cuore» direbbe la Bibbia, che è uguale in ognuno di essi, benché tradotto nei modi più diversi.
Identifico in questo cuore ciò che ho chiamato esperienza elementare: qualcosa che tende a indicare compiutamente l’impeto originale con cui l’essere umano si protende sulla realtà, cercando di immedesimarsi con essa, attraverso la realizzazione di un progetto, che alla realtà stessa detti l’immagine ideale che lo stimoli dal di dentro.

6. L’uomo, ultimo tribunale?

Abbiamo detto che il criterio per giudicare del proprio rapporto con se stesso, con gli altri, con le cose e con il destino è totalmente immanente all’uomo, secondo il suggerimento della struttura originale. Ma nella convivenza umana ci sono miliardi di individui che si paragonano con le cose e con il destino: come sarà possibile evitare una generale soggettivizzazione? Vale a dire, il singolo uomo avrebbe tutto il potere di determinare il suo significato ultimo e quindi delle azioni a esso tese: non sarebbe questo un’esaltazione dell’anarchia, intesa come idealizzazione dell’uomo quale ultimo tribunale?
Ritengo del resto che, come il panteismo dal punto di vista cosmologico, l’anarchia dal punto di vista antropologico costituisca una delle tentazioni grandi e affascinanti dell’umano pensiero. Infatti, a mio avviso, solo due tipi di uomini salvano interamente la statura dell’essere umano: l’anarchico e l’autenticamente religioso. La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito: l’anarchico è l’affermazione di sé all’infinito e l’uomo autenticamente religioso è l’accettazione dell’infinito come significato di sé.
Personalmente ho intuito ciò con chiarezza molti anni fa, quando un ragazzo è venuto a confessarsi da me spinto dalla madre. Egli in realtà non aveva fede. Abbiamo cominciato a discutere e, a un certo punto, di fronte alla valanga dei miei ragionamenti, ridendo mi dice: «Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi non vale quanto sto per dirle. Lei non può negare che la vera statura dell’uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all’inferno, ma che a Dio grida: “Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui. Non puoi però impedirmi di bestemmiarti, e io ti bestemmio”. Questa è la statura vera dell’uomo». Dopo qualche secondo di impaccio ho detto con calma: «Ma non è più grande ancora amare l’infinito?». Il ragazzo se n’è andato. Dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti perché era stato «roso come da un tarlo» per tutta l’estate da quella mia frase. Quel giovane sarebbe morto di lì a poco in un incidente automobilistico.
Realmente l’anarchia costituisce la tentazione più affascinante, ma è tanto affascinante quanto menzognera. E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore. E pertanto pura violenza ciò che può fargli dire: «Io mi affermo contro tutti e contro tutto». E molto più grande e vero amare l’infinito, cioè abbracciare la realtà e l’essere, piuttosto che affermare se stessi di fronte a qualsiasi realtà.
Perché in verità l’uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare se stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé.
Ecco perché il criterio fondamentale con cui si affrontano le cose è il criterio oggettivo con cui la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli. E solo qui, in questa identità dell’ultima coscienza, il superamento dell’anarchia. L’esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l’energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto, al punto che essi possono vivere tra loro un commercio di idee oltre che di cose, possono trasmettersi l’un l’altro ricchezze a distanza di secoli, e noi leggiamo con emozione frasi create migliaia di anni fa dagli antichi poeti con un’impressione di suggerimento al nostro presente, come talvolta non deriva dai rapporti quotidiani. Se c’è una esperienza di maturità umana è proprio questa possibilità di addentrarsi nel passato, di accostarsi al lontano come fosse vicino, come fosse parte di sé. Perché ciò è possibile? Perché questa esperienza elementare, come dicevamo, è sostanzialmente uguale in tutti, anche se poi sarà determinata, tradotta, realizzata in modi diversissimi, apparentemente persino opposti.
La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa — dalla vita dello spirito al vestito — è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime, e non alla mercé di più occasionali reazioni.
Anche questi occasionali pareti sono indotti da un contesto e da una storia, e anch’essi debbono essere attraversati, perché le nostre esigenze originali siano raggiungibili. Il modo di concepire il rapporto tra l’uomo e la donna, per esempio, benché vissuto come fatto intimo e personale, è in realtà ampiamente determinato sia dalla istintività propria, che crea valutazioni per nulla in linea con l’esigenza originale dell’affetto, sia dall’immagine di amore creatasi nell’opinione pubblica.
Occorre perforare sempre tali immagini indotte dal clima culturale in cui si è immersi, scendere a prendere in mano le proprie esigenze ed evidenze originali e in base a queste giudicare e vagliare ogni proposta, ogni
suggerimento esistenziale.
L’uso dell’esperienza elementare, o del proprio «cuore», è dunque impopolare soprattutto di fronte a se stessi, poiché quel «cuore» appunto è l’origine dell’indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggetto di interesse o di piacere. La propria esigenza di uomo o di donna è ravvisabile come diversa: è esigenza di amore, ed è purtroppo miseramente facile a essere alterata.
Incominciamo a giudicare: è l’inizio della liberazione.
Il ricupero dell’esistenziale profondo, che permette questa liberazione, non può evitare la fatica di andare controcorrente. Si potrebbe chiamare lavoro ascetico, dove con la parola ascesi si indica l’opera dell’uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino. E un lavoro, e non è un lavoro ovvio; è qualcosa di semplice, ma non scontato.
Quanto finora detto è da riconquistare, ma viviamo in un’epoca in cui l’esigenza di tale riconquista è più chiara che mai, benché in ogni tempo l’uomo abbia dovuto lavorare per riconquistare se stesso.
In termini cristiani questa fatica fa parte della «metanoia», o conversione.
Messaggio del 21-11-2010 alle ore 22:29:03
DIO è GAY
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 12:21:42
oggesù
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 14:23:56



sdassssssssssssssss
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 14:29:40
Sdasss,
la tua definizione non è sbagliata. Secondo noi cattolici Dio è puro spirito e non può essere né maschio né femmina. La Sacra Bibbia parla anche di Dio Madre, Dio generatrice, Dio creatore............

La proiezione secondo Gesù......


Calunnie degli scribi

[22]Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». [23]Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? [24]Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; [25]se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. [26]Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. [27]Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. [28]In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; [29]ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». [30]Poiché dicevano: «E' posseduto da uno spirito immondo».

Messaggio del 22-11-2010 alle ore 14:58:06
Appunti dalla Scuola di comunità con Juliàn Carròn

Milano, 03 novembre 2010


Testo di riferimento: «Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di
Comunione e Liberazione (La Thuile 2010), suppi. Tracce-Litterae Communionis, n. 8 (2010).

• Canto “Il viaggio”
• Canto “Lagrima”

• Gloria

Vorrei cominciare la Scuola di comunità di oggi con due lettere che sono arrivate. La prima dice così: «Sono rimasto molto colpito dall’ultima Scuola di comunità. Una cosa in particolare che hai detto mi ha ferito. Pensavo che la ferita passasse, che in fondo potessi trovare il modo di nasconderla o dimenticarla come altre volte, ma questa volta non ci riesco, perciò ti scrivo. Rispondendo alla prima persona che è intervenuta hai detto che di fronte alle circostanze dolorose, alle prove della vita [stavo leggendo la lettera inviata] non bastano le esperienze vissute altre volte, neanche la certezza che senza la Resurrezione niente avrebbe senso [perché questo non dimostra la Resurrezione], non basta pregare perché si può pregare come se Cristo non fosse risorto [qui riassume quello che diceva la lettera: non era proprio così, ma sostanzialmente è così]. Hai detto che serve il giudizio e che il giudizio è il riconoscimento di un fatto. Fino a qui sono stato assolutamente d’accordo, io ho annuito a ogni parola che hai detto, ma poi ne hai detta una che ho sentito completamente estranea a me e al discorso. Hai detto: “Non basta tutto questo, ci vuole la fede”. La fede? Ho pensato: “Che cosa c’entra la fede?”. Sono rimasto di sasso. Non ho capito nulla. Io pensavo che la fede arrivasse alla fine de! percorso, dopo aver dato tutti i giudizi sulle cose e sull’esperienza, dopo aver usato la libertà. Allora, a conclusione del ragionamento, arriva la fede. In tutto quello che hai detto agli Esercizi della Fraternità e che ho letto più volte non avevo colto nulla; sono entrato anche io nel club: solo ora comincia a farsi strada in me l’ipotesi che la fede ha inizio nei fatti e che la sfida della libertà e della vita è già lì e che devo imparare quello che pensavo già di sapere. Devo dire che un po’ mi rode ammettere che hai sempre ragione su questo e che ho sempre avuto torto io, ma ora non ho più scuse. Ti chiedo proprio come un bambino di spiegarmi l’abicì. Oltretutto penso di essere in buona compagnia, il club è abbastanza affollato».
Perché ritorno su questo? Perché mi stupisce la difficoltà che è emersa alle ultime Scuole di comunità, come se in fondo avessimo bisogno di una risposta ultimamente sentimentale, tant’è vero che il mio rispondere con un fatto tante persone non l’hanno sentito come risposta adeguata a! bisogno che hanno. Io vi dico: se voi aveste la vostra persona più cara ammalata, che cosa vi servirebbe di più? Una mia consolazione o che io vi raccontassi che è stata scoperta la medicina che la guarisce? Che cosa è risposta più corrispondente? Qual è la carità più grande? Qua! è la risposta più adeguata al bisogno che abbiamo? Una bella consolazione? Una bella spiegazione della malattia? O l’annuncio del fatto che quella malattia è stata sconfitta e che c’è la possibilità di vivere in un altro modo? E questo, l’annuncio di questo fatto, è quello che ho provato a fare, davanti alle domande che emergevano, non in modo astratto, ma parlando della Resurrezione di Cristo — che è “il” fatto — non come un evento del passato, ma aiutandovi a riconoscere quei fatti che documentano “ora” la Resurrezione: erano i cambiamenti emersi nelle testimonianze che avevamo ascoltato prima. Io non avevo bisogno di spiegarvi la cosa, ma soltanto di aiutarvi a guardare quello che stava succedendo lì, e che l’unica spiegazione di quei fatti è la Sua presenza. Se uno non riconosce questo, deve produrre tutta la spiegazione, deve aggiungere parole a parole. Il mio tentativo metodologico la volta scorsa ha voluto essere questo: «Ma vi rendete conto di che cosa abbiamo sentito? Vi rendete conto che tutte queste cose che abbiamo sentito non ci sarebbero, se Cristo non fosse “qui e ora”?».
Quest’ultima osservazione risponde a un’altra lettera: «Come l’aver visto non diventa un devoto ricordo e quindi ancora uno sforzo mio perché sia quello che è stato? Perché a me interessa questa contemporaneità, a me interessa sperimentare oggi che certi volti sono il segno della Sua presenza a cui ho dato la vita, che un certo luogo è il luogo della memoria non perché è scritto, bensì perché accade davanti ai miei occhi».
Per questo, quel che manca è la fede non staccata dai fatti, la fede come riconoscimento dell’origine di quei fatti di cui io sono testimone. Altrimenti neanche quello che accade davanti ai nostri occhi ci serve, perché lo riduciamo, riduciamo il segno della Sua presenza, in cui si documenta la Sua presenza. Cc l’ha detto sempre, con tutta semplicità, don Giussani: qual è il segno della Sua presenza? «E, se opera». Il criterio è molto semplice: è, se opera. Se io Lo vedo all’opera, questa è la testimonianza più patente che c’è. E per questo la risposta al nostro bisogno è in questo riconoscimento, che non è il tentativo di immaginare o di sentire o di spiegare, ma il riconoscimento semplice della Sua presenza.
Ma per questo occorre la semplicità che documenta quest’altra lettera: «Due anni fa a Freiburg per motivi di studio ho conosciuto una ragazza tedesca di cui sono diventato molto amico. Lei è nata e vissuta a Berlino; si dice atea, una persona dai mille interessi che l’hanno portata in giro per il mondo a fare le esperienze più diverse. Una volta tornati io in Italia e lei a Berlino, tra mille fatiche e distrazioni l’amicizia è però continuata, si è intensificata tanto che questa estate l’ho invitata alla vacanza che facciamo con alcuni gruppi di Fraternità. Non solo lei ha miracolosamente accettato, ma una volta lì è rimasta subito conquistata e provocata da tutto quello che vedeva, tanto da sbaragliare tutti i miei timori sul fatto che essendo tedesca lei certe cose non le potesse capire. Poi è tornata a Berlino per un lavoro che l’ha resa pressoché irreperibile fino a poche settimane fa. Quando ci siamo risentiti mi ha detto che uno dei desideri che le erano nati questa estate era, per continuare quello che aveva visto, di leggere la Bibbia, e che per far questo si sarebbe recata in una chiesa protestante che conosceva. Io mi sono sinceramente demoralizzato, perché mi sembrava che lei stesse già cambiando il metodo inventandosi cosa fare invece di seguire con semplicità ciò che era accaduto. Però non ho voluto fermarla, pensando che piuttosto l’avrei aiutata a dare un giudizio su ciò che avrebbe visto. Venerdì ci siamo sentiti; la prima cosa che mi ha detto è: “Quello che ho visto alla chiesa protestante è stato molto importante, perché mi ha fatto capire meglio cosa ho visto quest’estate e come può essere diverso quello che si intende con la parola fede”, e poi mi ha spiegato che in quella chiesa aveva visto che il pastore puntava tutto sui sentimenti, e commentava:
“Una volta tornati a casa non resta niente se non seguire in modo passivo quello che il pastore ha detto di fare”. Invece, quello che aveva visto alla vacanza era tutt’altro, gli amici che cercano di aiutarsi ognuno nel proprio cammino di fede usando la ragione e senza che nessuno si sostituisca a un altro. E concludeva: “Ho capito che quello che voi cercate di fare è un cammino umano alla fede” [complimenti a questa ragazza]. Queste parole mi hanno fatto sobbalzare, perché te le ho sentite ripetere tante volte, ma sono sicuro che la mia amica non le ha mai sentite. Mi ha impressionato vedere come una persona nuova, con tante esperienze alle spalle e una disponibilità che la rende attenta a ciò che vede, abbia subito colto il tratto inconfondibile della nostra compagnia, cioè l’esaltazione dell’umano e l’uso radicale della ragione, e non abbia potuto trovare altre parole per descriverla se non quelle dette, lo abbia riconosciuto come corrispondente e abbia potuto usarlo come pietra di paragone con ciò che ha vissuto in seguito, dimostrando che si tratta davvero di qualcosa di unico e non riproducibile a piacere. Per me è stata una grandissima provocazione che mi spinge a desiderare di approfondire la conoscenza di ciò che la mia amica ha riconosciuto con tanta facilità [è facile!]. In ciò domina la gratitudine per Chi mi ha donato immeritatamente anche il rapporto con questa amica come occasione imprevedibile di memoria di Lui». Non uno sforzo immaginativo, di nuovo: un testimone «occasione imprevedibile di memoria di Lui».

Mia mamma sta molto male e più vado avanti più questa situazione peggiora, lei soffre di depressione e ve lo dico perché è una cosa che va avanti da tanti anni, è una cosa di cui io soffro molto e tutta la mia famiglia soffre molto, la situazione è molto dfJìcile. Ieri ci siamo sentite al telefono (non la sentivo da circa due mesi ed è stata l’ennesima lite, l’ennesimo buttarmi addosso tutta una serie di cose molto difficili per me da gestire. Quando ho chiuso questa telefonata in un modo veramente brutto mi sono impressionata come mai nella mia vita, perché mi sono ritrovata addosso una letizia, una pace e una serenità a guardare lei, la sua malattia e il modo in cui io sto iniziando a chiedermi che cosa questo vuol dire per me. La prima cosa che ho pensato è: io mercoledì devo andare a dire a Carròn e a tutti che Gesù è vero ed è un fatto. Ed è una cosa che io non ho mai detto nella mia vita in questo modo così semplice. E io dico che è Gesù perché non è una cosa che viene da me, io non sono capace di darmi questa serenità di sguardo. Tutto questo nasce solo dal lavoro di Scuola di comunità. Perché io ho incontrato il movimento in università, ma non è che abbia mai preso sul serio il lavoro personale, in cinque anni l’avrò fatto — non so — tre volte.

Non è male come record!

Una bella media! Mi sono laureata a maggio, ho iniziato a lavorare e avevo questi venti minuti in cui andavo in metropolitana al lavoro e per moralismo dicevo: «Sono ciellina, allora uso questi venti minuti per far Scuola di comunità» (è bellissimo che poi il Signore usa tutto...). Ho iniziato a fare Scuola di comunità così e mi sto impressionando ogni giorno di più perché ogni giorno che passa io non riesco più a stare senza fare il lavoro perché mnifa accorgere delle cose che io ho già davanti, ma che non guarderei in questo modo.

Cioè, di che cosa ti sta facendo accorgere?

Mi sta facendo accorgere della presenza di Gesù, che è tutto dato.

Grazie. Non dimenticate che io vi ho fatto due domande. Che cosa è cambiato in noi leggendo la lezione di La Thuile? Come concepiamo la comunione e la compagnia e che cosa vuol dire la memoria, che cosa ci ha fatto compagnia?

Queste due settimane lavorando su questa domanda mi sono accorta che sta iniziando a cambiare la concezione di compagnia, perché davanti ai testimoni mi rendo conto che tu poni una strada che è percorribile da me. Allora la compagnia e la comunione è il fatto che io nella giornata, in quel fatto che capita, andando al lavoro, incontrando il collega, io posso dire “Tu” e poi iniziare per me un cammino nuovo gridandolo al mondo.

Grazie.

Durante questi giorni ho vissuto un‘esperienza che voglio verificare con te e porti una domanda. Mio papà si è ammalato apparentemente di influenza, nei giorni sono apparsi dei sintomi strani, preoccupanti, al punto che sabato ho prenotato un volo e sono andato di corsa a passare la domenica e il lunedì a dare una mano a mia sorella. E sono partito con tre desideri. Il primo era convincere mio padre a farsi ricoverare in ospedale (gliel‘avevano già consigliato, ma non ci voleva andare). Il secondo era convincerlo a prendere almeno durante la malattia una badante in aiuto per mia madre che è poco autosufficiente (anche questo glielo avevano proposto, ma lui si era opposto). E il terzo desiderio grande e nascosto era invitarlo a fare pace con Gesù, perché lui almeno nella forma di adesione alla Chiesa non Lo frequenta da un tempo immemorabile. A casa dei miei ne ho approfittato: «Sono venuto per dirti tre cose», e gliele ho dette tutte e tre. Alla prima richiesta mi ha detto di no (però ho capito subito che dovevo aspettare un po’, pazientare e avrei raggiunto l’obiettivo). Alla seconda ha accettato. La terza domanda è stata un po’ un parto, perché in sostanza era la prima volta che gli esprimevo questo desiderio segreto del mio cuore — non so se è un‘eresia, ma penso che anche il Paradiso senza quel testone di mio padre non sarebbe abbastanza bello, né per me né per mia mamma né per le mie sorelle —. Lui mi ha chiesto di spiegare meglio, io ho detto: «Accetta che gli altri preghino per te, magari accetta di incontrare un sacerdote, per confessarti», e lui mi ha detto un ni. Ho aggiunto pure che era la cosa a cui tenevo di più, e mi sono fermato qua, poi sono andato in un angolo nascosto a piangere, contento intanto di averglielo detto e poi a pregare nostro Signore di abbracciano sempre più forte. Nel corso della giornata mi sono reso conto che stava veramente male, si doveva ricoverare subito, e allora sono andato dritto da lui a dirgli che si doveva ricoverare e basta. Ma nel fare questo ho capito una cosa.’ che i tre desideri che avevo non erano diversi, cioè che accettare di andare in ospedale, cioè di stare alla realtà, era il primo modo per fare pace con Gesù. Il giudizio è che dire di sì a Gesù e alle circostanze è la stessa cosa; se mio papà avesse detto. «Sì, mi confesso», e poi non si fosse voluto curare... Volevo chiederti se questo giudizio è vero. E la domanda è: è umano dire «Fai pace con Cristo perché vuoi bene a me», cioè io non sarò felice se tu non fai pace con Lui che poi è la stessa cosa che gli ho detto: «Fatti curare perché vuoi bene a me e io non sarò felice se tu non ti lasci curare»?

Come tentativo è buono. La questione è che occorre passare per la libertà di tuo papà. La questione è: tu che cosa gli hai testimoniato, che mossa hai fatto tu per facilitare la questione? Questa è la questione. Grazie.

Per piacere, rispondi alle domande.

Quindici giorni fa hai letto della lettera di Marta e del dialogo con suo padre e a un certo punto hai detto che Marta diceva: «Amo tutto della vita, non butterei via niente», Quello che mi ha fatto compagnia in questi quindici giorni è stata Marta con questa sua affermazione, e tu che dicevi che il lavoro che richiedi a noi l’hai dovuto .fare tu di fronte alla salma di tuo padre. Perché? Io mi sono chiesta da cosa Marta potesse pescare per dire una cosa così e quindi mi sono costretta a fare un lavoro. E tu dicevi, leggevi, che lei la mattina diceva: «Io sono Tu che mi fai». Per me questo è sempre stato uno slogan lontano dalla mia vita, formale. Però la sfida per me in questi quindici giorni è stata capire l‘origine: come uno può dire una cosa del genere sapendo che deve morire, come può uno dire una cosa del genere di fronte al padre morto? Quindi: io come posso dire questa frase a me stessa che è la sfida più grande, quando io della mia vita butterei via un sacco di episodi? E la scoperta di questi quindici giorni è stata che ho conosciuto chi è Cristo per me, cioè L‘ho incontrato di nuovo nelle sfide che tu ci lui un sacco di volte, L ‘ho visto come la cosa più corrispondente. E la cosa più impressionante è che ho iniziato anche io ad amare la mia vita non come un formaggio con i buchi, ma tutta, tutta, perché è Cristo che me la dà, è Cristo che me l’ha data dall‘origine e io so chi è Cristo per me.

Cosa hai fatto perché cambiasse questo?

Ho dovuto guardare quello che sono veramente, quello che compie il mio cuore adesso, ed è Lui, il Suo sguardo.

Nella lezione di La Thuile, riprendendo la questione dello sguardo — guardarci come ci guarda Dio o guardarci come ci guardiamo noi —, affrontiamo un punto decisivo. Perché, come ci guardiamo noi, di solito? Ripercorrendo il percorso che uno ha fatto, tutti gli sbagli che uno ha fatto, tutte le occasioni che ha perso, in cui la vita non è andata: questa è la modalità con cui, di solito, siamo guardati nella società; il nostro valore è in quello che alla fine riusciamo a fare, il nostro valore dipende dalla nostra riuscita, e siccome poi — come dice lei — tante volte non riusciamo, allora siamo sempre incastrati lì. Che cosa è entrato di nuovo nella vita? Che cosa è entrato per Zaccheo nella vita? Anche lui avrebbe potuto fare l’elenco di tutte le cose che aveva fatto male; ma che cosa è successo? Un ragionamento in più? Un cambiamento dello stato d’animo in più? Un pensiero in più? Un’immaginazione in più? No, è successo un fatto, Qualcuno lo ha guardato e questo — abbiamo detto nel libretto — ha investito tutta la sua persona. Ho tentato di richiamarvi a immedesimarvi con quel momento in cui si è sentito guardato e si è sentito investito da una luce nuova, da una emozione nuova. Questo istante prima, che è un fatto, noi lo possiamo lasciare entrare o meno quando guardiamo la vita; perché uno può incominciare a fare l’elenco e i conti non tornano. Allora, in Zaccheo quello che è prevalso (come in Giovanni e Andrea) è l’essere stato conquistato da uno sguardo che ha preso il sopravvento su tutte le analisi. E questa è la comunione: lasciare entrare questa novità, questa luce nuova, questo sguardo nuovo, questo giudizio nuovo in noi. E non c’entra niente che cosa ci è successo, anzi, quanto più sono successe delle cose, più ti stupisce che uno sguardo possa essere così potentemente vincente e che niente, assolutamente niente, nessun dolore, nessuno sbaglio possa vincere! Che cosa succede? Il problema, dice don Giussani, è che questo avvenimento, che ci ha cambiato la vita, poi noi lo dimentichiamo nel quotidiano. Dice che il difetto nostro è che manca l’esistenzialità della memoria, cioè che questo sguardo rimanga nell’affrontare tutto. Se questo non rimane, prevale ancora l’altro sguardo, è una «debolezza grande di esistenzialità del sentimento di appartenenza». Invece se io dico adesso: «Io appartengo a te, Cristo», questa scelta di campo mi risparmia l’analisi. Mi risparmia l’analisi, capite? E questo è un giudizio sintetico che è dentro il fatto dello sguardo di Gesù a Zaccheo (perché era un giudizio tutto di stima quello di Gesù su Zaccheo); questo sguardo gli ha risparmiato tutta l’analisi di tutti gli sbagli che aveva fatto. Perciò questo giudizio è la liberazione! Questo giudizio è uno sguardo, è un fatto che io non mi potrei mai immaginare (tanto è vero che spessissimo continuiamo a fare l’analisi invece di riconoscere questo). Senza che questo diventi familiare come sguardo, noi non lasciamo entrare la novità della fede. E senza la novità della fede — questa novità che è incominciata ad affacciarsi in una Presenza storica che ci ha guardato così — noi siamo come tutti, non perché Lo neghiamo, ma perché non è esistenzialmente presente nel nostro sguardo. Per questo, che cosa è la comunione? La comunione è questa novità che entra nella vita proprio attraverso una presenza. Diciamo alla fine del libretto, a pagina 60: «E cedendo a Lui [come fu per Zaccheo] che si genera la nostra unità, la nostra comunione. Come fu dall’inizio, quando, cedendo a Lui, ciascuno di quei dodici che Gesù chiamò generò la prima comunione cristiana. Non ci sarà un’altra origine — mai! — di una comunione cristiana!». Questa è una scelta di campo — dice Giussani —, è un problema della libertà; inizialmente non lo possiamo generare noi, perché è un fatto, un incontro imprevisto, imprevedibile; ma che uno ritorni a questo sguardo, che uno lo riconosca di nuovo quando lo ritrova e che uno lo accolga di nuovo quando gli viene detto, questa è una decisione della libertà.

Bentornato, hai accolto questa decisione, questo sguardo, o no?

Il punto è questo qua. Sono molto arrabbiato per un motivo solo, perché la fede per me è morta con la morte di mia mamma, con le ceneri di mia madre. E non c’è fatto più grande, per me non c’è fatto più grande. E questa questione qua dello sguardo che mi dici tu non mi interessa, va bene?

È una scelta. Tu puoi farlo, questa è la tua grandezza. Anche Zaccheo, quando Gesù gli ha detto:
«Zaccheo scendi dalla pianta che vengo a casa tua», avrebbe potuto dire: «Io me ne frego di quello che mi dici».

Perché tu vuoi invitarmi a casa tua? Tu sei Gesù?

No, non sono Gesù, non sono così stupido da pensare di essere Gesù. Io ti dico che questo sguardo è arrivato a noi attraverso la povera gente che siamo, e che questo sguardo è la possibilità per ciascuno di noi, così come per te, di poter guardare tutto non da solo come un cane.

Quindi, praticamente, questo sguardo è un fatto?

È un fatto, sì. È un fatto. Come ti sto guardando io adesso: è un fatto. Come per Zaccheo: è un fatto. E si rende presente ora, tanto è vero che tu lo puoi ricusare, lo puoi rifiutare ancora un’altra volta. Te lo sto ridicendo io ora, e tu davanti a questo fatto, che sta succedendo davanti ai tuoi occhi — ora! —, puoi continuare a dire: «Non lo accetto». E nel tuo diritto di farlo: tu continui a negare questo fatto, ma sta succedendo davanti a te ora, come la prima volta.

E qual è la liberazione? Mi liberi da che cosa?

Tu puoi continuare...

Resusciti mia mamma? No!

Puoi continuare a dire tutte queste cose, ma tu, ti avevo chiesto un mese fa, puoi assicurare che quello che tu dici è tutto? Che non c’è la possibilità che possa succedere un’altra cosa?

E cosa deve succedere d’altro? E già una catastrofe! Cosa deve succedere?

Questa è la questione. Tu puoi dire che conosci già tutto? Questa è la tua presunzione, che tu pensi di conoscere tutto, e non lasci aperta la possibilità che ogni persona intelligente deve lasciare aperta.

Perché la categoria della possibilità è la cosa più ragionevole. Ma per questo occorre essere minimamente disponibili. E perciò, se tu non sei minimamente disponibile...

Quindi domani mattina quando vado in ospedale per la mia malattia devo tenere aperta la possibilità? Devo fare questo?

Sì.

Devo dire. «C’è questa possibilità di grandezza più grande»?

Sì. Anche guardare la propria malattia è possibile. Tante persone vivono la stessa tua situazione addirittura con gratitudine. Chiaro? C’è la tua libertà, amico, la tua libertà! Adesso ti hanno visto tutti, adesso ti trovi con la tua libertà a dover decidere. Basta. Perché nessuno di noi può risparmiare all’altro la libertà. Attraverso il metodo assolutamente fragile che sono le nostre presenze, a ciascuno di noi viene rivolto questo annuncio, come duemila anni fa. Lo avevamo detto alla Giornata d’inizio anno: non ci sarà nessun fatto, anche il più eclatante, che possa cambiarmi se non sono disponibile, neanche se vedessi un morto resuscitare. Il nostro amico ci rende palese la possibilità che è in agguato in ciascuno di noi; lui ha il coraggio di dirlo, a volte testardamente, ma è una possibilità per ciascuno! Questa scelta di campo tocca a ciascuno; in particolare, quando arrivano i momenti cruciali della vita, con tutta la drammaticità del vivere, ognuno deve fare questa scelta. Ma non in modo irragionevole! Questo è il cammino della fede: quando uno fa un cammino umano può arrivare ad affermare che il “sì” a Cristo è la scelta più ragionevole che ci sia per darsi ragione dei fatti davanti ai quali noi siamo stati, per grazia, testimoni.


A partire dalla prossima Scuola di comunità, senza “chiudere” il libretto di La Thuile, cominciamo il capitolo su «Il sacrificio» del libro di don Giussani Si può vivere così?.
Ogni anno sosteniamo due gesti di carità che sono di grande portata:

• la Giornata nazionale della “Colletta Alimentare”, che si terrà sabato 27 novembre, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare;
• la Campagna Tende di Avsi, che quest’anno avrà come titolo «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo» a sostegno di progetti, soprattutto educativi, di aiuto in America Latina (Haiti e Cile), Africa (Kenya, Sud Sudan e Uganda) e Libano.

Sono due occasioni stupende per testimoniare quello che abbiamo di più caro, condividendo il bisogno di tanta gente. Sono molte le persone che incontriamo che rispondono spontaneamente a questo gesto e che si coinvolgono con noi per un impeto di generosità e di gratuità.
Stando insieme durante la Giornata della Colletta o durante le iniziative della Campagna Tende possiamo testimoniare l’origine, la ragione profonda di questi gesti che ci educano alla carità molto più di mille discorsi. Senza la consapevolezza dell’origine, con quello che abbiamo visto nella Scuola di comunità sulla carità, questi gesti perdono tutta la loro portata, cioè comunicare lo sguardo che serve per vivere. Non si tratta di appiccicare una etichetta al gesto, di appiccicare Gesù:
nel modo con cui noi viviamo questi gesti possiamo testimoniare l’origine e aiutare gli altri a cogliere l’origine di quello che facciamo. Noi non vogliamo fare qualcosa che non lasci traccia, ma che possa servire alla persona che lo fa per un di più, perché sappiamo che la persona ha bisogno di qualcosa di più di un atto di generosità (che pure è prezioso). Attraverso la Colletta e le Tende possiamo introdurre a qualcosa d’altro: che il bisogno è più grande e che noi siamo lì per la gratitudine di aver trovato la risposta a questo bisogno. Noi saremo lì per questo, non per riempire il vuoto con un gesto generoso, ma per gratitudine per quello che abbiamo incontrato.
Lasciar perdere questi due momenti educativi per le nostre comunità sarebbe davvero un peccato.

• Veni Sancte Spiritus
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 17:01:42
Dicembre, tu hai il dono innato di scrivere cose che non leggerò mai
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 17:42:24

Dicembre, tu hai il dono innato di scrivere cose che non leggerò mai



Siamo in due...
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 21:37:51
Se non mi volete leggere, non mi leggete. Che problema c'è?
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 22:41:52
Messaggio del 22-11-2010 alle ore 23:11:00
Le menti più illuminate trovano molto, ma molto interessante quello che scrivo.

Tratto da «Gli eserciti di Dio, le ragioni delle crociate»

di Rodney Stark

«Ignoranza» occidentale contro «cultura» orientale

Per lungo tempo è prevalsa l’idea comunemente accettata che, mentre l’Europa giaceva letargica nei cosiddetti «secoli bui», il mondo islamico conosceva l’intensa fioritura della cultura e della scienza. Come afferma in un suo recente lavoro il noto studioso Bernard Lewis, l’islam «aveva raggiunto il livello più alto toccato fino a quel momento nelle arti e nelle scienze del mondo civile... [nelle quali] l’Europa medievale andava a scuola e in un certo senso dipendeva dal mondo islamico». Poi, però, come rileva lo stesso Lewis, gli europei cominciarono improvvisamente a progredire: «Essa [la civiltà europea] fece passi da gigante, lasciandosi molto indietro l’eredità scientifica e tecnologica e, alla fine, tutto il patrimonio culturale del mondo islamico». Nasce da questa affermazione la domanda posta da Lewis come titolo al suo libro: Il suicidio dell’islam: in che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale?
In questo capitolo espongo la mia risposta al quesito di Lewis: quella civiltà non ha sbagliato in nulla. L’idea che un tempo la cultura islamica sia stata superiore a quella europea è infatti, nel migliore dei casi, una semplice illusione.
Ammesso che i ceti elitari arabi acquisirono una cultura raffinata, essi la mutuarono dai popoli che avevano assoggettato. Come sostiene sempre Bernard Lewis, senza nemmeno rendersi conto apparentemente delle implicazioni della sua tesi, gli arabi ereditarono «le conoscenze e l’esperienza dell’Antichità mediorientale, della Grecia, della Persia e dell’India». Questo significa che quella stessa cultura raffinata così spesso attribuita al mondo musulmano (a cui si fa più comunemente riferimento come «cultura araba») era in realtà la cultura dei popoli conquistati: la cultura greco-giudaico-cristiana di Bisanzio; le straordinarie conoscenze di comunità eretiche cristiane come i copti e i nestoriani; la profonda sapienza dello zoroastrismo persiano; o le grandi scoperte dei matematici hindu (non dimentichiamo le precoci e vaste conquiste realizzate dai musulmani in India). Questa immensa eredità di conoscenze, molte delle quali provenienti dall’antica Grecia, fu tradotta in arabo e assimilata in parte dalla cultura musulmana. Anche dopo le traduzioni, tuttavia, questa «sapienza» continuò a essere tramandata prima di tutto dai popoli dhimmi che vivevano sotto la dominazione araba. Per fare un esempio, «la più antica opera scientifica in lingua araba [fu] un trattato di medicina scritto ad Alessandria da un prete cristiano di origini siriache e tradotto da un medico persiano di religione ebraica». Come appare chiaro da questo esempio, i sudditi non musulmani appartenenti all’Ahl nl-dhjmmah non soltanto rappresentava no la fonte della maggior parte delle conoscenze e della cultura «araba», ma realizzavano perfino molte delle traduzioni in lingua araba . Tutto questo, tuttavia, non trasformò l’insieme ditali conoscenze in una vera cultura araba, anzi, come spiega Marshall Hodgson, «quanti si dedicavano allo studio delle scienze naturali tendevano a conservare il loro status di dhimmi, mantenendo la loro originaria professione di fede anche quando scrivevano le loro opere in arabo». Stando così le cose, di pari passo con l’assimilazione dei popoli dhimmi, finì per scomparire buona parte di quella raffinata cultura araba tanto sbandierata.
Pur non rientrando nell’ambito della cultura intellettuale, il caso delle flotte islamiche offre un eccellente esempio. Posti dinnanzi all’abilità dei bizantini nello sferrare pericolosi attacchi dal mare, i primi conquistatori arabi si videro costretti a procurarsi delle loro flotte. In seguito queste stesse flotte diedero ottima prova di sé in varie battaglie navali contro la marina da guerra bizantina ed europea, il che può facilmente essere considerato una prova di quanto sia stato evoluto l’approccio degli arabi al problema della loro iniziale inferiorità in mare. Eppure, se osserviamo meglio, scopriamo che quelle flotte non erano propriamente «musulmane».
Essendo una popolazione nata nel deserto, gli arabi non sapevano nulla di cantieristica navale, per cui pensarono bene di affidarsi ai cantieri ancora funzionanti in alcune regioni conquistate, come l’Egitto e i porti della costa siriaca (tra cui Tiro, Acri e Beirut), e commissionare a essi la costruzione di una grande flotta. Non sapendo nulla neppure dell’arte della navigazione, gli arabi ingaggiarono marinai copti per la loro flotta egiziana e mercenari bizantini con esperienza marinara per la loro flotta persiana. Non molto tempo dopo, dinnanzi alla necessità di disporre di una flotta a Cartagine, «il wali dell’Egitto inviò 1000 maestri d’ascia copti [...] perché costruissero una flotta di 100 navi da guerra». Benché poco sia stato scritto sulla marina musulmana (fatto che di per sé sta a indicare che i cronisti arabi non ne erano molto informati), vi sono ottime ragioni per supporre che i musulmani non si preoccuparono mai della costruzione o del comando delle «loro» flotte, che continuarono a essere progettate, costruite e governate da sudditi dhimmi. Fu così che nel 717, quando gli arabi si impegnarono nel loro ultimo tentativo di prendere Costantinopoli dal mare, a contribuire alla loro sconfitta vi fu anche «la defezione di molte ciurme di fede cristiana a bordo dei vascelli musulmani, che non esitarono a passare dalla parte dei bizantini» Nel 1571, infine, allorché una sterminata flotta musulmana fu affondata dagli europei allargo di Lepanto, «i più famosi capitani di entrambe le flotte erano europei. Era il sultano stesso a preferire gli ammiragli italiani» Le navi musulmane, inoltre, non soltanto erano copie dei vascelli dell’Occidente, ma «a costruirle per il sultano erano disertori [europei]» e «maestri d’ascia provenienti da Napoli e Venezia»
Anche la tanto celebrata architettura araba risulta alla fine una creazione di architetti di cultura dhimmi, che adattarono alle esigenze islamiche i modelli tipici dell’arte persiana e bizantina. Quando il califfo ‘Abd al-Mlik fece erigere a Gerusalemme la grande Moschea della Roccia, riconosciuta come uno dei capolavori dell’architettura islamica, egli ingaggiò architetti e artigiani bizantini, il che spiega perché l’edificio ricordi tanto la chiesa del Santo Sepolcro. Analogamente, nel 762, quando il califfo al-Mantir fondò Baghdad, egli ne affidò la progettazione a due architetti, uno di fede zoroastriana e uno di religione ebraica. In realtà molte famose moschee erano nate in origine come chiese cristiane ed erano state trasformate in seguito per il culto islamico aggiungendo semplicemente dei minareti all’esterno e sostituendo le decorazioni dell’interno. Come afferma Jonathan Bloom, indiscussa autorità nel campo dell’arte e dell’architettura islamica, «la Moschea della Roccia rappresenta esattamente un esempio di quella che oggi definiamo arte islamica, vale a dire un’opera d’arte non necessariamente creata da musulmani, ma piuttosto realizzata in paesi in cui la maggior parte degli abitanti — o gli abitanti più influenti — era musulmana».
Esempi simili abbondano nei diversi ambiti intellettuali che hanno ispirato tanta ammirazione per la cultura araba. Nella sua opera tanto apprezzata e scritta per dare il giusto riconoscimento agli «enormi» contributi offerti dagli arabi alla scienza e all’ingegneria, Donald R. Hill ha rilevato che ben poche conquiste possono farsi risalire agli arabi, ammettendo anche che la maggior parte ditali contributi provenne dalle popolazioni conquistate. Lo stesso Ibn Sina (Avicenna), che l’Encyclopaedia Britannica presenta come «il più autorevole tra tutti i filosofi e scienziati musulmani», era un persiano, come anche famosi eruditi quali Omar Khayyam, al Birtuni e Razi, tutti avvicinati per importanza al grande Ibn Sina. Un altro persiano, al-Khwarizmi, è unanimemente riconosciuto come il padre dell’algebra; al-Uqidisi, che introdusse le frazioni era un siriaco; Bukhtishu e Ibn Ishaq, grandi figure della scienza medica «araba», erano cristiani nestoriani; Masha’allh ibn Athari, il famoso astrologo e astronomo, era ebreo. L’elenco potrebbe continuare per parecchie pagine. Ciò che forse indusse in errore molti storici fu il fatto che alla maggior parte dei grandi rappresentanti della «scienza araba» vennero dati nomi arabi e che le loro opere furono pubblicate in arabo, in quanto lingua «ufficiale» del califfato.
Prendiamo per esempio la matematica. I cosiddetti numeri arabi avevano un’origine totalmente hindu, anzi, perfino dopo che lo straordinario sistema numerico hindu, basato sul concetto dello zero, fu pubblicato in arabo, esso venne adottato soltanto dai matematici, mentre gli altri musulmani continuarono a usare il sistema tradizionale ed estremamente laborioso. Molti altri contributi alla scienza matematica sono stati erroneamente attribuiti agli «arabi». Thabit ibn Qurra, per esempio, famoso per le sue molte opere di geometria e sulla teoria dei numeri, viene solitamente identificato come «matematico arabo», mentre era in realtà un membro della setta pagana dei sabei. Non mancarono naturalmente alcuni grandi matematici musulmani, forse perché l’ambito della matematica era ritenuto così astratto da porre al riparo gli studiosi da ogni possibile critica di ordine religioso. Lo stesso si potrebbe dire per l’astronomia, benché anche in questo campo la maggior parte del merito andrebbe riconosciuto non agli arabi bensì a hindu e persiani. La «scoperta» che la terra ruota attorno al proprio asse viene spesso attribuita al persiano al-Biruni, benché egli stesso ammettesse di averla appresa da Brahmagupta e da altri astronomi indiani. Al- Biruni non sapeva neppure bene di che cosa si trattasse, tanto da precisare nel suo Kitab al-Qanun al-Ma’sudi (Canon Masudicus) che «poco importa se a muoversi sia la Terra o il Cielo, dato che in entrambi i casi questo non influisce sulla scienza astronomica». Un altro famoso astronomo «arabo» fu al-Battani, che però, come Thabit ibn Qurra, apparteneva alla setta dei sabei (famosi perché adoravano gli astri, il che spiega il loro particolare interesse per l’astronomia).
Le molte affermazioni secondo cui gli arabi raggiunsero nella medicina vette sconosciute alle precedenti culture sono errate quanto quelle riguardanti i presunti numeri «arabi». La medicina «araba» o «musulmana» fu in realtà una medicina sviluppata in ambiente cristiano nestoriano, tanto che perfino i più famosi medici musulmani si erano formati preso il grande centro nestoriano di studi medici di Nisibus, in Siria. Questa e altre istituzioni scolastiche create dai nestoriani, tra cui quella d Jundishapur in Persia, considerata dall’eminente storico della scienza George Sarton (1884- 1956) «il più importante centro intellettuale dell’epoca», erano famose non soltanto per gli studi di medicina, ma anche per una vasta gamma di insegnamenti nei campi più alti dello scibile umano. I nestoriani, pertanto, «si guadagnarono ben presto tra gli arabi la reputazione di eccellenti contabili, architetti, astrologi, banchieri, medici, mercanti, filosofi, scienziati, copisti e insegnanti. In realtà, prima del IX secolo quasi tutti gli uomini più colti [del mondo islamico] erano cristiani nestoriani». Fu soprattutto Hunayn ibn ‘Ishaq al-Ibadi, nestoriano e noto in seguito con il nome latinizzato di Joannitius, che «raccolse, tradusse, corresse e curò la redazione in lingua araba e siriaca dei manoscritti di autori greci, in particolare Ippocrate, Galeno, Platone e Aristotele» In effetti, verso la metà dell’XI secolo, come riferiva lo scrittore persiano Nasir-i Khusrau, «qui in Siria, come anche in Egitto, i copisti sono tutti di fede cristiana […] ed è cosa diffusa che i medici [...] siano cristiani». Nella sua monumentale storia della Palestina, Moshe Gil ricorda che nella regione, sotto la dominazione araba.
La preponderanza di funzionari di fede cristiana fu rilevata anche da ‘Abd al-Jabbar, che verso il 995 scrisse che «i sovrani d’Egitto, ash-Shàm [Siria], Iraq, Jazira, Fris e dei regni circostanti si affidano ai cristiani per questioni di burocrazia, amministrazione centrale e gestione finanziaria».
Perfino molti degli storici più di parte, come il famoso traduttore inglese del Corano convertitosi all’islam Marmaduke Pickthall (1875 - 1936), concordano sul fatto che la raffinata cultura araba ebbe origine tra i popoli soggetti alla dominazione islamica. Ciò che invece è stato ampiamente ignorato è che il declino di questa cultura, accompagnato dall’incapacità dei musulmani di tenere il passo con l’Occidente, avvenne proprio perché tale cultura «araba» o «musulmana» non era che un’illusione e si basava su un misto di culture dhimmi, per cui, in quanto tale, si perse rapidamente e si rivelò sempre vulnerabile alle accuse di eresia da parte dell’ortodossia islamica. Quando nel XIV secolo i musulmani iniziarono a reprimere in Oriente ogni altra espressione religiosa non conforme ai dettami coranici, emerse in primo piano tutta l’arretratezza culturale dell’islam.

L’islam e Aristotele

La convinzione che i musulmani fossero più colti e raffinati dei cristiani d’Occidente era sorretta dalla presunzione che una società che non fosse impregnata di filosofia e letteratura greca fosse una società avvolta dalle tenebre! Per questo nei secoli passati molti scrittori europei hanno sottolineato il fatto che gli arabi avevano una conoscenza approfondita dell’eredità classica, presupponendo pertanto che l’islam rappresentasse una cultura superiore grazie al suo accesso alla grande «saggezza» degli antichi. Benché i dotti dell’Europa medievale avessero una familiarità con i «classici» ben maggiore di quanto comunemente si pensi, resta il fatto che, data la persistenza della cultura greco-bizantina in gran parte delle terre conquistate dagli arabi, i musulmani più istruiti possedevano realmente una maggiore conoscenza delle opere di autori classici come Platone e Aristotele. Ciò che è meno noto è invece l’impatto alquanto negativo che l’accesso all’antica sapienza greca esercitò sulla cultura araba.
Le opere di Platone e Aristotele giunsero agli arabi attraverso le traduzioni prima in siriaco, verso la fine del VII secolo e successivamente attraverso quelle in arabo, realizzate in Siria forse nel IX secolo. Anziché vedere tuttavia in queste opere il tentativo dei pensatori greci di dare una risposta a vari quesiti, gli intellettuali musulmani le lessero immediatamente nello stesso modo in cui leggevano il Corano, cioè come un insieme di verità inoppugnabili da accettare senza porsi domande o avanzare obiezioni, al punto che gli uomini di pensiero dell’islam le analizzavano innanzi tutto alfine di appianare apparenti dissensi interni alla umma. L’attenzione si focalizzò col tempo su Aristotele. Come ha spiegato l’autorevole storico dell’islam Caesar Farah,
i pensatori musulmani trovarono in Aristotele la grande guida, facendo di lui il «primo dei maestri». Una volta accettato a priori il pensiero aristotelico, la filosofia islamica scelse nella sua successiva evoluzione di continuare semplicemente nello stesso filone, cioè di ampliare la propria speculazione su Aristotele anziché introdurre forme di pensiero innovativo.

Questo, in definitiva, portò il filosofo Averroè e i suoi discepoli a imporre come infallibile e compiuta la fisica aristotelica, e se un’osservazione in natura non risultava coerente con qualche insegnamento di Aristotele, significava che tale osservazione era fallace o illusoria.
Fu tale atteggiamento a impedire al pensiero islamico di partire da dove la filosofia greca si era fermata nella sua ricerca di conoscenza. Tra i primi studiosi cristiani, invece, l’incontro con l’opera di Aristotele spinse alla sperimentazione e a nuove scoperte. In realtà, allora come oggi, un pensatore rafforzava la propria reputazione esprimendo il suo disaccordo con le conoscenze ereditate e proponendo innovazioni e correttivi, il che spinse la filosofia scolastica a individuare gli errori del pensiero greco. E di errori da scovare ve n’erano parecchi.

Libri e biblioteche

Come abbiamo visto, alla base di tutte le affermazioni riguardanti la superiorità della cultura islamica vi era il fatto che i lettori musulmani potevano accedere alle traduzioni di molteplici opere degli autori classici. Poiché i libri vanno pur conservati da qualche parte, ecco nascere grandi raccolte di opere che possiamo identificare come vere biblioteche, sia che queste raccolte appartengano a singoli individui o a istituzioni incaricate di acquisire e conservare le opere. Non mancano testimonianze del fatto che entrambi questi tipi di biblioteche esistessero anche nel mondo islamico, fin dai suoi esordi. In realtà, i conquistatori mussulmani si trovarono di fronte a grandi biblioteche in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa. Alcune di esse erano sopravvissute dall’epoca del paganesimo, altre erano state create da cristiani ed ebrei. Tra i copti dell’Egitto «ogni monastero e probabilmente ogni chiesa possedeva un tempo la propria biblioteca di manoscritti»; in tutto l’Impero Romano d’Oriente il clero ortodosso era impegnato nella conservazione delle biblioteche; nei loro grandi centri di studio i cristiani nestoriani disponevano di vaste raccolte di libri. A quanto sembra, non era affatto inusuale che i monaci nestoriani scegliessero ogni settimana un libro nella biblioteca del monastero e dedicassero ogni ora del loro tempo libero a meditare sul suo contenuto e a memorizzarlo. Fu pertanto chiaro ai primi conquistatori arabi che «se volevano trarre vantaggio dal vasto patrimonio di conoscenze che avevano ereditato, dovevano disporre di libri, preferibilmente nella loro lingua, e che questi libri andavano conservati in luoghi sicuri e resi accessibili ai lettori».
L’idea che i musulmani riconoscessero il valore delle biblioteche è tuttavia in contraddizione con la tesi - per altro controversa - che essi abbiano incendiato l’immensa biblioteca di Alessandria. A quanto si narra, dopo la conquista di Alessandria, il comandante delle forze arabe chiese al califfo ‘Umar a Damasco che cosa dovessero fare dell’enorme biblioteca della città, che si diceva contenesse centinaia di migliaia di rotoli di pergamena. Sembra che ‘Umar si sia limitato a rispondere quanto segue: «Se ciò che in essi è scritto è concorde con il Libro di Dio [il Corano], sono superflui; se è in disaccordo, non sono graditi. Pertanto, distruggeteli». Il comandante distribuì quindi i rotoli di pergamena tra i 4000 hamunam della città affinché li bruciassero nelle loro stufe, e quel fuoco continuò per sei mesi.
Tale versione dei fatti ha provocato reazioni alquanto adirate da parte di molti ammiratori del mondo islamico, e questo nonostante il fatto che questo resoconto fosse stato respinto dai maggiori storici occidentali (tra cui Edward Gibbon, più propensi a credere alla versione tradizionale, secondo cui la biblioteca andò accidentalmente in fiamme quando Giulio Cesare conquistò l’Egitto. Ciò nonostante, Asma Afsaruddin ha rimarcato con veemenza che il racconto non riflette altro che l’odio dei cristiani per l’islam, ignorando bellamente il fatto che la storia della biblioteca di Alessandria fu riportata per la prima volta nel XIII secolo nell’opera di uno storico musulmano e apparve successivamente nei lavori di altri scrittori di fede islamica, tra cui il famoso Ibn Khaldun. Il fatto poi che ad accusare il califfo dell’incendio della biblioteca siano stati gli stessi musulmani non accresce di per sé le probabilità che così sia realmente avvenuto, considerando anche che il primo resoconto fu scritto circa 600 anni dopo il presunto evento. In ogni caso, a tale versione dei fatti credettero così tanti intellettuali del mondo islamico da porre in evidenza un elemento anche più interessante, cioè che molti musulmani, compresi i capi di stato, erano ostili ai libri e alla cultura!
Un simile atteggiamento anti-intellettuale risulta perfino ovvio se, anziché fermarci alle glorie della scienza musulmana, ci soffermiamo sulla storia politica dell’islam, che ci informa per esempio che quando al-Mutawakkil divenne califfo nell’847 «iniziò subito a reprimere gli studi e le ricerche scientifiche indipendenti, soffocando sempre più il dissenso religioso anche con l’uso della forza». La politica non mutò nemmeno con i suoi successori. Poi, con il crollo del califfato, venne meno la possibilità stessa di applicare qualsiasi politica - sia «illuminata» sia «repressiva» - in un impero islamico ormai frammentato in un mosaico di emirati minacciati da invasioni nemiche. Da quel momento, alcuni governanti musulmani furono più tolleranti di altri nei confronti degli eruditi, dei loro libri e della loro cultura, mentre altri, la maggior parte, non rivelarono affatto grandi doti di tolleranza.
Non dimentichiamo che Saladino, il famoso eroe dell’islam tanto ammirato dagli scrittori occidentali, fece chiudere la biblioteca di Il Cairo e ne gettò i libri tra i rifiuti. Tutto ciò sembrerebbe indicare una persistente tensione tra la cosiddetta cultura islamica, raffinata e sostenuta dalle comunità dhimmi, e la reale cultura delle élite musulmane.

Il mito dei secoli bui

La convinzione che i musulmani fossero portatori di una cultura più progredita dipende anche dall’errata visione di una forte arretratezza culturale del mondo cristiano, legata all’idea molto diffusa ma infondata che dopo la caduta di Roma l’Europa fosse precipitata nei secoli bui, perdendo quel patrimonio culturale che invece fioriva ancora rigoglioso nel mondo islamico. Voltaire asserì che dopo la caduta dell’Impero Romano «la barbarie, la superstizione [e] l’ignoranza ricoprirono il volto della terra». Secondo Rousseau (1712-1778) «l’Europa era ricaduta nella barbarie delle ere più antiche. Sono trascorsi pochi secoli da quando i popoli di questa porzione di mondo [...] vivevano in condizioni peggiori dell’ignoranza». Anche Edward Gibbon stigmatizzò l’epoca come il trionfo della barbarie e della religione.
Non sorprende dunque che questa sia divenuta l’opinione comune. Daniel J. Boorstin (1914-2004), Librarian of Congress nonché storico e vincitore del Premio Pulitzer, incluse nel suo best seller “L’avventura della scoperta: una storia della ricerca umana per conoscere il mondo” un capitolo intitolato «La prigione del dogma cristiano», in cui affermava che i cosiddetti «secoli bui» erano iniziati già prima della caduta di Roma. Dopo la morte di Tolomeo il cristianesimo conquistò l’Impero Romano e la maggior parte dell’Europa. A questo punto tra gli studiosi di tutta Europa si diffuse uno strano fenomeno di amnesia che perdurò nel continente dal 300 fino almeno al 1300». Questo avvenne perché «le autorità del mondo cristiano elevarono [...] una barriera che impediva lo svilupparsi delle conoscenze intorno al nostro pianeta». Per dirla con le parole di un eminente storico quale William Manchester (1922-2004), si trattò di un’epoca «di guerre ininterrotte, corruzione, ignoranza del diritto, strani e ossessionanti miti, nonché di un’irrazionalità quasi impenetrabile [...]. I secoli bui furono cupi e desolati in ogni loro dimensione»
In alcune di queste affermazioni è lampante la malafede, ma in tutte è palese un’ignoranza sbalorditiva. Va da sé che le tribù germaniche che conquistarono l’Europa latina, così come i conquistatori musulmani, dovettero acquisire una notevole cultura prima di potersi misurare con i loro predecessori. Non dimentichiamo però che, oltre ad avere molti romani a istruirli e guidarli, questi «barbari» avevano la Chiesa, che sosteneva con ogni cura e portava avanti la cultura ereditata da Roma. Di rilievo anche maggiore è il fatto che l’epoca etichettata come «secoli bui» fu «una delle ere dell’umanità più ricca di innovazioni», in cui si svilupparono e si adottarono conquiste tecnologiche «su scala fino ad allora sconosciute alle altre civiltà». In verità, come avremo modo di vedere, fu proprio durante i «secoli bui» che l’Europa iniziò quel grande balzo in avanti in campo tecnologico che l’avrebbe resa molto più progredita del resto del mondo. Si tratta di una realtà ormai così assodata che autorevoli dizionari ed enciclopedie, che solo fino a pochi armi fa divulgavano la definizione «secoli bui» come una nozione comunemente accettata, oggi la rifiutano come un mito privo di fondamento. Mentre le precedenti edizioni dell’Encyclopaedia Britannica definivano come «secoli bui» i cinque o seicento anni seguiti alla caduta dell’Impero Romano, la quindicesima edizione, pubblicata nel 1981, abbandona tale termine definendolo «inaccettabile», in quanto definisce erroneamente quell’epoca come «un periodo di tenebre intellettuali e barbarie».
Come abbiamo visto, le tesi a sostegno di una cultura islamica più avanzata e raffinata si basano spesso sul presunto «intellettualismo» della società musulmana. Ma la cultura non a fatta soltanto di letture o di «conoscenze attinte dai libri». Nessuno può imparare come coltivare la terra, come governare una nave o come vincere in battaglia leggendo Platone o Aristotele. La tecnologia, intesa nella sua accezione più vasta, rappresenta quell’elemento della vita reale da cui dipendono il grado di benessere di un popoio e le sue capacità di difendersi. Per quanto gli intellettuali musulmani potessero conoscere o meno la scienza aristotelica o la filosofia politica di Platone, a paragone delle conoscenze acquisite dagli scolastici cristiani, è innegabile che, in fatto di tecnologia, il mondo islamico fosse parecchio arretrato rispetto a Bisanzo o all’Europa.

Raffronti di carattere tecnologico

Risulta molto più difficile di quanto si potrebbe pensare porre a confronto il mondo cristiano e quello islamico in termini di conoscenze tecnologiche, poiché l’argomento è egemonizzato da autori musulmani che non esitano ad affermare vre e proprie assurdità. Possiamo «scoprire», per esempio, che «nel IX secolo ‘Abbas ibn Firnas inventò, costruì e collaudò in Al-Andalus una macchina volante»; che il timone non fu inventato dagli ingegneri navali europei ma da quelli musulmani (e chi sarebbero questi ingegneri navali musulmani?); che a inventare la bussola non furono i cinesi ma gli arabi. E via dicendo.

Trasporti

Quello che sappiamo con assoluta certezza è che dopo la conquista islamica dell’Egitto, del Nord Africa e della Spagna, da tutte queste terre scomparve la ruota! Per secoli non vi furono più né carri né carretti. Tutte le merci venivano trasportate a mano oppure ammassate su cammelli, muli o cavalli. Questo avvenne non certo perché gli arabi non conoscessero la ruota, ma perché la consideravano di scarsa utilità. A sentir loro, l’uso di ruote richiedeva l’esistenza di strade carrozzabili, mentre chi va a piedi o a dorso di cammello non ne ha bisogno. Inoltre, visto il loro disprezzo per la ruota, è alquanto dubbio che sapessero come realizzare bardature adeguate per attaccare ai carri le bestie da tiro.
Al contrario, proprio verso l’inizio dei «secoli bui», gli europei furono i primi a realizzare un tipo di finimenti che permetteva di trainare carri anche pesanti con cavalli anziché con buoi, cosa che si tradusse in una maggiore celerità dei trasporti. Se bardato nel modo giusto, un cavallo era in grado di tirare un carico di quasi una tonnellata, un peso che normalmente avrebbe dovuto distribuirsi tra quattro o anche cinque cammelli da soma. La capacità di tiro dei cavalli europei aumentò ulteriormente con l’invenzione dei ferri di cavallo, avvenuta nell’VIII secolo e diffusasi ovunque in quello seguente. I ferri non soltanto proteggevano gli zoccoli dall’usura e dalle lacerazioni, soprattutto se il trasporto avveniva su un terreno molto aspro, ma permettevano anche all’animale di procedere su superfici più morbide e mantenere una buona forza di trazione. Nel X secolo, inoltre, gli europei furono i primi a escogitare un tipo di bardatura che permetteva di aggiogare un certo numero di cavalli o di buoi allineandoli in una colonna di pariglie, il che permetteva di utilizzare più animali da tiro per trainare un peso notevole, per esempio le gigantesche catapulte o le torri impiegate negli assedi.
L’obiezione che gli arabi potevano sollevare in merito all’uso dei carri è che quelli in uso ai tempi della loro conquista, e anche prima, avevano un asse anteriore fisso che rendeva difficoltoso effettuare una svolta. Essi inoltre erano privi di freno, il che creava non pochi pericoli nel caso di ripide discese. Non più tardi del IX secolo, tuttavia, gli europei avevano risolto questi problemi dotando i loro carri sia di freni sia di assi anteriori che ruotavano su un perno. Una miglior a del genere costituì un notevole vantaggio nel momento in cui intrapresero la campagna militare che doveva portare a 4000 chilometri di distanza. Nella prima crociata, per esempio, si pensa che uno dei contingenti sia partito dall’Europa con almeno 2000 carri.
I musulmani, infine, benché disponessero dei cavalli più veloci del mondo, non possedevano i forti animali da tiro usati dagli europei e non scorgevano pertanto l’eventuale vantaggio di usare i carri anziché i cammelli da soma. Naturalmente, sia gli arabi sia gli europei erano esperti nell’allevamento dei cavalli, per cui le differenze esistenti erano puramente legate a determinate preferenze.

Agricoltura

I grandi cavalli da tiro ebbero altresì una parte sostanziale nella rivoluzione che nei «secoli bui» trasformò l’agricoltura europea, facendo aumentare drasticamente la produzione di cibo pro capite. Il fatto è che i cavalli potevano tirare un aratro a una velocità doppia rispetto a quella di un bue, per cui un agricoltore poteva arare il doppio di terra impiegando lo stesso tempo. Altrettanto importante era il fatto che nei «secoli bui» i forti cavalli impiegati nel lavoro dei campi tiravano aratri qualitativamente migliori.
Fino a un certo periodo del VI secolo, anche i contadini più progrediti usavano ovunque vari tipi di aratro a vanga, costituito semplicemente da una serie di bastoni legati in fila su una struttura piatta. L’aratro a vanga non rivoltava la zolla ma veniva solo trascinato sul campo, lasciando così intatto il terreno tra i solchi e imponendo spesso una seconda aratura incrociata. Questo tipo di aratro svolgeva a malapena la sua funzione sui terreni secchi e leggeri della fascia mediterranea, ma era assolutamente inadatto per quelli più pesanti, spesso umidi ma estremamente fertili dell’Europa settentrionale. Si rese quindi necessario un aratro che affondasse di più nella terra con un vomere largo e affilato, in grado di rivoltare la zolla e scavare solchi profondi. A questo aratro furono aggiunti prima una seconda lama, posta ad angolo, che tagliava la zolla appena rivoltata dal primo vomere, e poi un versoio che frantumava del tutto il terreno. Infine furono aggiunte delle ruote, in modo che fosse più facile spostare l’aratro da un campo all’altro e si potesse collocare il vomere a varie altezze per arare il terreno a profondità diverse. Tutto avvenne rapidamente. Terreni che prima non potevano essere coltivati del tutto o solo scarsamente divennero di colpo altamente produttivi, tanto che l’impiego del pesante versoio raddoppiò quasi i raccolti anche sui terreni più leggeri e meno fertili.
Nel corso dell’VIII secolo si realizzò poi la seconda fase della rivoluzione agricola, vale a dire l’adozione del sistema di rotazione a tre campi. Il suolo coltivabile di ogni villaggio veniva diviso in tre appezzamenti su cui ogni contadino disponeva di una propria striscia di terra. Un campo veniva coltivato a grano d’inverno; nel secondo si seminavano avena (un cereale che divenne sempre più importante con l’introduzione del cavallo da tiro), legumi (per esempio piselli e fagioli) o altri vegetali; il terzo campo veniva lasciato incolto. L’anno seguente, l’appezzamento che era rimasto a riposo veniva coltivato a grano d’inverno, il secondo era seminato a primavera mentre il campo che l’anno precedente aveva prodotto cereali e legumi veniva lasciato riposare o adibito a pascolo, in modo che gli animali eliminassero le erbe infestanti e concimassero la terra con il letame.
Come risultato, a partire dai «secoli bui», la maggior parte degli europei iniziò ad alimentarsi molto meglio di quanto avessero mai fatto altri popoli. In effetti, la popolazione dell’Europa medievale rappresentò probabilmente la prima comunità del genere umano il cui potenziale genetico non subì le ripercussioni negative di una dieta eccessivamente povera. In generale gli abitanti dell’Europa erano mediamente più robusti, più sani e più attivi della popolazione di altre zone del mondo.
L’elenco delle svolte tecnologiche avvenute in Europa durante i «secoli bui» potrebbe essere molto più lungo, e rimando in tal senso alle informazioni riportate in un altro mio lavoro. In questa sede, tuttavia, mi sembra più appropriato concludere l’argomento con un confronto ravvicinato tra Europa e mondo islamico sotto l’aspetto della potenza militare.

Potenza militare

Vorrei ricordare che nel 732, vale a dire nella più fitta oscurità dei cosiddetti «secoli bui», la cavalleria pesante di Carlo Martello disponeva di selle a schienale alto munite di staffe che permettevano di lanciare a tutta velocità l’intero peso di un cavallo alla carica e quello del suo cavaliere, armato di una pesante corazza e di una lunga lancia, senza che quest’ultimo corresse il rischio di essere disarcionato durante l’impatto con il nemico. Gli arabi, al contrario, cavalcavano a pelo, o tutt’al più su sottili selle imbottite, e non avevano staffe, il che, come già accadeva alle truppe a cavallo di romani e persiani, limitava alquanto i loro movimenti nel roteare spade e asce. La cavalleria araba poteva facilmente sottrarsi o sfuggire alle tumultuose cariche dei cavalieri occidentali, ma non era in grado di opporvi resistenza.
Così come non possedevano i robusti cavalli da tiro necessari a trainare l’aratro o i carichi pesanti, gli arabi non disponevano neppure dei pesanti destrieri lanciati alla carica da cavalieri protetti da pesanti cotte di maglia - un problema che si presentò per la prima volta alle forze musulmane durante la battaglia di Tours/Poitiers e che non fu mai superato. All’epoca delle crociate, i cavalieri europei possedevano cavalcature che pesavano tra i cinque e i sei quintali, mentre la cavalleria araba montava animali il cui peso superava di poco i tre quintali e mezzo. Tale differenza offriva ai crociati un indubbio vantaggio negli scontri a due, poiché il cavaliere che si trovava sul cavallo più alto e più grosso poteva colpire l’avversario dall’alto in basso, mentre il suo destriero poteva spostare l’altro cavallo solo con la forza del suo peso. Non si dimentichi inoltre che, mediamente, il cavaliere crociato pesava di più ed era più corpulento dell’avversario musulmano. A essere tuttavia determinante sotto l’aspetto del peso era senza dubbio l’armatura.
A differenza dell’epoca moderna, a quei tempi le truppe non ricevevano in dotazione un «equipaggiamento standard». Anche se alcuni nobili fornivano ai loro uomini armi e corazze, non si trattava certo di una consuetudine, per cui la maggior parte dei combattenti doveva procurarsi il proprio equipaggiamento. Ne consegue, in tal senso, che gli eventuali paragoni tra l’esercito crociato e quello musulmano risultano assai meno precisi di un confronto - a titolo d’esempio - tra i soldati americani e quelli giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Detto questo, non v’è dubbio che tra i crociati le armature fossero più diffuse e migliori di quelle dei musulmani. In ogni caso, non bisogna pensare che i cavalieri cristiani scendessero in campo coperti dalla testa ai piedi da quelle armature a piastre che siamo soliti vedere nei musei. Corazze simili, infatti, comparvero solo più tardi, e a indossarle era unicamente qualche cavaliere della cavalleria pesante, dato che risultavano estremamente e pericolosamente ingombranti. Coloro che indossavano queste armature complete dovevano essere issati a cavallo con degli argani e se malauguratamente cadevano da cavallo, potevano anche non riuscire a rimettersi in piedi per proseguire il combattimento. Al posto di queste pesanti corazze, la cavalleria crociata indossava cotte di maglia, sufficientemente spesse da respingere quasi tutti i fendenti e i colpi d’ascia più poderosi, ed elmi che coprivano la testa, il collo e talvolta parte del viso. Lo stesso valeva per la fanteria, che costituiva di gran lunga il grosso di qualsiasi esercito medievale.
Le cotte di maglia erano fatte con minuscoli anelli di ferro, ognuno infilato in altri quattro, e avevano la foggia di una lunga «camicia che si apriva sull’inguine in due lembi che pendevano dall’altezza delle cosce fino alle ginocchia e potevano essere legati alla gamba, come i pantaloni di un cowboy, oppure, più comunemente, erano lasciati penzolare come una sorta di gonnellino con uno spacco sul davanti.
Qualche crociato portava anche dei gambali in cotta di maglia che a volte coprivano anche i piedi.
Le corazze in cotta di maglia erano note in Oriente ma non molto diffuse e si preferiva sostituirle con lamine di metallo cucite sull’abito o su giacche di cuoio - un tipo di armatura considerata «fuori moda in Occidente». Il fatto di indossare corazze più leggere e meno ingombranti garantiva ai soldati musulmani una maggiore mobilità, ma li rendeva altresì vulnerabili nei combattimenti corpo a corpo. Le corazze in cotta di maglia indossate dai franchi possedevano infatti una straordinaria resistenza ai colpi, tanto che le frecce dei musulmani riuscivano a penetrarle solo in parte, «spesso senza arrecare alcuna ferita al corpo. A volte i soldati che si erano trovati sotto l’attacco dei turchi sembravano coperti di aculei come porcospini». Nel suo libro di memorie sulla prima crociata, “Gesta Tancredi in expeditione hierosolymitana”, Raoul de Caen descrive perfettamente la situazione ricordando che gli arabi «confidavano nel loro numero, noi nelle nostre armature».
Eppure nessuna armatura, neppure le pesanti corazze integrali, riusciva a proteggere efficacemente il combattente dai dardi delle balestre, autentiche armi letali nelle mani dei crociati. Benché molto diffusa come arma tra i soldati cristiani, su di essa è stato scritto pochissimo, poiché il suo uso era ritenuto vergognoso se non addirittura peccaminoso. Nel 1139 il II Concilio Lateranense ne vietò l’uso (contro i cristiani ma non contro gli infedeli e gli eretici) «pena la scomunica, giacché trattasi di arma odiosa a Dio». Il divieto fu successivamente confermato da Innocenzo III. Gli eserciti europei, tuttavia, ignorarono sempre l’anatema lanciato dalla Chiesa e continuarono a usare le balestre finché non divennero obsolete con la comparsa delle armi da fuoco. Verso il 1260, per esempio, la guarnigione di templari di stanza nella fortezza di Safad, nella Galilea settentrionale, era formata da 50 cavalieri e 300 balestrieri.
Le obiezioni «morali» che venivano sollevate contro la balestra erano collegate in realtà a un problema di classe, dato che quell’arma rivoluzionaria permetteva anche a semplici contadini, privi di qualsiasi preparazione militare, di trasformarsi in pericolosi avversari anche dei soldati meglio addestrati. Per diventare cavaliere erano necessari molti anni di addestramento, e lo stesso valeva per gli arcieri. Questi ultimi, in effetti, impiegavano anni per rendere il braccio sufficientemente forte da tendere l’arco, per non parlare del lungo esercizio necessario a perfezionare la mira. Nell’uso della balestra, invece, chiunque poteva diventare esperto in meno di una settimana e, cosa anche peggiore, perfino un principiante poteva lanciare uno strale fino a 60-65 metri con maggiore precisione di un arciere di grande esperienza. Il fatto è che la balestra veniva puntata sul bersaglio come un fucile e, facendo pressione su una sorta di grilletto, lanciava un bolzone (un tipo di freccia pesante per balestre) che raggiungeva il bersaglio seguendo una linea retta. Anche se gli archi avevano una fase di caricamento decisamente più breve e una gittata maggiore (imprimendo alla freccia una traiettoria molto alta), non potevano avere la stessa precisione delle balestre, che lanciavano dardi più corti e più pesanti delle comuni frecce scoccate dall’arco. Questo tipo di proiettile limitava da un lato la gittata della balestra, ma ne aumentava la potenza d’impatto, soprattutto su distanze brevi. Poiché l’uso della balestra richiedeva un addestramento di breve durata, era possibile riunire un gran numero di balestrieri i anche in breve tempo. I genovesi, per esempio, più volte scesero in campo schierando ben 20 mila balestrieri.
Per rispondere alle balestre dei crociati, i musulmani usavano un arco composito a impugnatura corta che aveva una potenza e una gittata inferiori a quelle delle balestre. Le frecce degli arcieri arabi erano efficaci contro avversari muniti di armatura leggera, per esempio altri musulmani, ma, a meno che non fossero scoccate a distanza molto ravvicinata, potevano ferire un crociato soltanto se lo colpivano in un punto del corpo non protetto dalla cotta di maglia. Viceversa, un bolzone lanciato da una balestra da una distanza di 120-130 metri o meno aveva una forza di penetrazione tale da trapassare anche una pesante armatura a maglie. Come ricorda la principessa Anna Comnena nell’Alessiade, intensa biografia del padre Alessio I, imperatore di Bisanzio, la balestra scagliava i suoi proiettili «con una forza e una violenza così tremenda che il dardo non rimbalzava mai, riuscendo a trapassare uno scudo ricavato da una pesante piastra di ferro e proseguire poi la sua traiettoria».
Negli eserciti crociati, come quello organizzato da Riccardo Cuor di Leone, per manovrare le balestre si creavano squadre di tre uomini: uno portava un grande scudo dietro al quale i tre si rannicchiavano durante la battaglia per proteggersi dalle frecce del nemico; il secondo ricaricava le balestre e le passava al terzo che effettuava il tiro. Squadre di questo tipo erano in grado di scoccare normalmente otto proiettili al minuto, cioè all’incirca la stessa potenza di fuoco di un singolo arciere, ma con risultati migliori.
Squadre di balestrieri e una fanteria composta da soldati affidabili e dotati di buone armature costituivano una combinazione micidiale, poiché il nemico all’attacco subiva innanzi tutto le gravi perdite causate dai dardi delle balestre e doveva poi affrontare le linee della fanteria ancora incolumi. Gli eserciti arabi non potevano che trovarsi in difficoltà, poiché, come abbiamo già visto, avevano lo svantaggio di essere sostanzialmente costituiti da forze di cavalleria leggera, poco adatte ad attaccare truppe di fanteria molto determinate, a meno che non fossero numericamente molto superiori a esse. Le gravi sconfitte inflitte loro dai franchi nell’VIII secolo, anche senza le balestre, spinsero probabilmente gli arabi a riconsiderare la formazione dei loro eserciti, anche se si trattava di un elemento tattico divenuto ormai tradizionale e alquanto difficile da modificare: gli arabi avevano sempre combattuto con la loro cavalleria leggera, con la quale, almeno all’inizio, avevano conseguito una brillante serie di conquiste. In ogni caso l’eventuale propensione dei musulmani a ridurre la loro totale dipendenza dalle truppe a cavallo, forse in seguito alle sconfitte che li avevano cacciati dall’Europa, fu bloccata nell’XI secolo, allorché i turchi selgiuchidi, da poco convertiti all’islam, conquistarono il Medio Oriente arabo. I turchi, infatti, erano nomadi avvezzi a cavalcare e disprezzavano la fanteria. Fu così che l’incrollabile fiducia nella cavalleria leggera continuò a comportare per i musulmani seri difficoltà di ordine tattico e tecnologico, destinate ad avere pesanti ripercussioni durante le crociate. In Terra Santa, infatti, la cavalleria araba, nonostante la schiacciante superiorità numerica, collezionò un insuccesso dopo l’altro negli scontri con la fanteria degli eserciti europei. Gli stessi cavalieri cristiani spesso abbandonavano la loro cavalcatura e combattevano a piedi, unendosi in formazioni che includevano sempre un buon numero di squadre di balestrieri.
Le balestre erano armi micidiali non soltanto per colpire i nemici sul campo di battaglia, ma anche per eliminare i difensori di una fortezza o per respingere un attacco contro di essa. Le balestre, inoltre, rivestivano una notevole importanza anche negli scontri navali.
Quando si cerca di porre a confronto la flotta cristiana e quella musulmana, il fattore più significativo da considerare è che gli scafi della seconda erano copie esatte delle navi della prima, costruiti e manovrati da rinnegati e mercenari cristiani. Ne conseguiva pertanto che le ciurme delle flottiglie musulmane non avvertivano certo il medesimo impegno patriottico che guidava i marinai delle navi cristiane. Capitò per esempio che dopo che Saladino aveva ricostruito la flotta musulmana negli anni ‘80 del XII secolo, essa venne completamente distrutta nel 1187 mentre era ancorata davanti a Tiro, messa sotto assedio dalle forze del sultano per impedire che alla città arrivassero rifornimenti dal mare. Secondo una fonte storica egiziana, le ciurme di Saladino, colte di sorpresa dall’attacco di una flotta dei crociati, abbandonarono le navi senza nemmeno combattere.
Le flotte musulmane, inoltre, costruite da cristiani e copiate dalle navi cristiane, risultavano in qualche modo antiquate. Oltre a un più profondo impegno militare e a una maggiore perizia di capitani e marinai, le flotte cristiane potevano godere pertanto «di un elemento a loro favore, offerto sia dalle dimensioni sia dalle risorse tecnologiche delle loro navi». Tra i vantaggi vi era altresì la possibilità di ammassare sul «castello» di ogni galea un buon numero di balestrieri, il che permetteva alle flotte cristiane di causare molte vittime sulle galee nemiche anche a grande distanza, esattamente come secoli più tardi la flotta inglese aprì il fuoco dei cannoni contro la “Grande y Felicìsima Armada” della Spagna, sottraendosi ostinatamente allo scontro diretto vascello contro vascello. I cristiani, inoltre, avevano studiato pesanti balestre che venivano montate sul ponte delle navi e potevano lanciare contro i nemici grossi proiettili, a volte perfino grandi contenitori di fuoco greco. Grazie alla tecnologia più avanzata, le flotte dei cristiani comprendevano anche delle galee speciali in grado di trasportare un buon numero di cavalieri con i loro grandi cavalli da battaglia e sbarcarli sulle spiagge del nemico già in sella e pronti a combattere.

Conclusioni

Pur riconoscendo pieno valore alle tesi secondo cui la società araba più colta aveva una conoscenza più approfondita dogli autori classici e offrì alla cultura mondiale alcuni straordinari matematici e astronomi, resta il fatto che gli arabi pativano un’evidente arretratezza sotto l’aspetto della tecnologia, grazie alla quale gli europei disponevano di risorse e invenzioni di importanza fondamentale: selle, staffe, ferri di cavallo, grossi carri per il trasporto delle merci, cavalli da tiro, finimenti, aratri migliori e maggiore produttività delle coltivazioni, balestre, fuoco greco, maestri d’ascia e marinai esperti, armature più resistenti e una fanteria ben addestrata al combattimento. C’è poco da stupirsi che i crociati siano riusciti a percorrere 4000 chilometri, sconfiggere un nemico di molto superiore numericamente e proseguire nella loro impresa per tutto il tempo nel quale l’Europa ebbe le risorse per sostenerla.
Messaggio del 23-11-2010 alle ore 14:51:39
Per Briskio........



Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97

IL MANIERISMO SCHIZOFRENICO


Un’introduzione storica

di Andrea Cantini

Ci si potrebbe chiedere perché rispolveriamo oggi un concetto che non trova ultimamente grande spazio nella letteratura psichiatrica.
Se escludiamo l’eccezione costituita dalla scuola fenomenologica-espressiva, che fa capo alla scuola di Padova e fondamentalmente a Ferdinando Barison, troviamo negli ultimi trent’anni poco più di cinquanta articoli ove il termine “manierismo” venga semplicemente citato. Ove questo termine ricorre, tra l’altro, non viene usato con una ricerca più profonda di senso, ma viene semplicemente inteso come disturbo del movimento e, come tale, trattato e confuso insieme alle “stereotipie”, che sappiamo essere piccoli movimenti ripetuti, saccadici, cui viene di solito negato un finalismo espressivo. Cito tra tutti un articolo apparso nel Brain Research Bullettin dell’83, a firma Yung, dove il manierismo viene trattato e posto in diagnosi differenziale con tutti i disturbi del movimento, iatrogeni e neurologici.
Perché quindi ritroviamo oggi interesse nel fenomeno manierismo? Direi fondamentalmente per tre ordini di motivi: 1) Innanzitutto un motivo clinico. Infatti, se il manierismo è raro nei trattati, risulta essere di frequentissimo riscontro nella pratica clinica ove si cerchi un senso alle manifestazioni espressive del paziente. 2) Un motivo storico. Perché si può vedere come il fenomeno del manierismo si pone come cartina di tornasole, spartiacque netto, tra due concezioni assolutamente antitetiche della malattia mentale. 3) Un motivo teorico e psicopatologico. Il manierismo si può porre come affascinante chiave di comprensione e punto di partenza per lo studio della psicologia dello schizofrenico.
A questi motivi ne aggiungo un quarto, che per me è stato forse il primo in ordine di motivazione, e consiste nel rilievo dato al manierismo in un passo del dibattito svoltosi a Milano nel ‘62, in cui vi fu un breve scambio di battute tra Leonardo Ancona e Massimo Fagioli dove trasparivano due concezioni antitetiche dell’inconscio, della malattia mentale e dell’uomo. Infatti, se Massimo Fagioli cercava essenzialmente nel manierismo il segreto della creatività schizofrenica, definendo lo schizofrenico come autista e manierato, Ancona gli si opponeva affermando che probabilmente la schizofrenia, o questa particolare creatività schizofrenici, fosse legata all’emergere dell’inconscio per una debolezza delle strutture coscienti.
Oggi noi sappiamo senz’altro di più riguardo l’anaffettività, l’indifferenza, la dissociazione e tanti altri nuclei psicopatologici che compongono la schizofrenia, ma mi sembra doveroso riportare l’attenzione sul manierismo.
Cito a proposito tre definizioni del termine. Secondo il Dizionario della Lingua Italiana di N. Zingarelli, «il manierismo è un atteggiamento espressivo, innaturale e strano, proprio in particolare dei malati di mente». Secondo il Dizionario di Psicologia di U. Galimberti, esso «è uno stile di comportamento che investe la mimica, il contegno, la scrittura, caratterizzato da tratti di artificiosità che non lascia trasparire spontaneità e immediatezza».
A queste due aggiungo la definizione di Barison, secondo la quale «il manierismo è l’attività con cui viene più o meno consapevolmente perseguito lo scopo di esprimere sentimenti in realtà inesistenti nel soggetto».
Abbiamo visto che in questa accezione, non universalmente condivisa, di atto espressivo, artificioso e falso nella sostanza, un certo manierismo è frequentissimo sia nell’uomo normale sia in varie forme di patologia psichiatrica, ma nella schizofrenia assume particolare frequenza e coloritura. Nel Trattato Italiano di Psichiatria il manierismo schizofrenico viene trattato, insieme alle stereotipie, all’interno dei disturbi qualitativi del movimento e viene attribuita ad esso solo la parvenza di espressività. In verità, il manierismo, si presta a descrizioni formali ricche su cui è inutile soffermare l’attenzione. In breve, atteggiamenti mimici, gesti, comportamenti, vengono proposti in maniera ironica, affettata, a volte ossequiosa e solenne. È in questa atmosfera di tragicomico alambicco che tali atteggiamenti appaiono falsi e grotteschi.
Nella pratica il manierismo schizofrenico può essere secondario ad uno stimolo oppure manifestarsi senza stimolo apparente, come stile, come modo di essere dello schizofrenico; lo troviamo particolarmente frequente nelle forme catatoniche ma, sottolineerei il fatto, esso si può trovare in tutti gli stadi ed in tutte le forme della schizofrenia, fatta forse eccezione per alcune forme di schizofrenia simplex e residuale.
Mi permetto di rammentare un caso, un piccolo esempio per rendere più chiara la descrizione.
Una paziente che vedevo per la prima volta nel corso di una visita domiciliare, viveva in condizioni miserrime, a livelli infimi di igiene sia personale che ambientale. Ella mi accolse sdraiata sul letto come un’odalisca e mi si rivolse con aria da gran signora dicendo: «O caro professore, lei è venuto a trovarmi, finalmente. Lei mi insegnava italiano sin dai tempi antichi».
E ripeteva scandendo lentamente queste parole: «tempi antichi».
Al di là di qualsiasi interpretazione possiamo notare in questo banale esempio tre cose:
1- un modo di parlare affettato, che si estrinsecava nello scandire le parole ed in un timbro di voce artificiosamente impostato.
2- un dato patologico di per sé non tipicamente schizofrenico, cioè un falso riconoscimento.
3- l’aria da gran signora che, in contrasto con le reali condizioni della paziente, conferiva a tutto il contesto un’atmosfera irreale e strana.
Ho fatto questo inciso per dire che, secondo me, nel manierismo si possono ravvisare tre caratteristiche cliniche:
a- come comportamento che complica atti assolutamente normali, tipo vestirsi, fumare una sigaretta, salutare, mettersi il cappello in un certo modo, ecc.;
b- come comportamento che complica atti patologici che di per sé non sono strani o schizofrenici; abbiamo visto un falso riconoscimento, potrei citare deliri di persecuzione o altre forme che troviamo anche in patologie diverse;
c- come “atmosfera” che permea di sé tutta la persona del paziente. A volte si estrinseca in un modo di essere particolare, altre volte si configura in vere e proprie “macchiette” con cui lo schizofrenico si presenta frequentemente; penso in particolare alle figure dell’inventore, dell’asceta, del burocrate, ecc.
Il manierismo, oltre che nella schizofrenia, si trova in varie forme di patologie ed anche nel normale. Possiamo pensare ai manierismi dell’omosessuale che scimmiotta comportamenti femminili e noi potremmo ipotizzare che non possiede un’immagine femminile interiore.
Abbiamo poi manierismi nel caratteriale schizoide, che si manifestano con tratti di affabilità, di cortesia, ma che mascherano in realtà una anaffettività profonda.
Sono descritti in letteratura manierismi nelle crisi maniacali, nell’isteria e nel carattere epilettoide. Però, e questo potrebbe eventualmente essere un argomento di dibattito, non sono d’accordo nel definire “manierismi” quelli dell’isteria e delle crisi maniacali.
Le definizioni che ho citato derivano in parte da esperienze personali, in parte si desumono dai lavori di F. Barison. Attualmente nei manuali diagnostici di uso comune, il manierismo schizofrenico non viene preso in considerazione. Oggi la formazione degli psichiatri, per quanto concerne il problema della diagnosi, viene fondata essenzialmente sul decorso clinico e su criteri di facile quanto fallace riconoscibilità. Si va incontro in tal modo a due ordini di errore: da un lato si rischia di aspettare la cronicizzazione senza chiedersi se essa sia legata ad un fatto iatrogeno o ad un atteggiamento attendista; dall’altro lato si rischia di imbattersi in casi di falsa positività (malati che sembrano schizofrenici e non lo sono) odi falsa negatività (malati che non sembrano schizofrenici, ma invece lo sono).
Se è vero che non possiamo proporre in toto ciò che sarebbe auspicabile, cioè la possibilità ricordata da Rumke di riconoscere lo schizofrenico ad un colpo d’occhio, mi sembra il caso di non abbandonare questo indirizzo di clinica e di fine semeiotica.
Il manierismo ed altre caratteristiche, colte con osservazione attenta ed intuitiva, possono rappresentare un punto di passaggio accettabile.
Vorrei ora proporvi brevemente una storia del manierismo schizofrenico così come è stato trattato nella letteratura psichiatrica. Descrizioni di atteggiamenti, comportamenti, espressioni, che potremmo oggi definire manierate, sono presenti già nell’antichità. Il primo che parla di manierismi in maniera più organica è Kraepelin, a proposito della schizofrenia catatonica. Schematizzando, potremmo dividere la storia del pensiero psichiatrico in due grandi filoni, anche per quel che riguarda il problema specifico del manierismo. Il primo filone si è mosso sul terreno dell’erklaren, accettando il monito jaspersiano sulla incomprensibilità delle psicosi endogene e tentando quindi di trovare la spiegazione ai fenomeni sul terreno della lesione organica e del defekt. Un secondo filone ha tentato di varcare i limiti dell’incomprensibilità, muovendosi sul terreno del verstehen, tentando cioè di comprendere.
Sul terreno dell’incomprensibilità si sono mossi in molti, cercando di arrivare alla spiegazione dei fenomeni usando il metodo di ricerca proprio alle scienze naturali e cercando le cause nei dati anatomici, biochimici, ecc.
All’interno di questa tendenza cito i tre autori che mi sembrano più significativi:
Kraepelin, Reboul-Lachaux e Leonhard.
Sin dalla prima edizione del suo trattato di psichiatria, Kraepelin parla di manierismi riprendendo alcuni accenni che aveva fatto già Kahlbaum nella descrizione della catatonia. Nell’ottava edizione del Trattato di psichiatria (1909), li descrive come movimenti a volte goffi e grossolani, a volte affettati e solenni. Per Kraepelin essi non hanno né scopo, né rapporto con l’ambiente esterno; egli inquadra questi sintomi come disturbi della volontà e degli impulsi, all’interno di un’ottica che vede nella dementia praecox, una sindrome a carattere degenerativo ed esito difettuale. Per Kraepelin i manierismi sono “mutamenti patologici di atti usuali”.
Reboul-Lachaux (1922) pubblica un lavoro dal titolo Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses. È una lunga monografia che tratta del manierismo dei normali, ove l’autore ravvisa caratteristiche di intenzionalità, e del manierismo schizofrenico, ove l’affettazione, la ricercatezza, costituirebbero esclusivamente un’impressione falsa dovuta a deficit motorio. Egli descrive quindici casi di pazienti, in cui sono presenti bizzarrie, smorfie, manierismi nell’ambito di un quadro clinico caratterizzato da eccitazione psichica ed automatismo motorio. L’Autore attribuisce questi sintomi alla presenza di un elemento fisiologico supplementare di cui non sa specificare oltre, elemento che produrrebbe un’incoerenza tra affettività ed intelligenza, tra intelligenza ed azioni. Le manifestazioni manierate a malattia conclamata, sono prive di contenuto affettivo ed ideico e sono interpretate come manifestazioni residuali. Per ultimo cito Leonhard (1962), che rappresenta un po’ il punto di riferimento colto della psichiatria organicistica. Egli descrive in modo estremamente minuzioso due forme cliniche da lui denominate: catatonia paracinetica e catatonia manierata. Leonhard liquida qualsiasi possibilità di comprensione, affermando che i manierismi e le paracinesie sono movimenti pseudoespressivi. Egli nega significato e finalità espressiva finanche al sorriso fatuo.
Per gli autori succitati e per quanti si muovono sullo stesso terreno, il manierismo è sintomo pseudo-espressivo che si ritrova quasi esclusivamente nelle forme catatoniche cronicizzate.
In un campo vicino si muove Bleuler, per il quale i manierismi sono legati all’emergenza di complessi ideo-affettivi più o meno remoti che un danno, forse di natura biologica, farebbe emergere con l’intermediazione patogenetica di meccanismi quali Spaltunge Zerspaltung agenti sinergicamente. Se osserviamo bene qui il difetto viene solo spostato di profondità. Il concetto di deficit, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra.
Tra gli autori che invece hanno tentato di seguire la strada del verstehen, tentando di comprendere le manifestazioni psicologiche dello schizofrenico, cito essenzialmente Gruhle, Binswanger e Barison.
Gruhle (1929) dà importanza al carattere di voluta inconsuetudine, di originalità affettata di tutti gli atti dello schizofrenico; ogni manifestazione trae motivo in un diverso stato d’animo fondamentale. Per primo egli distingue le particolarità linguistiche e comportamentali degli schizofrenici, dai disturbi neurologici (afasia, disartria, disturbi delle prasie), in quanto non dovute a lesioni anatomopatologiche, ma espressioni di un “diverso volere”.
Binswanger nel 1957 scrive tre forme di esistenza mancata. In questa pubblicazione egli dedica al manierismo un vasto capitolo. Per Binswanger il manierismo è un tentativo dell’esistenza di innalzarsi al di sopra del proprio fallimento, mediante un contorcimento, un artificio tecnico. Il manierismo sarebbe la risposta ad un imbarazzo, ad una inadeguatezza dell’essere, li manierato, non riuscendo a raggiungere la propria identità, adotta le maniere dell’altro, imita i modelli che ritrova nell’anonimato, nella società, e si spersonalizza in quella che Binswanger ed Heidegger chiamano «la pubblicità del Si».
In realtà Binswanger, pur considerando il manierismo come modo di essere con cui lo schizofrenico tenta di essere autentico, elude alcuni nodi fondamentali del problema. Innanzitutto si disinteressa volutamente del dato soggettivo, intuitivo dell’osservatore di fronte allo schizofrenico; non sviluppa l’intuizione di Gruhle, circa il diverso volere; non risponde alla domanda sul perché nella schizofrenia vi sia una così forte tendenza al manierismo.
Infine Barison, il quale ha impostato tutta la sua ricerca sui fenomeni espressivi della schizofrenia dando importanza per la diagnosi al manierismo, alla schizofasia e ad alcune risposte al Rorschach.
Barison critica chi confina il manierismo alle forme croniche o difettuali e chi lo confina alle forme catatoniche della schizofrenia, ma ne rileva la presenza in tutte le forme cliniche ed in tutti gli stadi, ritenendo che in esso risieda il segreto della schizofrenia. Secondo Barison il manierismo schizofrenico ha fondamentalmente tre caratteristiche: la parassitarietà, l’intenzionalità ed il finalismo espressivo.
Il manierismo è parassitario in quanto complica atti normali e patologici, di per sé compiuti (in sostanza il manierismo non ha alcuna utilità per l’atto che va a complicare).
Per quanto riguarda invece l’intenzionalità ed il finalismo espressivo, questi vengono colti dallo psichiatra, con un atto intuitivo o con una osservazione attenta.
Barison parla di una teatralità dello schizofrenico, ben diversa dalla teatralità isterica, teatralità con cui lo schizofrenico «evita il rapporto diretto, sfugge al rapporto immediato con l’altro, deviando l’attenzione su una cascata di comportamenti parassitari che hanno praticamente il risultato di svuotare l’efficacia espressiva del gesto».
Con questa teatralità lo schizofrenico crea un mondo irreale, ed è proprio su questa creatività che Barison insiste per cercare il segreto dell’Anders, cioè l’alterità totale dello schizofrenico. Egli parla di intenzionalità, in senso husserliano. L’intenzionalità è per Husserl (come per Brentano ed i filosofi Scolastici) caratteristica specifica dei fenomeni psichici; essa consisterebbe essenzialmente nella direzionalità verso l’oggetto di cui si ha coscienza. Si tratta quindi di intenzionalità cosciente.
Barison parla di intenzionalità facendo riferimento a «un comportamento che mima, imita, comportamenti normali» e proprio in quanto li imita «non si può pensare che tale condotta non sia diretta ad agire su un ambiente interumano».
In sintesi con la mia breve disamina ho riferito di questa tendenza della psichiatria volta a percorrere la strada della comprensione, strada in cui si può riconoscere una faticosa costruzione e difesa della propria identità. Ipotizzando ad esempio un diverso volere o una intenzionalità, come caratteristica del manierismo schizofrenico, restituisce dignità al malato mentale che non appare più come semplice difettuale. È vero che questo indirizzo psichiatrico, oltre che restare minoritario, ha mostrato la corda cedendo all’empirismo della farmaco- psichiatria e della psichiatria sociale proprio perché al di là di affascinanti intuizioni non ha saputo cogliere la possibilità di affrontare ed opporsi a questa intenzionalità distruttiva dello schizofrenico,
Ora sappiamo che in realtà, per approfondire la ricerca era necessario uscire dalla forbice erklaren-verstehen per affrontare l’inconscio, per ricercare al di là di una intenzionalità cosciente, l’intenzionalità inconscia, sostenuta dalla pulsione di annullamento.
Ora mi pongo alcune domande, che vorrei girare alla vostra attenzione: se il manierismo è quel comportamento atto ad “esprimere sentimenti inesistenti nel soggetto”, mi chiedo se possiamo cogliere il flesso tra il manierismo e la pulsione che rende inesistente ciò che esiste ed esistente ciò che non esiste?
Se questo è possibile cosa rimane, al di là della pulsione, nel manierato? Per spiegarmi meglio: cos’è che differenzia lo schizofrenico manierato dallo schizofrenico simplex, in cui rimane apparentemente solo l’indifferenza?

Tratto da “Il sogno della farfalla” rivista di psichiatria e psicoterapia, n. 3/97

Il caso Jurg Zund


di Gianfranco Vendrame

Il manierismo schizofrenico può essere inteso come l’espressività dell’essere “strano” schizofrenico. Lo strano allude alla sua irrealtà, al suo essere “irreale e presente”. L’irrealtà è tale da renderlo del tutto impermeabile, chiuso, opposto alla realtà. È l’autismo schizofrenico. «Lo schizofrenico non è soltanto un uomo chiuso al mondo, non è soltanto autista, ma è un autista manierato; esiste un manierismo che è qualcosa di particolare e di unico per lo schizofrenico».
Il clima di stranezza schizofrenica, che l’atto manierato crea, rimanda all’essere schizofrenico. Non è l’atto manierato ad essere irreale, ma l’essere dello schizofrenico. Così, non è l’atto manierato ad essere derealizzante, ma è l’essere dello schizofrenico.
Potremmo dire che l’espressività schizofrenica, sentita come teatralità, beffarda ironia, “rappresentazione sovraumana”, non è comunicazione interessata a derealizzare la realtà, ma è il modo di essere teso a nascondere l’irrealtà schizofrenica. Lo schizofrenico non dice: sono schizofrenico, perché egli è schizofrenico.
Le molteplici diversità della espressività schizofrenica, alludono a questa irrealtà che può animarsi al soffio di ciò che nasconde per diventare imprevedibile.
C’è chi di fronte ad essa, ponendosi sul piano della clinica, diremo alla Jaspers, fa l’esperienza di qualcosa di negativo, di incoerente e caotico, chi, ponendosi sul piano fenomenologico, apprezza un qualche cosa di ineffabile, di indefinibile ma positivo e caratteristico, cioè il “plus”, l’“Anders”, la produttività schizofrenica, e chi ponendosi sul piano della realtà inconscia, ne scopre l’aspetto pulsionale come attività diretta contro uno stimolo esterno.
L’espressività manierata accordata con lo strano, mimetizza lo schizofrenico e lo rende irriconoscibile. Dal suo rifiuto a rivelarsi egli trae le sue molteplici possibilità di mostrarsi. Parla così un linguaggio ormai dimenticato che deve, ogni volta inventare.
Il suo atteggiamento è una acrobazia, ma non è che egli deformi la propria realtà, piuttosto imita, in modo artefatto, un’immagine che non ha, rarefacendosi nel nulla. È l’apparire estraneo, arbitrario, come gioco di associazioni, di immagini che usa come unico strumento espressivo per quell’immagine interiore che non ha e che è inesprimibile; oppure soltanto un atteggiamento incapace di placarsi in una qualsiasi forma di rapporto umano.

Aspetti storici
La psichiatria, nella ricerca di “tracce di vita” nella schizofrenia, si è imbattuta nel comportamento manierato dello schizofrenico.
Allo stile della mimetizzazione, della dissimulazione, della finzione, della caricatura, esso deve il suo effetto inquietante.
Essenzialmente antirealistico, irrazionale, difficile, complicato, non ha un colorito affettivo, non agisce sui sentimenti, ma sull’intelletto e sul gusto. Si fa labile il con fine tra essere e apparire ed esso insinua il sospetto che anche la realtà oggettiva sia una finzione o un’illusione.
Nella settima edizione del suo Trattato di Psichiatria, che conserva ancora oggi un carattere di attualità, la demenza precoce è descritta da Kraepelin come «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive». Attorno a questa progressiva disgregazione, si strutturano elementi patologici che saranno clinicamente distinti nelle tre forme di demenza: ebefrenica, catatonica e paranoide. Nel capitolo sulle “Forme catatoniche” in più della metà dei casi, l’esito è una grave e caratteristica demenza. Cadono le idee deliranti e le allucinazioni, l’eccitamento poco a poco scompare e compaiono i segni della “debolezza psichica”.
L’ammalato divenuto apatico e indifferente, non si cura più dell’ambiente, non conosce più né ordine né pulizia, gioca con le figurine come un bambino. Alcuni malati rimangono a lungo a letto, non parlano, non rispondono; altri sono più vivaci, irritabili, irrequieti. È in quest’ultime forme che si manifestano i manierismi, come “deviazioni rigide e morbose, di azioni normali”. Contrariamente alle stereotipie, movimenti goffi, rigidi, grossolani che non hanno uno scopo né un rapporto con l’ambiente, che spesso continuano in modo uniforme per ore e che solo il contenimento fisico può impedire, i manierismi sono descritti come movimenti da automa, il fare smorfie, il fare mosse da arlecchino, il giocare con le dita, il girare gli occhi, l’aggredire improvviso.
Alcuni di questi gesti ricordano quelli che si fanno nei momenti di imbarazzo, come girare la testa da una parte, stringersi sulle spalle, toccarsi la testa, lisciarsi i capelli. Sono manierismi anche il disordine e la stravaganza nell’abbigliamento, lo strano modo di pettinarsi, di camminare, di parlare e di scrivere. È caratteristica degli stati catatonici questa particolare espressività; i malati urlano, strillano acutamente o in falsetto, ridono continuamente oppure parlano in lingue straniere inventate con rime e assonanze o con parole mutilate, tronche. Sono malati colpiti da una grave alterazione della volontà; dalla alterazione della facoltà del giudizio e soprattutto dell’affettività discendono, invece, il loro disinteresse e caratteristica indifferenza.
Kraepelin non entra nel significato, nelle ragioni interne del cambiamento, esclude qualsiasi considerazione della personalità e del vissuto del paziente. La sua descrizione poggia sulla distinzione delle funzioni mentali isolate: intelligenza, affettività, volontà e studiandone le alterazioni non supera tale distinzione.
Non sembra che Kant abbia avuto particolare influenza sulla nascente psichiatria tedesca, ma l’eco della logica che lo aveva guidato nella sua classificazione dei “difetti della mente”, sembra trovare nella sintesi di Kraepelin un ascolto. Scriveva Kant: «Ma è degno di meraviglia il fatto che le facoltà dell’animo messe in disordine si compongono in un sistema».
Non si dà un’assenza della ragione, ma una sua alienazione. Anche nel mondo della demenza, negli stati terminali, è dato cogliere questa non-perdita.
Kraepelin, scrivendo che tratto fondamentale della demenza praecox è «la perdita dell’unità interna delle attività intellettive, emotive e volitive», non allude, nella sua concezione, ad una totale perdita della ragione, ma piuttosto ad una costruzione alienata, in cui il soggetto utilizza e convoglia in una direzione diversa dal “senso comune” le sue energie e la sua attività. La malattia è un tentativo di costruzione, basato su leggi diverse, ma non per questo meno solide. Nell’ebefrenia, infatti, la resistenza opposta al cambiamento fisico è attribuita all’indomabile necessità di un “non-movimento”; nella catatonia, il negativismo, all’inizio incerto, diverrà un elemento organizzatore della personalità.
La ricerca psichiatrica, in questi inizi, fa pensare come l’aspetto deficitario della malattia non escluda una attività nascosta.
Solo più tardi, questo pensiero affiorerà, dapprima come fenomeno della coscienza, poi, come realtà inconscia.
Nel “Gruppo delle schizofrenie” Bleuler chiamerà schizofrenia la demenza praecox perché la sua caratteristica più importante è la dissociazione mentale (Spaltung), la perdita cioè dell’unità della vita psichica e la frammentazione (Zerspaltung) delle componenti del pensiero.
Distingue i sintomi, dal punto di vista clinico, in fondamentali e accessori, e dal punto di vista della derivabilità psicologica, in primari e secondari.
I sintomi fondamentali, essenziali per la diagnosi e l’inquadramento nosografico:
dissociazione del pensiero, impoverimento dell’affettività, ambivalenza, autismo, disturbi della volontà, sono caratteristici della schizofrenia; quelli accessori:
allucinazioni, deliri, disturbi della memoria, della personalità, sintomi catatonici, compaiono anche in altre sindromi.
I sintomi fondamentali e accessori non si identificano con quelli primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) e secondari (autismo, ambivalenza, deterioramento schizofrenico, deliri, sintomi catatonici); i primi attengono ad un criterio diagnostico, i secondi ad uno psicopatologico e psicodinamico. La dissociazione è sintomo fondamentale e primario, l’autismo è fondamentale, ma secondario.
È importante questo approfondimento: dalla descrizione analitica delle funzioni mentali isolate, intelligenza, affettività, volontà, di Kraepelin, alla psicopatologia della schizofrenia.
Kraepelin aveva descritto una sintomatologia più ricca possibile, Bleuler espone i sintomi fondamentali. Kraepelin aveva dato il nome alla malattia, Bleuler denomina il malato. Kraepelin descrive il suo comportamento, Bleuler ricerca il suo significato.
Per ambedue la malattia non è perdita delle funzioni psichiche; neppure nei casi più gravi, scrive Bleuler, si può dimostrare una perdita dell’affettività che, se viene meno, può manifestarsi in un altro momento, oppure ad un esame più accurato.
Gli affetti più frequentemente conservati sono quelli che vanno nel senso dell’irritabilità, fino alla rabbia e all’ira.
La malattia è processo che produce direttamente i sintomi primari (disturbi associativi, disturbi dell’umore) che sono di origine psichica.
Bleuler è aperto alla psicoanalisi che cerca di integrare con la psichiatria. Egli inaugura l’approccio psicologico alla schizofrenia e la ricerca in un “senso”.
La personalità dissociata della schizofrenia, egli scrive, è dominata dai singoli complessi psichici. La loro attività conscia ed inconscia, causa le illusioni della memoria, le allucinazioni, i manierismi e gran parte delle stereotipie.
È l’effetto continuato di questi complessi all’origine dei manierismi.
Sono esagerazioni dettate dai complessi, l’affettazione catatonica, il comportamento impertinente di molti ebefrenici, la maestosità ridicola dei megalomani.
Anche la persona normale, ha la tendenza ad esagerare alcune espressioni. Come fanno i vanitosi e le persone orgogliose. Si fanno però notare di più quelli che vogliono sembrare quello che non sono.
Nell’uomo veramente distinto, l’atteggiamento fa parte del suo modo di essere e quindi non si nota. In colui che affetta la distinzione, invece, si nota il contrasto tra natura e affettazione. La persona colta è indifferente ai movimenti delle dita della mano. Chi vuol dimostrare una cultura che non ha, scrive Bleuler, si studia di tener divaricato il mignolo e fa movimenti esagerati a proposito e a sproposito. Così si comportano gli schizofrenici quando i complessi psichici acquistano un potere troppo grande.
La migliore occasione per il manierismo è data dal linguaggio. Bleuler cita lo stile ricercato, falsamente distinto, che fa un uso eccessivo di diminutivi. Cita la perseverazione, le contrazioni, le interruzioni che avvengono a metà frase.
L’espressione di questi malati è spesso ridondante, espongono banalità con «un’espressione estremamente contorta», «come se fossero in gioco i più alti interessi dell’umanità».
I manierismi sono così «cambiamenti vistosi delle azioni più usuali» nello sforzo di «mimare qualcosa di particolare, nel contegno, nella mimica, nell’abbigliamento, nel linguaggio e nella scrittura».
Nel 1921 viene pubblicato a Montpellier un lavoro di Reboul-Lachaux, dal titolo: Du maniérisme dans la démence précoce et dans les autres psychoses.
Questo autore considera all’origine del manierismo l’eccessiva irritabilità, l’automatismo, la modificazione patologica del giudizio e dell’affettività e dei loro reciproci rapporti. Si mette la ricerca di un «élément physiologique supplémentaire» che permetta di definire il manierismo, ma scrive sarebbe troppo precipitoso proporre subito «la vera teoria del manierismo».
Ritiene che esso possa manifestarsi in tutti i campi dell’attività umana e fa, per la prima volta, una estesa descrizione del manierismo della “persona sana”, in cui svolge un importante ruolo la fatuità.
Rileva che esso è fondato sull’assunzione di una maschera, sulla premeditazione, sulla ricercatezza, sulla manipolazione, come fosse presente una “intenzionalità”.
Ci interessa questa intuizione, perché è vicina a ciò che Kraepelin e Bleuler lasciano capire con l’idea di costruzione e perché sembra sottendere tutta la ricerca psichiatrica.
Reboul-Lachaux cita quindici osservazioni cliniche dicasi di demenza praecox che presentano manierismi, bizzarrie e smorfie, legati ai gesti e all’andatura, risultanti da un certo “grado di eccitazione psichica” connessa con l’“automatismo”. Sarebbero però false impressioni dovute a questi disturbi, mentre i veri comportamenti superficiali, innaturali, affettati sono dovuti alla discordanza tra i fenomeni psichici, in particolare tra l’affettività e il giudizio, l’intelligenza e l’azione.
Altri Autori hanno successivamente descritto il fenomeno del manierismo, come Tanzi e Lugaro (1923), Bini e Bazzi (1954), Leonhard (1962) che hanno integrato la nomenclatura di Kraepelin, accettando il suo indirizzo cliniconosografico.
Del manierismo si è occupato anche Minkowski ponendolo tra le alterazioni dell’espressività e accostandolo alla affettazione e alla teatralità.
Minkowski, come del resto Morselli ed altri psicopatologi, pur riconoscendo nella malattia non più una semplice costruzione, ma una attività psicopatologica originaria, di fronte al manierismo non vanno oltre alla descrizione iniziata con Kraepelin.
È con Rumke (1958) che a ricerca si approfondisce quando parla del “sentimento della schizofrenicità”, il Praecoxgefùhl e del segreto dello schizofrenico, come un “segreto della forma”.
Barison, più tardi, scriverà che gli atteggiamenti dello schizofrenico danno allo psichiatra esperto una impressione di assurdo che si coglie nella trama di elementi concreti, di gesti, parole, movimenti, come fosse qualcosa di nuovo, di diverso, di peculiare.
Tale assurdo sarebbe non solo “nuovo” per il pensiero normale, ma è sempre “nuovo” ad ogni nuova osservazione. Esso costituisce lo “strano” schizofrenico che lo psichiatra riconosce come tipico in forza di quel “senso della schizofrenicità”, di quel “Praecoxgefuhl”, di quell’atto cioè di intuitiva visione dell’essenza di qualcosa di specifico della “schizofrenicità”.
Inerente allo “strano schizofrenico” è il manierismo, le cui qualità fondamentali, scrive Barison, sono:
1 - il parassitismo: il manierismo è una complicanza sovrapposta al comportamento con cui non ha apparentemente alcun nesso logico né affettivo;
2 - l’espressività: il manierismo ha una finalità espressiva;
3 - l’intenzionalità: il soggetto si comporta come se volesse esprimere qualcosa.
Il manierismo sarebbe dunque un intervento attivo che modifica l’espressione in atto.
Sarebbe una modalità attiva di mimare sentimenti estranei all’azione, nell’azione.
È una teatralità il cui scopo evidente è quello di annientare la realtà espressiva, un tentativo di “derealizzare la realtà”, un modo per lo schizofrenico di far scoppiare la realtà sotto la spinta di una potentissima forza istintiva, un modo di realizzare, vivendo la realtà, la sua pulsione antirealistica.
È di fronte al fatto psicopatologico che la ricerca psichiatrica scrive e riscrive la malattia, nel tentativo di coglierne il significato profondo, il senso, come se il concetto stesso di malattia continuamente sfuggisse.
L’“incomprensibilità” di Jaspers (1913) sembra pesare come un oscuro difetto dello psichiatra.

Il manierismo come fallimento dell’esistenza. Il caso Jurg Zund
È forse riferibile a questa difficoltà, se autori, come Binswanger, hanno ispirato il loro lavoro, la Daseinsanalyse o analisi della presenza, non alla conoscenza della psichiatria o della psicologia, ma alla filosofia di Husserl ed Heidegger, traendo da essa il metodo di indagine ed il linguaggio. È forse riferibile a questa difficoltà la nuova teoria della supremazia della coscienza con la sua caratteristica di “intenzionalità” e con la sua proprietà di essere svelatrice di “senso”. Alla difficoltà della psichiatria di riconoscere la malattia, Binswanger risponde che la malattia non esiste. Il metodo della Daseinsanalyse si differenzia così da quello della psichiatria. Riferendosi al caso Jurg Zund, Binswanger scrive che la Daseinsanalyse si differenzia dalla psicopatologia non solo perché essa non mira alla comprensione di un fatto psichico, ma perché ignora di proposito la differenza tra sano e malato.
L’uno e l’altro sono variazioni del comune a priori essere-nel-mondo, anche se il sano si propone nel senso della “riuscita” del proprio esistere, ed il malato nel senso del “fallimento”.
Se uno psichiatra rileva in un malato dei comportamenti artificiosi, egli è indotto a definirli come manierismi ed a ritenerli sintomi di una schizofrenia. Il daseinsanalista, invece, non si chiederà perché queste manifestazioni artefatte ed innaturali siano da considerarsi patologiche, ma piuttosto come mai la schizofrenia abbia una così forte tendenza ad esprimersi manieristicamente, considerando il manierismo non tanto come sintomo di un quadro clinico, ma come forma particolare in cui può “fallire” la presenza, per cui una persona abdicando alla propria autenticità, si manifesta in una radicale inautenticità, nascondendo ed anche perdendo se stesso.
Nel suo lavoro Tre forme di esistenza mancata (1956), accanto all’esaltazione fissata e alla stramberia, Binswanger considera il manierismo come una minaccia immanente all’uomo per la sua riuscita, una forma di esistenza mancata, modi cioè in cui si esplica il fallimento dell’esistenza. Nell’esaltazione fissata, il fallimento dell’uomo sarebbe dovuto alla sproporzione tra l’altezza delle aspirazioni e l’ampiezza dell’esperienza. Come l’alpinista inesperto che, raggiunto un punto troppo elevato per le sue capacità, non sa più né salire né scendere. Nella stramberia, il soggetto pone qualcosa “di traverso” tra sé e il mondo, qualcosa che impedisce il rapporto con gli altri. L’esempio è quello della vite storta che non riuscendo ad avvitarsi, si ferma. Nel manierismo è il tendere verso l’alto contorcendosi tramite un artificio tecnico. L’artificio servirebbe a supplire, compensare, una carenza.
La parola “manierismo” designerebbe l’effetto suscitato nello spettatore, nell’ascoltatore, di stranezza, l’impressione che un certo comportamento sia sorprendente, stupefacente, assurdo, estraneo, eccentrico. Oppure, ancora, ricercato, affettato, artificioso, contorto.
L’essenza del manierismo sarebbe questa artificiosità, questo contorcersi verso una altezza ricercata, innaturale, in risposta ad una incompletezza dell’essere, ad una sua inautenticità.
Adottando la distinzione haeideggeriana tra essere autentico ed essere inautentico, Binswanger scrive che il manierato non è in grado di vivere nella autenticità della propria concreta situazione, ma sarebbe costretto ad assumere una maschera per supplire alla mancanza di un volto proprio.
È il caso dello studente universitario Jurg Zund.
Da ragazzo è molto vivace, impulsivo, aggressivo, ma angosciato da sensazioni corporee abnormi. Egli si muove in tre “mondi” tra loro contraddittori, che non riuscirà mai a superare. Innanzi tutto il mondo “proletario”, quello della via in cui abita; in questo mondo il giovane Jurg Zund si comporta da monello.
Quando, dopo la scuola il padre, persona schiva, irritabile, va a prenderlo sulla strada dove si è attardato, egli si sente commiserato dai compagni. Si rimprovera di sentirsi meglio sulla strada, poiché a casa è sempre impaurito da una madre minacciosa ed imprevedibile. Mal sopporta il fatto che per i vicini, i genitori siano considerati poco socievoli, strani, altezzosi. Il padre, musicista, è ritenuto in famiglia “un gran nevrastenico”. La madre è giudicata arrogante, ambiziosa, imprevedibile. Poiché il comportamento dei genitori suscita le critiche della gente, egli si sente indifeso, minacciato, allo sbaraglio. Avverte così vivissimo l’intimo bisogno di doversi nascondere, di occultare se stesso; un bisogno che lo accompagnerà per tutta la vita.
Accanto al mondo della strada e a quello soffocante della famiglia, ne esiste un terzo, quello in cui vivono il nonno e due zii materni. Questi godono di buona reputazione per il loro comportamento da gran signori. Abitano il piano di sotto e qui il giovane Zund si sente protetto e più libero. Se i genitori non uscivano mai da casa, i parenti lo invitano spesso alle gite domenicali. Lo zio, poi, lo loda proprio per quelle ragazzate sulla strada che il padre gli rimproverava aspramente.
«Vediamo quindi», dice Binswanger, «che l’esistenza di Jurg Zund è minacciata fin dall’inizio da una scissione, da una triplicità di direzioni».
Egli è diviso di volta in volta in tre “mondi”, quello insofferente della strada, quello della famiglia e quello dei parenti, tra loro diversi e irrapportabili. Adotta il modello ora di un “mondo” ora di un altro, seguendo le maniere dell’uno o dell’altro “mondo”. Jùrg Zùnd non riesce ad esistere che rispecchiandosi in questo o in quel “mondo”, senza poter fare emergere mai una propria personalità.
In preda a sentimenti di inferiorità, si chiede sempre più preoccupato quale impressione faccia alla gente. Appare sempre meno spontaneo, sempre più artefatto. Constata che i suoi movimenti e la sua figura destano il riso della gente, come quando si toglie il cappotto o quando cammina dimenando le braccia. Perciò si sente costantemente al centro della critica e preferirebbe scomparire “nell’anonimato della massa”.
Questi tentativi di occultamento si riveleranno come faticosi, esagerati, contorti e perciò destinati a fallire.
Il manierato, l’artificioso, il ricercato, sarebbero serviti, scrive Binswanger, a nascondere la sua paura della vita, ad arginare l’angoscia per l’esistenza, A partire dal trentasettesimo anno Jurg Zund si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Nel considerare l’intero decorso della sua esistenza, Binswanger nota che al posto della scissione degli anni dell’infanzia, al posto dell’impossibilità di sentirsi a suo agio nei suoi “mondi”, al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera” signorile, al posto di tutto questo sia intervenuta una relativa calma.
Per Binswanger, ciò è stato possibile soltanto al prezzo della rinuncia a una sua autonomia. Jurg Zund rinunciando a lottare si è ritirato nella clinica e affidato alle sue cure. Mentre un primo medico aveva affermato che “data la sua estraneità al mondo, i suoi modi esaltati, affettati e bizzarri..., andava indubbiamente considerato uno “schizofrenico” un altro medico l’aveva diagnosticato come “schizoide”.
Per Binswanger rappresenta un caso di schizofrenia simplex polimorfa. Questa forma clinica definita da Binswanger polimorfa, presenta un insieme di sintomi “analoghi a quelli delle nevrosi”, sintomi fobici, depressivi, ipocondriaci, isterici. La caratteristica principale è il progressivo impoverimento e deterioramento del comportamento. Tale forma clinica è nel Trattato Italiano di Psichiatria, descritto come “schizofrenia pseudonevrotica”. In questi casi non sono presenti sintomi schizofrenici evidenti in quanto mascherati dalla sintomatologia “nevrotica” che domina il quadro. Data l’assenza di sintomi chiari di schizofrenia, questi casi vengono oggi esclusi dalla diagnosi di schizofrenia.
E, anche noi, facendo nostra l’analisi di Binswanger, ci domandiamo se il giovane Jurg Zund che si sente costantemente sulle spine per la paura dei rimproveri, di un improvviso declassamento, che, scrive Binswanger, si interessa degli altri, ma insieme è imbarazzato e si vergogna di questo interesse tanto da assumere una maschera, un contegno stereotipato e goffo e voler scomparire dalla faccia della terra, ci domandiamo se sia veramente uno schizofrenico.
E ci domandiamo se l’imitazione dei “mondi” in cui Zund si specchia non sia, in qualche modo, rapporto con le persone che li abitano, di cui adotta le maniere, seguendo ora questo ora quest’altro modello.
Con Binswanger viene meno quella ricerca di mettere in luce l’incomprensibile, lo “strano”, il dissociato, che ha indubbiamente richiesto lo sforzo di liberarsi innanzitutto dalla alienazione religiosa, come presupposto per la conoscenza.
Ciò che importa, sostiene, è riuscire a mostrare che la forma d’esistenza del manierismo non è qualcosa che inerisce specificatamente alla schizofrenia, in quanto malattia mentale, ma che essa corrisponde ad una forma di esistenza umana generale.
Questo radicamento nel sentimento immediato della esistenza, sembra impedire lo sviluppo di una conoscenza; le descrizioni di Binswanger sono ricche di illuminazioni appassionate, ma secondario appare l’interesse terapeutico.
Noi pensiamo il manierismo come l’espressività dell’essere strano “irreale e presente” schizofrenico, in cui la peculiarità sembra essere un’esistenza che risulti il più possibile irreale. L’espressione può diventare la meno espressiva possibile, quasi per togliere ogni realtà alla realtà dei sentimenti. Il malato così facendo rappresenta il nucleo più profondo della sua personalità schizofrenica.
Non quindi un modo di essere, un arricchimento fittizio cui si possono contrapporre altri, fondati sull’impoverimento della vita, sul decadimento della personalità e neppure un sintomo, essendo il manierismo del tutto indipendente dal decorso acuto o cronico della malattia.
L’approccio fenomenologico cogliendo il significato del comportamento, cogliendo lo stile particolare dell’assurdo, trascende il fatto che lo schizofrenico è “irreale e presente”. Il modo di essere rivelerebbe così una sua autenticità, una sua realtà, una trasformazione nuova. Ma così facendo, sfugge il “segreto” dello schizofrenico, la sua incomprensibilità, l’incomprensibilità della pulsione di annullamento. Ciò comporta una infinita descrizione dei fenomeni psichici, senza poterli mai definire.
In questa difficoltà la psichiatria si priva di qualità scientifiche.
L’antropoanalisi, infatti, guarda la malattia chiudendo gli occhi sulla realtà psichica, sulle sue dinamiche, sulle sue possibilità. Essa comprende la disperazione, il disagio, il dramma, ma non va oltre la presa di coscienza dei fatti evidenti. Si stabilisce così un’alleanza col paziente che mira a nascondere la sua ribellione, la sua rabbia, a nascondere la realtà che ha in sé latente la violenza.
Jurg Zund era schizofrenico. Non polimorfo, per dire più nevrotico che schizofrenico, come prima ci domandavamo. Forse, inizialmente ammalato non di schizofrenia simplex, ma di schizofrenia ebefrenica.
Dall’età di 37 anni, si trova, quasi senza interruzione ricoverato. Fin da ragazzo soffre di “stati angosciosi e di sensazioni corporee abnormi”. Ha disturbi alle gambe, ai genitali, soffre per la possibilità di essere osservato in uno stato di erezione, simbolo per lui della sua estrazione proletaria, tanto da essere indotto a nascondersi (il lungo mantello, le passeggiate solo quando si fa scuro ecc.).
Ci ricorda un altro ammalato che giunse all’analisi all’età di 34 anni, con fenomeni di depersonalizzazione corporea alle gambe e alle braccia. Costui aveva perso la propria identificazione fondamentale e solo il continuo lavoro di interpretazione della pulsione di annullamento che l’aveva fatta sparire, lo guarirà dalla malattia schizofrenica. Non sarà questa la sorte di Zund, anch’egli dissociato, anch’egli delirante. Non c’è, infatti, in Binswanger, alcuna proposizione di ricerca. Solo una descrizione dei fatti evidenti.
Ci dispiace così il progressivo crollo di Zund, il suo inesorabile scivolare verso la Clinica, la continua, drammatica delusione del suo nascosto essere “poppante al seno”. L’adozione di una “maschera signorile”, di uno stile, ci verrebbe da dire, di seconda mano, rigido e formale è il suo primo essere schizofrenico manierato che rifiuta il mondo.
Liberatosi dal rapporto sadomasochistico e dalle identificazioni, egli si sente esistere solo nella imitazione, nell’assunzione dei modelli offertigli. A differenza del simplex, egli lotta e, rispecchiandosi nei tre diversi mondi, non raggiunge il nulla. Trae da dentro di sé la forza per la recitazione, e ne fa la sua espressività. Non sa mai configurare un problema se non sotto forma di paradosso e ciò, sappiamo, per l’istinto di morte come realizzazione di non essere, apparire senza essere, essere “irreale e presente”.
Per conseguire il suo effetto, Zund adotta modelli che impone ai suoi spettatori, così da apparire estraneo, ed in questo è consapevole di trasformare il rapporto in qualcosa che non è e non può essere.
Con il contegno stereotipato e innaturale tiene lontano un mondo che gli appare arbitrario, negandolo e anche disprezzandolo. Come fosse presente non tanto una indifferenza, ma soprattutto una forte rabbia, un forte odio.
Con la sua andatura e con l’insieme del comportamento manierato, sembra non permettere a nessuno di partecipare a ciò che lo angoscia. Nella sua intima contraddizione rifiuta il mondo e gli uomini che sono a lui indispensabili come avversari, vittime, spettatori. Nella sua lotta di libertà e indipendenza essi sono spettatori immobili cui imporre il proprio comportamento. Così egli riesce a nascondersi e fare di se stesso un essere manierato e angosciante.
«È la recita leggiamo ne La marionetta e il burattino di un uomo che non vuole andare incontro a delusioni, non vuole diventare castrato, cioè pieno di odio e rabbia in un rapporto sadomasochistico con gli altri. Diventa e preferisce essere manierato, affettato, legnoso. Ha scelto la strada dell’opposizione e del rifiuto portando il suo modo di essere nel rapporto con gli altri ad un modo di essere pantomimico... E rifiuta anche di vivere e rivelare la sua realtà di poppante desideroso di carezze. Da questo rifiuto nasce la persona manierata, affettata, cortese che tende sempre a tenere lontano l’altro, a distanziarlo fino a paralizzarlo nella più disumana espressione dell’esibizionismo della schizofrenia catatonica».
Rispecchiandosi nel mondo aristocratico dei parenti del “piano di sotto”, Jurg Zund adotta un modello signorile. Lo specchio dice la verità, ma nello stesso tempo, mente. È cristallino, liscio, ma insieme fragile e delicato. La pulsione distrugge l’immagine e riduce immagine e specchio ad una frammentazione. Nel considerare l’intero decorso dell’esistenza di Zund, Binswanger nota infatti, che al posto dei tentativi di venire a capo della differenza dei tre diversi mondi e dei loro vicendevoli rispecchiamenti con l’adozione di una “maschera signorile”, sia intervenuta una relativa calma.
Nella Clinica Jurg Zund si sente benissimo, ha la possibilità di uscire liberamente, ma, pur riuscendo persino a dare lezioni private ai figli di un medico, le sue capacità lavorative sono molto diminuite. Solo ora potremmo parlare di schizofrenia simplex. Nel suo isolamento, nel suo comportamento discreto, Jurg Zund non vive emozioni, non ha angosce, ha annullato la sua ribellione e la sua lotta. Dirigendo l’istinto di morte come pulsione attiva, fantasia di sparizione contro il mondo umano, egli ha realizzato se stesso come anaffettivo ed indifferente.
Leggiamo ancora ne La marionetta e il burattino che lo schizofrenico semplice «è lo schizofrenico adattato al manicomio che conduce i suoi giorni nel lavoro routinario. La crisi che lo rese pazzo... è un ricordo di un tempo lontano (...). L’estrema ribellione della fuga ha dovuto essere trasformata in fantasia di annullamento, in chiusura degli occhi su tutto e tutti. lo non ci sono».
E più avanti ancora: «La possibilità di rendere inesistenti gli “affetti” nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla... Il suo pensiero..., è la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero di ciò che non è materiale da ciò che è materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia, la fantasia di sparizione che rende inesistente sé e gli altri».
Binswanger non coglie nella sua analisi il nulla dell’atto espressivo nello schizofrenico manierato; coglie il manierismo come costruzione che tende a nascondere, ma non va oltre. Attribuisce ad esso il significato di seguire modelli offertigli dagli altri, adottandone le maniere, come fossero modalità di esistenza.
Non coglie il manierismo come espressione di quell’essere irreale e presente schizofrenico che non vuole mostrare nulla, ma solo proporre un rapporto non vero per nascondere la propria realtà, ma anche come espressione di quell’essere, com’era Jùrg Zùnd, «poppante desideroso di carezze», andato incontro a continue delusioni.
Mi sembrano infine necessarie alcune brevi osservazioni tratte dall’esperienza diretta di M. Fagioli che nei primi anni ‘60 ha lavorato presso la Clinica Bellevue di Kreuzlingen.
In Bambino donna e trasformazione dell’uomo scrive: «Non esiste una pratica analitica di tipo binswangeriano, tanto che a Kreuzlingen, era obbligatorio, per contratto, una analisi personale freudiana o junghiana. E ci sono ragioni teoriche alla inesistenza di terapia. La negazione della patologia conduce immediatamente alla negazione di ogni terapia».
E più avanti: «A Kreuzlingen ogni medico era libero di lavorare come credeva. Non c’era nessuna scuola. Binswanger aveva fatto i suoi studi e ciascuno era libero di interessarsene o non interessarsene. (...) Come studioso era indubbiamente stimabile anche se limitato alla osservazione cosciente della malattia mentale; buon fenomenologo, discreto scrittore.
Come terapeuta non l’ho mai visto lavorare e, per quanto diceva, non aveva avuto mai nessun interesse a curare i malati. A lui interessava osservare, pensare e... scrivere, come peraltro risulta dalle sue opere». Questa, la testimonianza di M. Fagioli, dalla quale noi possiamo ancora cogliere come Binswanger vada inserito in un contesto storico-culturale, iniziato con al di là del principio del piacere in cui l’istinto di morte è codificato come sadismo. «Non riuscire a vedere — scrive Fagioli — cosa c’è al di là del sadismo conduce alla codificazione di esso come istinto, ovvero come tendenza umana immodificabile. Gli uomini sarebbero, soltanto ed esclusivamente per la distruzione, vanno quindi dominati, controllati, sottomessi all’obbedienza della mente, della ragione...».
La riproposizione di una perversione umana originaria, Freud la completerà nel Il problema economico del masochismo (1924) e ne La negazione (1925) «in cui si nega qualsiasi possibilità che nell’uomo possa esistere un rifiuto, un NO alla distruzione come esigenza interna propria agli esseri umani».
Nel 1943 compare L’essere e il nulla di Sartre, in cui, come in Binswanger, vi è la negazione dell’inconscio. Quanto accadeva in Europa era semplicemente “fenomeno”. L’irruzione dell’inconscio, il sadomasochismo, viene detto fenomeno “diverso”, umano. Il suicidio di Ellen West è atto di autenticità e libertà.
Freud, con Analisi terminabile e interminabile del 1937, in cui affermava l’inutilità di qualsiasi terapia o progetto trasformativo, rientra in una “psicoanalisi” come fenomenologia, dal momento in cui essa non riesce ad andare oltre la semplice descrizione dei fatti psichici coscienti.
È interessante notare come questa concezione della malattia mentale, come forma di esistenza e libertà, sia stata presente nell’antipsichiatria. Basaglia, che ha introdotto in Italia le idee dell’antipsichiatria, si era dedicato allo studio della fenomenologia. Mettere tra parentesi la malattia mentale, la sospensione del giudizio, l’epochè di Husserl, voleva dire infatti che i sintomi della malattia dovevano essere dapprima intesi come la risposta naturale ad una violenza ambientale che doveva essere eliminata, e che solo in quest’ottica la parentesi poteva essere riaperta.
Anche Laing e Cooper hanno una formazione fenomenologica.
In L’io diviso Laing adopera i termini “schizoide” e “schizofrenico” in senso fenomenologico-esistenziale. Le cose dette e fatte da uno schizofrenico, dice, possono essere capite solo se si comprende il loro contesto esistenziale.
Cooper nel 1978 pubblica Il linguaggio della follia in cui sostiene che la follia è una proprietà sociale di cui siamo stati derubati: dobbiamo riappropriarcene politicamente perché possa diventare creatività e spontaneità in una società trasformata.
Sul filone fenomenologico-inglese si innesta dagli Stati Uniti il contributo per l’antipsichiatria di E. Goffman e T. Szasz.
Per Goffman il folle è una persona che avendo causato nella società dei guai, spinge qualcuno ad “intraprendere un’azione psichiatrica” contro di lui. Ciò porta al ricovero coatto che ha implicita la definizione di malato di mente. Il folle è la vittima, lo psichiatra l’aggressore; il manicomio viene così svelato nella sua logica di essere a favore della società e contro la follia.
I. Szasz, invece, tenta di demolire il concetto stesso di malattia.
Nel 1961 pubblica Il mito della malattia mentale dove sostiene che la malattia mentale è un’invenzione sociale per espropriare uno spazio di libertà, non gradito al potere. La categoria del folle, suddivisa nella complicata nosografia clinica, sarebbe pura finzione e il termine malattia mentale, una metafora.
Nel 1956 Gregory Bateson pubblica Verso un’ecologia della mente dove appare il termine “doppio legame”. Con esso si intende un rapporto nel quale all’individuo coinvolto vengono inviati contemporaneamente messaggi di due tipi, di cui uno nega l’altro senza che egli sia in grado di dare una risposta.
L’ipotesi di Bateson è che in una situazione di doppio legame, la capacità di comunicare diminuisce fino a cessare. La schizofrenia non sarebbe altro, allora, che un disturbo della possibilità di comunicare che sfocia nel delirio e nella dissociazione verbale.
Il freudismo e la fenomenologia, da punti di vista apparentemente diversi, hanno così cercato di distruggere l’identità dello psichiatra, attaccando l’oggetto del suo interesse, la persona malata, intendendola come realtà incurabile e inconoscibile o addirittura come realtà inesistente. È la concezione dell’inconscio originariamente ammalato che ha portato la psichiatria a girare intorno a se stessa senza via di uscita. Riprendere ora la ricerca alla luce delle nuove scoperte sull’inconscio, è uno storico superamento del passato, una separazione che ripropone uno studio del tutto nuovo della psicopatologia.

Messaggio del 23-11-2010 alle ore 16:08:36
troppo lungo

io credo che per esprimere un pensiero siano sufficienti dieci parole, al massimo dieci righe, così non ti leggerà mai nessuno.

ti chiedo, se possibile, fai un riassunto che non superi le 5 righe e ti risponderò.

grazie
Messaggio del 23-11-2010 alle ore 16:31:06
Ognuno fa quello che può......
Messaggio del 23-11-2010 alle ore 16:37:51
Capitolo 2

SIENA, SULLA RIVA DEL GIORDANO

«Dovrò paragonarti a un giorno d’estate?
Tu sei più amabile e più struggente...»
WILLIAM SHAKESPEARE

«Ti ringrazio di avermi creato e fatto cristiano.»
PREGHIERA TRADIZIONALE

«C’è sempre per voi giovani una guerra cui andare.
C’è un mondo da conquistare con altro che il cannone...
Un mondo in cui si può chiamare ogni cosa col suo nome.»
LUIS ARAG0N

Nella vita — fra persone di mondo — si usa indossare una faccia «abituata». Come una divisa da vigile urbano (un tale che si occupa solo delle «regole» dell’andare e non di dove si stia andando). Col tempo ogni divisa si usura, come un vecchio impermeabile sgualcito. Ma l’anima si nasconde sempre meglio, si anestetizza e la monotona pioggerella dell’esistenza quotidiana non le entra nelle ossa (perché l’anima ha la sua ossatura, che si rafforza o si indebolisce, a volte fino a non reggere più il peso di sé).
Specie in una città sonnolenta come Siena, non proprio sazia e disperata come nei racconti di Federico Tozzi, ma teatrale e compiaciuta. In fondo «la vita è una mascherata e questo per te è fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti... in questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio.., infatti non sei nulla» (Kierkegaard).
Ci scaviamo nascondigli — spesso dotati di tutti i comfort — e ci barrichiamo lì potendo così discettare di tutto senza «conoscere» niente. Guai a essere autentici:
potrebbe sembrare debolezza, vulnerabilità. Abbiamo un’opinione e tanto basta, ma non bisogna lasciarsi ferire da ciò che accade. A volte però ci sono attimi, accadono episodi che ci fanno trovare di colpo all’aperto: meravigliano, commuovono, interrogano, come quando eravamo bambini e non avevamo ancora cominciato a recitare.
Da bambino portavo calzoni corti. Magro, sorriso pronto, grandi croste alle ginocchia per le cadute (mai posseduta però una bici mia), capelli ribelli che sembravano pettinati con i petardi, ero tutt’uno con il pianeta Terra (anche in senso igienico). Se nasci e cresci nella campagna del Chianti, giuro che a dieci anni sei già immerso nella filosofia senza saperlo. Ne conosco là di filosofi contadini che — a sentir dire di Hegel — lo considerano un vecchio bischero.
Si assiste all’epifania delle cose, proprio come accade nei film (che poi ho amato visceralmente) di Andrej Tarkovskij: «L’epifania mette al posto dell’idea delle cose, lo choc della loro scoperta sensibile; è un fenomeno concreto, raro o banale e allo stesso tempo quasi magico: rapimento, annunciazione, trasfigurazione. Nello Specchio grandi folate di vento improvviso, il vetro della lampada che rotola, l’alone lasciato da un bicchiere da tè che subito evapora, la biancheria che si gonfia, la lampada che si spegne negli spasimi, le mani traslucide, fosforescenti perché tengono in mano una luce, la brace che sembra dotata di vita: tanto appare sensibile il loro respirare all’unisono con l’alito del mondo».
Così è il mondo. O almeno appariva a me dal fondo della campagna toscana. Si vedeva il cielo — quando soffiava il vento ad alta quota — in perpetuo movimento come il mare, sembrava vivo, dava liquidità a tutto il cosmo e illuminava le nostre facce di meraviglia. Da ragazzi in quel cantuccio dell’universo, nelle notti più chiare, ci divertivamo a esplorare le stelle. M’intrigava anche la faccia della luna, quell’espressione sbigottita o assorta. Si faceva galoppare la fantasia dietro alla volubile allegria delle nuvole inseguite, sbrindellate e modellate dai venti.
Quei vapori sprigionati dagli oceani e dalle foreste galleggiavano su di noi come immense mongolfiere bianche. E anche noi nuotavamo nell’aria, in un mare di odori terragni. Soprattutto a maggio quello delle ginestre e l’aroma alla camomilla di un enorme tiglio al centro del paese. Poi l’estate assordante di cicale che solo Vivaldi sa compagne di merende dell’estasi e del deliquio. A ottobre invece l’odore del mosto che dai campi, dai carri pieni d’uva e dalle cantine, si spandeva per le vie e per la campagna del Chianti, nella lieve conca fra Castellina e Vagliagli, andava a combinarsi con immensi tramonti infuocati sul Montemaggio, dove stanno Monteriggioni e San Gimignano. Tutti i colori sapevano di vino.
Travolgente come un fiume in piena era l’odore della terra e dell’erba bagnata dopo gli acquazzoni. Come la pelle e il profumo di una persona amata o misteriosa. Era familiare e sensuale il contatto con la vegetazione. In giugno la nostra avventura siderale era accompagnata da un’orchestra di grilli, intere nazioni nascoste nel grano (perché sono bestiole discrete e modeste, ma chiassose). In lontananza l’eco dei latrati di qualche cane sospettoso o geloso della nostra allegria randagia. Guardavamo per aria la Via Lattea, compitando le costellazioni e — quando la stagione permetteva di rubarle — mangiavamo ciliegie sputando noccioli verso Betelgeuse.
Tutto l’universo sembrava a portata di mano, raccolto e ordinato come l’interno di una cattedrale, rapidi i nostri occhi e le nostre risate, e tutto era così familiare e amico che anche far la pipì da un albero era una gloriosa e sacrosanta partecipazione al millenario rito naturale che si celebrava nel cosmo. Ma liturgia ancor più bella si svolgeva le sere di maggio: c’erano i grilli, il cuculo e la luna piena che illuminava la strada bianca, io stavo a volte in braccio a mia madre, piccola grande donna, e tutti, madri e figli, andavamo fino alla pieve di Petroio per recitare il rosario. Traversando un mare di pollini che galleggiavano in aria, come fossimo in un acquario. Mi piaceva quella neve calda di primavera.
La sera «a veglia», con il sottofondo dei grilli, si sentivano storie di paura e storie da ridere. Si parlava della bisnonna morta giovane in manicomio (non perché pazza, ma perché povera) e dell’altra bisnonna francese (forse di origini ebraiche) che aveva sposato il bisnonno col padre sfortunato: quello che si era ridotto in miseria in una notte per gioco.
Mio padre, che, come mio nonno, aveva passato decenni in miniera, da quando aveva quattordici anni, mio padre sindacalista cattolico, pittore, poeta, uomo libero, forte e coraggioso, uno fra i pochi cattolici con l’orgoglio e la libertà di esserlo in una terra completamente rossa, mi portava con sé a Firenze a comprare colori a olio e tele. Amavo i suoi libri d’arte da cui copiavo specialmente Parmigianino e Botticelli.
Mi ricordo il lungarno subito dopo l’alluvione del ‘66: pieno di fango, come una città bombardata. E ricordo soprattutto le sconvolgenti immagini televisive della Firenze travolta dalle acque con la colonna sonora di Bach, la Thccata efliga in re minore. Per me, bambino, fu una folgorazione.
Ero euforico quando il parroco don Pierino m’insegnò a posare le mani sulla tastiera, in chiesa (più tardi andai a studiare pianoforte). A dieci anni trascorsi la mia prima notte insonne: era estate. Tutti parlavano dello sbarco sulla luna. Io stavo col naso in su e ascoltavo da fuori il televisore: col binocolo di mio fratello ero incantato nell’esplorazione della toponomastica lunare. Mare della Tranquillità, il nome che mi aveva più suggestionato.
Il giorno dopo mi colpì una pagina di giornale. C’era una poesia (o così credevo: era il salmo 8). Accanto a un’immensa foto in bianco e nero del primo uomo sulla luna, diceva: «O Signore, nostro Dio, / quanto è grande il tuo nome su tutta la Terra: / sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. / Se guardo il cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissate, / che cosa è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi? / Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli...».
Però il lieto fine delle imprese umane appresi poi che non era affatto assicurato. Spesso l’epilogo era tragico, come fu per l’Apollo 13, ma io non lo sapevo. Mi venne questo sospetto anche leggendo le storie di esploratori. La più dolorosa era quella di Henry Hudson, che all’inizio del ‘600 si lanciò in avventurose spedizioni per trovare un passaggio artico a Nord-Ovest e, per un ammutinamento, fu lasciato su una scialuppa alla deriva con il figlioletto e pochi compagni. Dunque poteva accadere?
Sì, non era tutto solido e gaio. C’era un veleno che scorreva nelle vene del mondo. E c’era il tarlo della fugacità delle cose e degli esseri a piegare le ginocchia in certi momenti. La scoperta della morte per un bambino passa anche attraverso eventi minori, magari la morte del proprio cane. Cose simili mi annichilivano.
Con gli anni un indecifrabile struggimento si insinuava sotto la pelle. Pian piano cominciavamo a chiederci «a qua! suo dolce amore / rida la primavera». E se davvero avesse una parentela — come dicono i poeti — con la nostra adolescenza. Credo che abbiano solo questo in comune: somigliano a un sogno ingarbugliato dove ti sembra di essere stato convocato a una festa per te, ma non sai da chi, dove, con chi e non si trova la strada e ci si perde non riuscendo più a ricordare neanche il proprio nome, né la via di casa. Con l’amara sensazione di mancare a un appuntamento, all’Appuntamento con la vita. La quale — crudele — sembra mantenere le sue promesse con tutti eccetto te. Non sai che è per tutti così.
Forse per questo è facile intrupparsi con carovane di passaggio, cercare una rassicurazione nel rispecchia- mento in altrui finte felicità, in recitate solitudini, mascherarsi dietro una corazza di aggressività, orientandosi con altrui spaesamenti, recitando come comparse copioni tutti eguali, preconfezionati, credere vertiginosa trasgressione il monotono conformismo, libertà l’intima coazione e la vita «sciuparla / nel troppo commercio con la gente / con troppe parole in un viavai frenetico / fino a farne una stucchevole estranea».
E certamente dimenticare le stelle, non vederle neanche più. Non sentire il vento dell’estate, sulla faccia, come una tenera carezza dell’universo. Perdere il trono principesco che si aveva sul cosmo finché si era bambini. Allora ci s’innamora della propria ribellione o della propria giovinezza o della parte che si è scelta, si è in cerca di un autore che ci scritturi e ci si avvilisce facilmente temendo di non essere all’altezza.
Anche a sedici anni — non solo a quaranta — si sentono le cose della vita «rotolare come sassi, in un gioco del caso che per consolazione, e per nostalgia dei romanzi, chiamiamo destino». Si cerca riparo e calore occasionale come noleggiare a giornata un senso per la vita — nelle note e nelle parole di qualche canzone.
Quando si è più grandi, come scippatori di provincia, si rubacchiano emozioni nei versi dei poeti. Recitare perfino disperazione, ma quasi senza guardarsi in faccia, e dentro, per non perdercisi, e poi farsi dare un passaggio sulla sciocca allegria del mondo. E dirsi con le parole altrui per pudore. O per incantare ragazze, o perché sono più belle e facili. Cosicché oggi posso raccontarmi i miei anni come fossero un’antologia letteraria. Del resto era l’unica terra, la poesia, dove potessimo mostrarci per quello che eravamo senza correre pericoli.
«Perché pare che tutto ci voglia nascondere. Vedi, I gli alberi sono, le case / che abitiamo reggono. Noi soli / passiamo via da tutto, aria che si cambia. / E tutto cospira a tacere di noi, / un po’ come si tace / un’onta, forse, un po’ come si tace / una speranza ineffabile».
Sono stato adolescente e giovane negli anni Settanta. Bello sì, ma non facile. Eravamo partiti col treno del risentimento ed eravamo finiti su un binario morto, che non andava da nessuna parte e si perdeva fra le «erbacce». Mi agitai variamente, per brevi periodi, fra gruppetti assortiti, di sinistra. Da Lotta continua ai Cristiani per il socialismo. Era, quella, «un’epoca nella quale la maggior parte dei giovani avevano perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per cui i loro padri l’avevano posseduta: senza sapere perché».
Poi mi ribellai, abbastanza presto, al grigio conformismo di quei giorni. Mi immersi — vaccinandomi per sempre — nell’oceano dell’orrore del comunismo leggendo un breve e fiammeggiante pamphlet di Aleksandr Solzenicyn, Vivere senza menzogna. E poi il suo esplosivo e immane Arcipelago Gulag mentre lo espellevano dal suo Paese e inutilmente io m’illudevo di trovare la mia stessa indignazione in alcuni compagni di prima. Niente, se ne facevano beffe, quei poveretti. E amai allora la mia — quasi solitaria — ribellione alla nostra generazione, innamorata ipocritamente della propria presunta innocenza, mentre professava ideologie crudeli.
Trovavo rivoltanti quegli astrusi teoremi rivoluzionari che venivano proclamati da tanti con la spavalda famità con cui tutti noi indossavamo le divise d’ordinanza: giacconi militari, zaini, maglioni larghi. I miei eroi di allora, sedicenne, erano persone come Jan Palach e Vladimir Bukovsky giovane e già leggendario dissidente russo che teneva testa ai plumbei aguzzini di Breznev perfino nel manicomio criminale, dove subiva sevizie pazzesche. Volantini, assemblee, grida, polemiche, discussioni, minacce, incazzature. Era pure divertente. Anche se un po’ rischioso.
Credo che non si sia conosciuta la felicità. Eravamo — semmai sovreccitati, ansiosi, con qualche cattiveria e violenza di troppo. Anche le risate avevano qualcosa di congestionato e di fasullo, sebbene ce la mettessimo tutta per divertirci, quasi come i forzati dello spasso del sabato sera che irridevamo. Universalmente e brechtianamente deplorata era la poesia sui ciliegi in fiore e gli occhi di una donna. Quasi esecrabile come «il passato» e la Chiesa.
Quando non era una seccatura clericale (pallosa come solo certi preti sanno essere), il cristianesimo era — nel migliore dei casi — un problema, o una storia del passato, lontana dalla nostra vita reale come da lontano ci guardava la nostra infanzia cattolica. Chi, nel volontarismo dei buoni sentimenti, del fare-del-bene o del «gruppo-giovanile-della-parrocchia», si ostinava a «credere di credere» inciampava sempre in un vuoto: il suo.
Coglieva nel segno una pagina di Cesare Pavese: «Non è facile vivere come se quello che accadeva in altri tempi fosse vero. Quando ieri ci ha preso la nebbia sugli incolti e qualche sasso rotolò dalla collina ai nostri piedi, non pensammo alle cose divine né a un incontro incredibile, ma soltanto alla notte e alle lepri fuggiasche. Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata». Però quella pagina dei Dialoghi con Leucò si conclude, poche righe dopo, con l’allusione inquieta alla «cosa» che «abbiamo perduta». Quale? Dice Pavese: «Quei loro incontri...».
Già, per una questione di incontri, lievi, luminosi, sorprendenti, fece irruzione nella mia vita un’altra vita. Un’altra dimensione. Un altro mondo.
Scoprii il cristianesimo. Inimmaginabile. La cosa più bella dell’universo.
Per incontri (che a me parevano) fortuiti e per una fragile trama di amicizie. Dove si aveva la sensazione di dire «io» in un modo diverso, o per la prima volta, e anche «tu». Scoprire di colpo di essere vivi e tornare ad accorgersi perfino degli alberi, dei venti e delle stelle.
Quel 16 gennaio del 1977, era una domenica mattina, le dodici circa (guarda caso io sono nato una domenica mattina alle 12, di un 18 gennaio), quella mattina — dicevo — non incontrai degli eccentrici, dei fissati o della gente fuori dal mondo come sono di solito certi «devoti». Ma persone normali, semmai solo più vivaci e intelligenti. Così mi parvero subito Dado e Andrea, due ragazzi di Comunione e Liberazione, oggi missionari laici nelle periferie di Lima, in Perù. Ecco, c’era in loro qualcosa di indefinibile. Qualcosa di speciale nello sguardo, anzi in tutti gesti, in tutto. Erano «strani», ma perché più umani, più tutto.
C’è un’altra pagina di Pavese che descrive bene il mio stupore di allora a sentirli parlare: «Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva, O come il vedersi d’improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire “Chi è quest’uomo?”».
Imbattersi in persone che non fanno progetti su di te, ma amano il tuo destino più di quanto lo ami tu, non è cosa di tutti i giorni. Per me fu una folgorazione. Non si ha il tempo né la voglia di tornare ai pensieri di Yesterday. Era evidente, all my troubles seemed so far away. Un bel giorno uno ti chiama per nome e tu resti lì come uno stoccafisso, perché non sapevi di essere conosciuto dal Cielo, che venisti al mondo per conoscere Chi ti sta cercando dall’eternità.
Avevo trovato «l’isola che non c’è». La mia. Esattamente quella che aspettavo. Lasciai tutto quello che facevo e mi buttai in questa nuova amicizia. In una nottata mi tuffai nei libri di don Giussani. Non so dire cosa capii, ricordo però che mi commuoveva quando descriveva Gesù. In quei giorni scoprii un certo gusto del vivere. Eppure erano cose semplici: mangiare insieme in pizzeria, la curiosità per qualunque libro o autore o corrente — dai Francofortesi a Merleau-Ponty e Gramsci agli strutturalisti e Freud — e poi le schitarrate in Piazza del Campo. Oh, finalmente — signori miei — l’amicizia!
Irruppi nella vita come Alessandro Magno in Oriente. Negli anni dell’università — fatta con professori tutti rigorosamente di sinistra (quello preferito, Franco Fortini, di estrema sinistra) — divampò un contagio di amicizie attorno a noi nella piccola città turrita. Al mattino la recita delle Lodi insieme, poi i corsi, giudicavamo tutto quel che accadeva: dalla facoltà al mondo. Scoprendo — nella conoscenza di Gesù — la nostra personale vocazione. Eravamo un vulcano di idee e iniziative di cui parlava (preoccupata) tutta la città del doroteismo piccista. Gli altri, i movimenti di sinistra, ancora a «portare avanti il discorso» con le litanie dei «cioè» e «nella misura in cui»; noi con gli occhi aperti sulla realtà, sulle cose semplici, a far cooperative librane, abitative e poi fraternità, grandi dialoghi sulla vita e allegria. Perché «risposte se ne danno esclusivamente se si mette la testa sulle spalle di Cristo». Tendenzialmente casti, anche quelli dal passato più smanioso, sapevamo che la verginità è l’unico autentico modo di possedere il mondo, una radicale povertà che sa fruttare il centuplo, come insegna la storia di San Francesco, in letizia. La verginità è fecondità.
Ci toccavano minacce, ci strappavano manifesti, ci insultavano, ci davano dei «fascisti». A volte temevo per chi di noi veniva sorpreso isolato, specialmente per la ragazzina dal volto dolce che sarebbe diventata mia moglie a cui — sprofondata nei suoi studi di arte trecentesca — sfuggiva l’assurdità della situazione (suo nonno era stato uno dei primi sindaci socialisti, in Italia, poi perseguitato dal fascismo per tutto il ventennio e incarcerato varie volte; suo padre partigiano e suo zio finito a Dachau: eppure anche lei era insultata come «fascista» dai nuovi squadristi solo perché era cattolica, ciellina).
Furono giorni felici; e oggi sono ancora più intensi e vivi. Ma il periodo fra i nostri diciannove e i nostri ventitré anni, ci ha costruito e formato, è stata la nostra accademia di West Point. Da allora ho ripreso l’esplorazione. Tutto ha cominciato a parlarci, le pietre, i palazzi merlati, le torri, le metope, i capitelli, gli antichi affreschi, gli archi, le biccherne, con la voce di generazioni e generazioni cristiane. Commoventi specialmente le pietre su cui hanno camminato i piedi veloci e lievi di Caterina dal cuore in fiamme, e dove aveva risuonato la voce forte di Bernardino, entrambi nell’ospedale più antico d’Europa: sono nato proprio lì.
E lì dinanzi al Santa Maria della Scala, la facciata del Duomo come una summa di marmo, dove Nicola e Giovanni Pisano e Arnolfo fanno vorticare la grande attesa di tutta la storia umana (i filosofi greci, le sibille, e poi i profeti della Bibbia) tutto attorno a una piccola figura di ragazzina, l’adolescente stupita che è sul pinnacolo del portale centrale: Maria. Tutta la storia umana attendeva il suo «fiat». E poi la conchiglia del Campo che rappresenta la forma del mantello della Madonna della Misericordia e la corsa folle dei cavalli per l’Assunta e la Madonna di Provenzano e le due Maestà... Un’intera città scolpita per una donna, la Donna, una città dove tutto parla di lei, del suo sguardo: «Li occhi da Dio diletti e venerati».
La curiosità tradotta in voraci letture — trovandomi nella carta stampata, dopo la laurea — ha spaziato per biblioteche e continenti, per valli e poesie, ha messo il naso in qualsiasi disciplina. La mia esplorazione è tornata a volare fino alle stelle del destino. Quelle di Leopardi che somigliano ai globi infuocati nella notte palpitante di Van Gogh. Quelle del Cantico di frate Francesco e della Divina Commedia: «l’amor che move il sole e l’altre stelle».
Dante fu la scoperta dei diciott’anni. Bruciare settecento anni in un soffio, sentire l’avventura di quel giovane fiorentino viva ora, lo smarrimento e la disperazione di quella foresta oscura come una notte moderna, la nostra. E a trarlo dall’oscurità occhi celesti di ragazze e sorrisi e amicizia e dolore e festa, e peccato e perdono. Gli stessi che noi conoscemmo. Il sorriso dell’universo? Era fra noi. Ecco perché la cantica che amavamo di più era il Paradiso (di solito incompreso). Sapevamo bene di cosa stava parlando Dante. «Trasumanar significar per verba I non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.»
Capivamo sui suoi endecasillabi grandiosi la razionalità amorosa che salva tutto l’universo dall’assurdo e che sommuove le stelle e cioè anche noi (fatti di stelle), l’amore che ci agita dentro.
Immani forze cosmiche muovono le galassie da quindici miliardi di anni. Sostiene Dante che tutto il cielo — proprio come lui, adolescente, per Beatrice — arde e corre per l’ignoto amore. È intrigante pensare che gli astri abbiano iniziato la loro corsa dalla notte dei tempi «mosse dall’Amore» (viene la voglia di conoscere un Amore così grande e fedele da smuovere le galassie). Scrive Stephen Hawking: «Fino a oggi la maggior parte degli scienziati è stata troppo occupata nello sviluppo di nuove teorie che descrivono che cosa sia l’universo per porsi la domanda perché?».
Eccolo il perché: l’Amore. Perché se Dio è Trinità, significa che la radice dell’Essere è amore. Curiosando — da orecchiante — fra le pagine degli scienziati mi ha sorpreso trovare dappertutto le innumerevoli, commoventi impronte lasciate, di passaggio, da quell’Amore.
Messaggio del 25-11-2010 alle ore 17:07:44



non è sufficiente quello che fai
Messaggio del 25-11-2010 alle ore 20:07:31
Con 40 utenti connessi su 10 che scrivono, penso che sono in 30 coloro che leggono. O può essere che mi sbaglio...
Messaggio del 14-12-2010 alle ore 22:01:17
Gesuita romano da oggi «Giusto tra le nazioni»

◆ La medaglia di «Giusto fra le Nazioni» viene consegnata oggi alle 10.30, presso la residenza gesuita di via degli Astalli a Roma, alla memoria di padre Raffaele de Ghantuz Cubbe. A consegnare il riconoscimento al nipote Francesco de Ghantuz Cubbe sarà, per l’istituto Yad Vashem di Gerusalemme, l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Mordechay Lewy. Padre Cubbe era nato a Orciano Pisano nel 1904 ed è morto a Roma il 12 agosto 1983; entrato giovanissimo nella Compagnia di Gesù, ricoperse l’incarico di rettore del collegio di Mondragone presso Frascati dal 1942 al 1947 e fu vice­presidente della Pontificia Opera di Assistenza, voluta da Pio XII per sostenere le vittime della seconda guerra mondiale. Con l’aiuto dei confratelli, padre Cubbe a rischio della sua stessa vita nascose tra gli alunni di Mondragone tre bambini ebrei, due dei quali saranno presenti alla cerimonia odierna.
Messaggio del 14-12-2010 alle ore 23:41:22
Mo se ne va san tumass
Messaggio del 15-12-2010 alle ore 00:11:43
Ma in sintesi... che vuoi di' ?
Messaggio del 15-12-2010 alle ore 11:25:25
Ma si puo' occupare il database di lanciano.it per 3/4 mb di testo, quando basterebbe mettere un link? Questo secondo la netiquette tanto cara ad un clericale di mia conoscenza si chiama flood
Messaggio del 15-12-2010 alle ore 16:42:16
come non quotare il sig. Casa!
Messaggio del 15-12-2010 alle ore 19:03:42
uana, mi sa ca ti ci vò nu mese di ferie a me na settimana nin m'avaste manche pe truvà lu curagge di legge
Messaggio del 15-12-2010 alle ore 21:44:06
Proverbio ortonese: ti san Tumass a du metr t prgà san Giuvann!
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 05:42:22
Black & Decker
Tutte le volte che ragionavo con qualcuno, il prof Gatto si trapanava il naso alle mie spalle davanti ad un pubblico di porci. Voleva far credere a tutti che ragionavo male, perché non facevo sesso. Ma sia io, sia lui che gli altri porci di Grandissima sapevamo benissimo che ero meglio di loro (altrimenti non sarebbero stati invidiosi di me!). Infatti se facciamo alcuni esempi scopriamo che anche Gesù non faceva sesso, come non lo facevano Maria, Giovanni battista, Giovanni l’evangelista, Francesco d’Assisi, Chiara d’Assisi, Caterina da Siena, Giovanni di Dio, Maria Goretti, Benedetto da Norcia, padre Pio, madre Teresa, Leone XIII, Pio X, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Anche Leonardo da Vinci era vergine, ma non mi sembra che questi personaggi fossero degli stupidi. Forse è stupido il prof Gatto... Non lo so: lo lascio giudicare a voi! Se provassi a fare qualche paragone, avrei il piacere di farvi scoprire che Gesù Cristo ragionava molto meglio di Rocco Siffredi; che la Madonna ragionava molto meglio di Moana Pozzi; che Giovanni l’evangelista ragionava molto meglio di John Holmes; che Francesco d’Assisi ragionava molto meglio di Marco Pannella; che Chiara d’Assisi ragionava molto meglio di Margherita Hack e che il prof Gatto si trapanava il naso con una violenza inaudita...
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Editato da Dicembre 2010 il 31/12/2010 alle 05:45:18
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 13:29:26
Ma che cavolo ne sai tu se Gesù faceva sesso o meno!? Ma che cavolo ne sai tu di quello che faceva Maria con Giuseppe!'? Ma che cavolo ne sai tu se sono pure esistiti veramente!? Ma finiscila di di ammorbarci con 'ste favolette! OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!! Siamo nel 2011 e tu ancora non riesci a capire che le vicende umanizzate dei divini narrate dalle sacre scritture non sono altro che un modo per inculcare nelle menti primitive concetti che altrimenti non capirebbero! Ma oggi, nel 2011, ha ancora senso? Possibile che non ancora ci si domandi "cos'è veramente Dio" senza passare dall'immagine di un vecchio con la barba seduto su un nuvola?
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 13:30:23
E adesso non tirate fuori il "Dio concetto filosofico"... i concetti lasciamoli agli umani!
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 13:57:23
ma perchè non sapete rispettare le opinioni altrui? avrà anche il suo modo di fare esempi ma si tratta sempre di un opinione e va rispettata, anche perchè lui non aggredisce la vostra. cmq dicembre vedo che sei ferrato in materia
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 15:25:05
Eh, sì!
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 15:54:54
hai capito quale?
Messaggio del 31-12-2010 alle ore 16:26:41
Ho capito, ho capito...
Messaggio del 05-01-2011 alle ore 21:07:37
Avvio
Grandissima è una cittadina abruzzese di trentamila abitanti. L’aristocrazia cittadina è composta da sei famiglie ricche, da sessanta famiglie benestanti e da seicento famiglie perbeniste. Queste ultime si sono arricchite accarezzando i politici. La maggioranza dei grandissimi non dà fastidio a nessuno. Ma le seicento famiglie lecchine, rompono le scatole a tutti, perché si sono arricchite illecitamente. Sono una marmaglia di scostumati che girano con le BMW e le parcheggiano nelle aree riservate agli invalidi, perché si arrogano il diritto di non rispettare nessuno. Sono un branco di sciacalli che fingono di rispettare gli immigrati e ricattano duramente i drogati autoctoni. Ipocriti! C’è una sola differenza tra un perbenista e un tossico: mentre il tossico si droga di meno, il ruffiano si droga di più.
Quelle seicento famiglie di basso profilo sono i pazzi più pericolosi di Grandissima. Sono quei malati di mente che pensano solo ai soldi e, per rubarli nel modo più legale possibile, li rubano allo stato con il consenso dei politici. Erano d’accordo prima e continuano ad esserlo ora.
Questa situazione va avanti da diversi decenni, ma negli anni ottanta era al massimo del suo splendore. In quel periodo le seicento famiglie più moleste di Grandissima frequentavano le parrocchie più “in” della cittadina e, per fare bella figura, usavano i loro figli come bigliettini da visita da presentare ai politici. I loro ragazzi non gradivano essere trattati in quel modo e per ammazzare il tempo bivaccavano nella sacrestia della Basilica e commettevano i gravi reati ai danni dei più deboli e degli indifesi, che osavano frequentare la “loro” parrocchia.
«Oggi il padre di Matteo inaugura la pizzeria.» «Chi è Matteo?» «È quello scemo che abita qui vicino.» «Oh, Matteo! Povero scemo...» «Povero pazzo, vorrai dire.» «Com’è Matteo?» «Non lo so!» «Se non lo sai tu...» «Hi! Hi! Hi!» «Che rabbia fratelli miei, quel bamboccio è un ragazzo libero, mentre noi...» «Che facciamo? Che facciamo questa sera?» «Andiamo a distruggergli la pizzeria.» «Come?» «Non lo so!» «Come gliela dobbiamo distruggere?» «Ho detto: non lo so!» «Zitti, sta arrivando suo padre!» «Fate finta di niente.» «Arriva...» «Ragazzi oggi siete tutti invitati all’apertura della mia pizzeria.» «Oooh, che bello! Ci voleva.» «Non possiamo mancare!» «Se venite, mi fate contento.» «Certo che verremo!» «Non possiamo mancare.»
Erano invidiosi di me, ma quella sera vennero tutti all’inaugurazione della pizzeria. Quando li vidi mi spaventai di loro. Sapevo che erano cattivi e gli sbarrai la strada. Ma quei miserabili ci rimasero male e fecero un patto tra di loro. «Dobbiamo fare un giuramento: gliela dobbiamo far pagare!» «Sì facciamogliela pagare!» «Senza pietà!» «Senza nessuna pietà!»
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Editato da Dicembre 2010 il 05/01/2011 alle 21:10:50
Messaggio del 06-01-2011 alle ore 23:07:09
Mr Home,
il cardinale Angelo Scola dice che dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino Dio è stato assente nella vita dell'uomo, tanto che non veniva neanche nominato. Ma dal 1989 ad oggi assistiamo progressivamente all'ingresso di Dio nella vita sociale dell'uomo grazie all'attenzione che gli riserva i mass media. Oggi come oggi non passa un TG che non parla dell'Iraq, dell'Iran, dell'Afganistan, di Al Qaida, della questione mussulmana, degli immigrati, delle aggressioni ai copti in Egitto o ai cristiani in India, in Turchia o in Nigeria... Questa oggi è la voce di Dio e ne parliamo ogni giorno anche su questo sito... Tanto per rispondere alla tua domanda: se parlare di Dio nel 2011 ha un senso? Avrà sempre un senso sia che abbiamo fede sia che non ne abbiamo la questione di Dio rimarrà sempre aperta. Non ci sarà mai (e non c'è mai stato) un confine culturale oltre il quale non si crede, ma tutto il contrario... Oggi sono moltissimi gli storici contemporanei e medievisti che riconoscono storicamente sulla base dei documenti che la civiltà occidentale è la più progredita del mondo, grazie ai fondamenti cristiani... E dire che secondo alcuni teppisti saremmo ignoranti perché (a loro dire) crediamo nelle favolette. Sai benissimo che chi non ha fede rovescia tutti i valori e considera vero ciò che è falso e viceversa. Per questo vede l'ignoranza in chi crede e si considera colto, perché ignora di essere ignorante... La mancanza di fede non comporta solo una morale ristretta che schiavizza, ma comporta anche una capacità di amare e di ragionare in modo ridotto rispetto a chi crede. L'uomo che non crede in Dio vede la realtà dal buco della serratura e (come puoi vedere...) si fa sempre le stesse domande alle quali non sa rispondere, perché non ha gli strumenti per poterlo capire. E' come essere geologo. Il geologo capisce benissimo la sua materia, perché l'ha studiata bene: ha fatto un percorso scolastico e universitario che lo ha portato ad una conoscenza abbastanza completa della sua materia. Ma nonostante tutto gli rimane difficile far capire la geologia a chi non l'ha studiata e la stessa cosa capita a chi ha fede. Non ti posso spiegare che cosa significa credere, perché rifiuteresti quello che dico, ma se ti convertissi capiresti tutto e dirai come gli altri fedeli: sono sempre stato cristiano, solo che prima non lo sapevo... Quel giorno (come cita il cardinale Scola) ti accadrà come Neo nel film Matrix e sentirai la voce di Morpheus che ti dice: benvenuto nella realtà!

Rifiutare la realtà significa essere pazzi, perché come ho già detto altrove: gli schizofrenici sono schizofrenici perché rifiutano la realtà! Infatti nel linguaggio biblico i non credenti vengono definiti "stolti" che significa "pazzi" perché "solo un pazzo può rifiutare la realtà" (Aristotele). Quando Gesù era sulla terra la medicina ebraica non era in grado di spiegare le malattie mentali e considerava indemoniati i malati di mente... Cristo per dimostrare di essere il Figlio di Dio li liberava da quelle brutte malattie (che come ho già detto: erano malattie mentali) e li riportavano sulla buona strada. Per questo, le malattie mentali sono considerate ancora oggi un fenomeno religioso dai ricercatori di psicologia, e possono essere guarite ripristinando nella mente dei pazienti la cosa più razionale che c'è: il desiderio per le cose impossibili...

Lo stesso concetto lo puoi ritrovare tra i motti del 68 francese...
Messaggio del 07-01-2011 alle ore 02:02:15

... Questa oggi è la voce di Dio






Messaggio del 07-01-2011 alle ore 14:55:07
Fraintendere significa non aver capito...
Messaggio del 07-01-2011 alle ore 14:59:53
E poi quotare in modo parziale significa cambiare il significato a quello che si vuole dire...


il cardinale Angelo Scola dice che dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino Dio è stato assente nella vita dell'uomo, tanto che non veniva neanche nominato. Ma dal 1989 ad oggi assistiamo progressivamente all'ingresso di Dio nella vita sociale dell'uomo grazie all'attenzione che gli riservano i mass media. Oggi come oggi non passa un TG che non parla dell'Iraq, dell'Iran, dell'Afganistan, di Al Qaida, della questione mussulmana, degli immigrati, delle aggressioni ai copti in Egitto o ai cristiani in India, in Turchia o in Nigeria... Questa oggi è la voce di Dio e ne parliamo ogni giorno anche su questo sito... Tanto per rispondere alla tua domanda: se parlare di Dio nel 2011 ha un senso? Avrà sempre un senso sia che abbiamo fede sia che non ne abbiamo la questione di Dio rimarrà sempre aperta. Non ci sarà mai (e non c'è mai stato) un confine culturale oltre il quale non si crede, ma tutto il contrario... Oggi sono moltissimi gli storici contemporanei e medievisti che riconoscono storicamente sulla base dei documenti che la civiltà occidentale è la più progredita del mondo, grazie ai fondamenti cristiani... E dire che secondo alcuni teppisti saremmo ignoranti perché (a loro dire) crediamo nelle favolette. Sai benissimo che chi non ha fede rovescia tutti i valori e considera vero ciò che è falso e viceversa. Per questo vede l'ignoranza in chi crede e si considera colto, perché ignora di essere ignorante... La mancanza di fede non comporta solo una morale ristretta che schiavizza, ma comporta anche una capacità di amare e di ragionare in modo ridotto rispetto a chi crede. L'uomo che non crede in Dio vede la realtà dal buco della serratura e (come puoi vedere...) si fa sempre le stesse domande alle quali non sa rispondere, perché non ha gli strumenti per poterlo capire. E' come essere geologo. Il geologo capisce benissimo la sua materia, perché l'ha studiata bene: ha fatto un percorso scolastico e universitario che lo ha portato ad una conoscenza abbastanza completa della sua materia. Ma nonostante tutto gli rimane difficile far capire la geologia a chi non l'ha studiata e la stessa cosa capita a chi ha fede. Non ti posso spiegare che cosa significa credere, perché rifiuteresti quello che dico, ma se ti convertissi capiresti tutto e dirai come gli altri fedeli: sono sempre stato cristiano, solo che prima non lo sapevo... Quel giorno (come cita il cardinale Scola) ti accadrà come Neo nel film Matrix e sentirai la voce di Morpheus che ti dice: benvenuto nella realtà!

Messaggio del 07-01-2011 alle ore 16:56:02
Messaggio del 07-01-2011 alle ore 23:01:42
12/2010,


La mancanza di fede non comporta solo una morale ristretta che schiavizza, ma comporta anche una capacità di amare e di ragionare in modo ridotto rispetto a chi crede. L'uomo che non crede in Dio vede la realtà dal buco della serratura e (come puoi vedere...) si fa sempre le stesse domande alle quali non sa rispondere, perché non ha gli strumenti per poterlo capire.



Giuro, non riesco a trovare le parole per commentare queste tue affermazioni.
Messaggio del 11-01-2011 alle ore 21:47:37

Non ci sarà mai (e non c'è mai stato) un confine culturale oltre il quale non si crede, ma tutto il contrario... Oggi sono moltissimi gli storici contemporanei e medievisti che riconoscono storicamente sulla base dei documenti che la civiltà occidentale è la più progredita del mondo, grazie ai fondamenti cristiani... E dire che secondo alcuni teppisti saremmo ignoranti perché (a loro dire) crediamo nelle favolette. Sai benissimo che chi non ha fede rovescia tutti i valori e considera vero ciò che è falso e viceversa. Per questo vede l'ignoranza in chi crede e si considera colto, perché ignora di essere ignorante... La mancanza di fede non comporta solo una morale ristretta che schiavizza, ma comporta anche una capacità di amare e di ragionare in modo ridotto rispetto a chi crede. L'uomo che non crede in Dio vede la realtà dal buco della serratura e (come puoi vedere...) si fa sempre le stesse domande alle quali non sa rispondere, perché non ha gli strumenti per poterlo capire.

Messaggio del 18-01-2011 alle ore 21:44:15
Tempi, 20 dicembre 2010

Benedetto XVI tuona contro «sacerdoti» e «cristianofobia»

NEGLI AUGURI NATALIZI AI VESCOVI E CARDINALI, IL DUPLICE, DRAMMATICO, INAUDITO MONITO DI BENEDETTO XVI: «PEDOFILIA: CHIESA NELLA POLVERE PER LA COLPA DEI SUOI SACERDOTI». E IL PAPA GRIDA: «POLITICI E RELIGIOSI FERMINO LA CRISTIANOFOBIA». ECCO IL TESTO INTEGRALE

di Redazione

Negli auguri natalizi ai Vescovi e Cardinali, il duplice, drammatico, inaudito monito di Benedetto XVI: «Pedofilia: Chiesa nella polvere per la colpa dei suoi sacerdoti». E il Papa grida: «Politici e religiosi fermino la cristianofobia». Ecco il testo integrale.

Signori Cardinali,
 venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
È con vivo piacere che vi incontro, cari Membri del Collegio Cardinalizio, Rappresentanti della Curia Romana e del Governatorato, per questo appuntamento tradizionale. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, ad iniziare dal Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le espressioni di devozione e di comunione, e per i fervidi auguri che mi ha rivolto a nome di tutti. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Contempliamo come un’unica famiglia il mistero dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, come ha detto il Cardinale Decano. Ricambio volentieri i voti augurali e desidero ringraziare vivamente tutti, compresi i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, per l’apporto competente e generoso che ciascuno presta al Vicario di Cristo e alla Chiesa.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente nei giorni dell’Avvento. Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera di Avvento della Chiesa. Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.
Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”: nelle grandi angustie, alle quali siamo stati esposti in quest’anno, tale preghiera di Avvento mi è sempre tornata di nuovo alla mente e sulle labbra. Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettato. In noi sacerdoti e nei laici, proprio anche nei giovani, si è rinnovata la consapevolezza di quale dono rappresenti il sacerdozio della Chiesa Cattolica, che ci è stato affidato dal Signore. Ci siamo nuovamente resi conto di quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare in nome di Dio e con pieno potere la parola del perdono, e così siano in grado di cambiare il mondo, la vita; quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare le parole della consacrazione, con cui il Signore attira dentro di sé un pezzo di mondo, e così in un certo luogo lo trasforma nella sua stessa sostanza; quanto sia bello poter essere, con la forza del Signore, vicino agli uomini nelle loro gioie e sofferenze, nelle ore importanti come in quelle buie dell’esistenza; quanto sia bello avere nella vita come compito non questo o quell’altro, ma semplicemente l’essere stesso dell’uomo – per aiutare che si apra a Dio e sia vissuto a partire da Dio. Tanto più siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita.

In questo contesto, mi è venuta in mente una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. “Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: ‘Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!’
E proseguì: ‘Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa. Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità’. E sentii una voce dal cielo che diceva: ‘Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»’ (Mc 16,15)” (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale: PL 197, 269ss).

Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato – per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere. È questo anche il luogo per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio.

Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana. L’Apocalisse di san Giovanni annovera tra i grandi peccati di Babilonia – simbolo delle grandi città irreligiose del mondo – il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce (cfr Ap 18,13). In questo contesto, si pone anche il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre – espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto.

Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro come cammino nella formazione della coscienza. È nostra responsabilità rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità, nel contesto della preoccupazione per l’uomo, nella quale siamo immersi.
Come secondo punto vorrei dire una parola sul Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Esso ebbe inizio con il mio viaggio a Cipro dove potei consegnare l’Instrumentum laboris per il Sinodo ai Vescovi di quei Paesi lì convenuti. Rimane indimenticabile l’ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l’ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell’unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all’ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa. Così abbiamo incontrato in modo vivo la ricchezza dei riti della Chiesa antica anche all’interno della Chiesa Cattolica. Abbiamo avuto liturgie con Maroniti e con Melchiti, abbiamo celebrato in rito latino e abbiamo avuto momenti di preghiera ecumenica con gli Ortodossi, e, in manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura cristiana dell’Oriente cristiano. Ma abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso – essa, infatti, ha creato la situazione attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita l’unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale.

Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull’intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti. Per quanto riguarda i cristiani, ci sono le Chiese pre-calcedonesi e quelle calcedonesi; Chiese in comunione con Roma ed altre che stanno fuori di tale comunione ed in entrambe esistono, uno accanto all’altro, molteplici riti. Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l’altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell’umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l’ostacolo è il collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande concetto del dialogo, del perdono e dell’accoglienza vicendevole, un concetto che ora vogliamo gridare al mondo. L’essere umano è uno solo e l’umanità è una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l’uomo alla fine ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell’amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest’ora.

Mi piacerebbe parlare dettagliatamente dell’indimenticabile viaggio nel Regno Unito,voglio però limitarmi a due punti che sono correlati con il tema della responsabilità dei cristiani in questo tempo e con il compito della Chiesa di annunciare il Vangelo. Il pensiero va innanzitutto all’incontro con il mondo della cultura nella Westminster Hall, un incontro in cui la consapevolezza della responsabilità comune in questo momento storico creò una grande attenzione, che, in ultima analisi, si rivolse alla questione circa la verità e la stessa fede. Che in questo dibattito la Chiesa debba recare il proprio contributo, era evidente per tutti. Alexis de Tocqueville, a suo tempo, aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato, perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti. Solo se esiste un tale consenso sull’essenziale, le costituzioni e il diritto possono funzionare. Questo consenso di fondo proveniente dal patrimonio cristiano è in pericolo là dove al suo posto, al posto della ragione morale, subentra la mera razionalità finalistica di cui ho parlato poco fa. Questo è in realtà un accecamento della ragione per ciò che è essenziale. Combattere contro questo accecamento della ragione e conservarle la capacità di vedere l’essenziale, di vedere Dio e l’uomo, ciò che è buono e ciò che è vero, è l’interesse comune che deve unire tutti gli uomini di buona volontà. È in gioco il futuro del mondo.

Infine, vorrei ancora ricordare la beatificazione del Cardinale John Henry Newman.Perché è stato beatificato? Che cosa ha da dirci? A queste domande si possono dare molte risposte, che nel contesto della beatificazione sono state sviluppate. Vorrei rilevare soltanto due aspetti che vanno insieme e, in fin dei conti, esprimono la stessa cosa. Il primo è che dobbiamo imparare dalle tre conversioni di Newman, perché sono passi di un cammino spirituale che ci interessa tutti. Vorrei qui mettere in risalto solo la prima conversione: quella alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non escludono semplicemente l’esistenza di Dio, ma la considerano comunque come qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita. Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l’empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la “realtà” secondo cui ci si orienta. Il “reale” è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta.

La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola “coscienza” si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza – un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui. La sua terza conversione, quella al Cattolicesimo, esigeva da lui di abbandonare quasi tutto ciò che gli era caro e prezioso: i suoi averi e la sua professione, il suo grado accademico, i legami familiari e molti amici. La rinuncia che l’obbedienza verso la verità, la sua coscienza, gli chiedeva, andava ancora oltre. Newman era sempre stato consapevole di avere una missione per l’Inghilterra. Ma nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: “Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione”. Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso. Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, “coscienza” non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità.

Devo rinunciare a parlare dei viaggi così significativi a Malta, in Portogallo e in Spagna. In essi si è reso nuovamente visibile che la fede non è una cosa del passato, ma un incontro con il Dio che vive ed agisce adesso. Egli ci chiama in causa e si oppone alla nostra pigrizia, ma proprio così ci apre la strada verso la gioia vera.
“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!”. Siamo partiti dall’invocazione della presenza della potenza di Dio nel nostro tempo e dall’esperienza della sua apparente assenza. Se apriamo i nostri occhi, proprio nella retrospettiva sull’anno che volge al termine, può rendersi visibile che la potenza e la bontà di Dio sono presenti in maniera molteplice anche oggi. Così tutti noi abbiamo motivo per ringraziarLo. Con il ringraziamento al Signore rinnovo il mio ringraziamento a tutti i collaboratori. Voglia Dio donare a tutti noi un Santo Natale ed accompagnarci con la sua bontà nel prossimo anno.

Affido questi voti all’intercessione della Vergine Santa, Madre del Redentore, e a voi tutti e alla grande famiglia della Curia Romana imparto di cuore la Benedizione Apostolica. Buon Natale!
Messaggio del 18-01-2011 alle ore 23:14:49
Cento Campari
Era una mattina di luglio quando l’abbiamo vista arrivare al Red Musk Coffee Chic. Era una ragazza bella e solare, vestita con un abito azzurro. «Io sono di Bologna. Bologna è una città bellissima, è la città che amo, io sono profondamente innamorata della mia città e conoscono molte persone di Grandissima che vivono a Bologna. Mi hanno raccontato delle cose bellissime di Grandissima e sono venuta apposta per visitarla di persona. Ho sentito dire che c’è l’usanza di fare i sepolcri, che è la cosa più bella della quale mi hanno parlato. Si parte con un gruppo di dieci persone e si fa tutto un percorso ben studiato per bere dieci Campari a testa ad ogni tappa, e alla fine si va a dormire distrutti. Si parte in via Garibaldi, poi si prosegue in piazza Plebiscito, si passa sotto i portici e si gira a sinistra in via salita della posta. Poi si va in via Rimembranze, piazza della Vittoria, via Bocache, corso Trento e Trieste, via Dalmazia e finalmente si arriva all’ippodromo.» Ci disse prima di sparire nel vuoto da dove era venuta. Problemi di coscienza? Non scherziamo... Aveva contato con attenzione tutte le tappe con le dita, facendoci notare il mignolo della mano sinistra. Vi confesso che al momento non avevo capito niente, ma ricordo che avevo notato degli strani sorrisetti da parte degli uditori. Sembrava uno scherzo, ma non lo era. Ormai ero abituato all’idea che dietro ogni scherzo si celava un’amarissima cattiveria. Erano malati. Erano molto malati. Erano malati assai. Avevano la febbre! «Certo che la gente sta davvero male! Si beve cento Campari a notte per stare peggio di prima...» pensai, ma mi sbagliavo.
La mattina dopo ero di nuovo al Red Musk Coffee Chic e un ragazzo della Grandissima bene, che era presente la mattina prima, ha detto al proprietario: «Danì... che te devo dì? Che te devo dì?» Aveva una sete incredibile quella “brava” ragazza. Era una ragazza di un’apparente normalità che volle regalare una notte “stupenda” a dieci grandissimi di buona volontà...
Messaggio del 29-01-2011 alle ore 16:12:58
Chiedetelo a loro
Quando ci riunivamo in pizzeria o in casa di qualcuno, il dr Rossi si sedeva sempre alla mia sinistra. Doveva avere la mano destra libera per arrogarsi il potere di schiaffeggiarmi violentemente dietro la nuca per seviziarmi. Poi mi appoggiava il braccio dietro la schiena – per farmi percepire che stava mostrando qualcosa ai presenti – e le donne presenti guardavano all’altezza della sua mano. Alcuni si scandalizzavano per il suo comportamento, ma le “pie donne” mi ridacchiavano gustosamente in faccia. Poi quando cercavo di capire che cosa mostrasse, il dr Rossi ritraeva la mano e nascondeva un album di fotografie sotto il sedere. Non ho mai capito che cosa ritraessero, ma quelle signore bene di Grandissima si piazzavano sempre davanti a me per gustarsi lo spettacolo; ridacchiavano di me e fingevano di eccitarsi mordendosi la lingua come fa Fantozzi. Era uno schifo che mi faceva star male, era un comportamento lesivo contro la mia salute. Non ho fatto mai fatto mistero di essere malato, lo sapevano tutti, ma nessuno gli ha mai dato peso. Anzi. Le mie pessime condizioni di salute hanno invogliato moltissima gente a seviziarmi, a ricattarmi moralmente e a fare sempre peggio. Ma adesso che sono guarito, si sentono in imbarazzo, perché non sanno come fare per affrontare la realtà.
Se volete sapere che cosa raffigurassero quelle foto, non chiedetelo a me, chiedetelo a quelle madri così sagge e sorridenti. Siate certi che sapranno bene come rispondervi e che vi diranno sicuramente la “verità”. Sentitevi liberi di credere in chi volete, ma non sentitevi obbligati a credere in me. Se volete credere nelle “verità” di quelle “pie donne”, credeteci pure. Per quanto mi riguarda, così come non mi fido di una persona che ha barbaramente ucciso un cane, non mi fido neanche di quei miserabili che mi hanno fatto del male, quando stavo malissimo. Al dr Rossi e a quelle madri così “cattoliche” vanno i complimenti di tutta la Grandissima civile!
Messaggio del 29-01-2011 alle ore 16:18:38
Tè e caffé
Maria Paola era una donna che doveva avere sempre il controllo della situazione. Era fallo centrica e molto, molto insicura. Aveva paura degli uomini, ma li invitava a casa sua per dimostrarsi di non averne e quelli che avevano questo “onore” dovevano sottostare per forza alle sue regole.
Maria Paola era ossessa. Aveva le sue regole fisse e le rispettava al millesimo. Aveva l’abitudine di invitare tre uomini a volta, uno rosso, uno bruno e un altro biondo, ma doveva ottenere il triplo di quello che ottenevano loro. Faceva accomodare il rosso al tavolino e consumava il tè con lui, mentre il bruno e il biondo li guardavano, e dopo che ebbero finito, il rosso si accomodava sul divano a guardare con il biondo, mentre il bruno consumava con lei un bel caffé. Infine mentre il bruno si accomodava sul divano a osservare, il biondo si sedeva a tavolino con lei e si beveva un buon tè. Concluso il primo giro, partiva il secondo. Uno al tavolino e gli altri due a guardare; chi aveva preso il tè si beveva il caffé e chi aveva preso il caffé si prendeva il tè. Così mentre gli uomini avevano bevuto un tè e un caffé a testa, la “brava, bella e buona” Maria Paola aveva bevuto tre tè e tre caffé.
E che nessuno di voi le dica che questi vizi portano alla follia, perché Maria Paola non è folle. No! È la vostra impressione, è un vostro modo di interpretare...
Messaggio del 29-01-2011 alle ore 22:05:15
Amanda
Non ti sei mai fidanzato? Quanti anni hai?» mi chiese. Le risposi: «trentanove.» Amanda si mise a ridere e mi prese per scemo. «E tu quanti anni hai?» le chiesi. «Io ne ho venti.» «Suppongo che ti sei fidanzata più di una volta.» Amanda mi guardò con gli occhi inflessibili come per non farsi capire. Allora le dissi: «facciamo finta che hai avuto quattro uomini. Credi veramente di essere più intelligente di me?» Amanda si sentì in imbarazzo, ma pensava di nascondermelo bene. Pensava di farmi credere che il suo era un gesto eroico, come se fosse inconsapevole dei suoi errori. Ma invece era una ragazza come tutte le altre e aveva la giusta percezione dei suoi errori. Per questo era molto invidiosa di me.
Si accese una sigaretta, guardò dall’altra parte e cantò: «se mi lasci non vale...» Rimasi a osservarla come se avessi teorizzato male. Pagai il conto a Danilo e me ne andai. «Ci vediamo la prossima volta!» le dissi.
Non rispose neanche al saluto e inspirò profondamente una boccata di fumo. Fuori le sue dita erano ferme, ma si vedeva che tremavano dentro.
Messaggio del 04-03-2011 alle ore 20:47:38
3. ECOIMPERIALISMO

I tratti tipici dell’ideologia ecologista quali la totale avversità alla crescita demografica indicata come causa di tutti i mali ambientali, l’opposizione radicale allo sviluppo considerato il veleno diffuso dalla tradizione culturale giudaico-cristiana occidentale, la concezione nichilista dell’uomo e della natura, stanno generando una forte reazione nei paesi in via di sviluppo al punto che in più occasioni associazioni dei diritti civili, gruppi di agricoltori e tecnici dei paesi poveri hanno denunciato una nuova forma di imperialismo definita come “ecoimperialismo”.
Gruppi di intellettuali, medici, piccoli imprenditori e agricoltori dei paesi poveri sostengono che molte delle argomentazioni e delle motivazioni di carattere ambientale vengono utilizzate strumentalmente per limitare e contenere lo sviluppo dei paesi emergenti.
Le accuse sono circostanziate. I paesi poveri rifiutano politiche di riduzione e selezione delle nascite, accettano volentieri gli aiuti e la riduzione del debito, ma quello che vogliono e chiedono con forza è la riduzione dei dazi sulle loro merci per accedere ai mercati di tutti i paesi più avanzati, Europa e Stati Uniti in particolare.
I paesi in via di sviluppo guardano con sospetto i programmi che si rifanno ad argomentazioni che utilizzano i termini “sviluppo sostenibile” e “principio di precauzione” per giustificare politiche di condizionamento limitativo delle libertà.
A ragione sostengono che quando il mondo avanzato ha realizzato il proprio massimo sviluppo tutte queste limitazioni non c’erano.
In termini sanitari, come abbiamo visto, molti paesi chiedono di poter utilizzare il DDT (Dicloro Difenil Tricloroetano) contro la malaria. Per quanto riguarda l’agricoltura e l’alimentazione i paesi in via di sviluppo chiedono di poter coltivare, commerciare e ricercare sementi e prodotti genericamente modificati. Per soddisfare i crescenti bisogni di energia chiedono di poter utilizzare fonti avanzate e redditizie come il nucleare o meno costose come il carbone. Guardano con sospetto l’utilizzo di pannelli solari ed energia eolica, perché non garantiscono continuità nella produzione energetica, generano poca energia e sono molto costosi.
Insomma nel complesso, gran parte del mondo in via di sviluppo chiede di poter realizzare un modello economico e un livello di libertà che garantisca una qualità della vita simile a quella occidentale, mentre l’ideologia ecologista respinge quel modello perché lo considera massimamente inquinante e propone modelli economici primitivi precedenti alla rivoluzione industriale insieme a una cultura che si basa sull’indigenismo.
L’influenza politica e la capacità di condizionamento delle istituzioni internazionali da parte dell’ideologia ambientalista fornisce argomenti alle accuse di ecoimperialismo.
Organizzato dal Congress of Racial Equality (CORE), il più vecchio movimento statunitense per i diritti civili, si è svolto a New York il 20 gennaio 2004 un convegno dal titolo «Ecoimperialismo: la guerra globale del movimento verde contro i poveri dei paesi in via di sviluppo».
Uno degli organizzatori, studioso ed esperto di geologia ed ecologia, Paul Driessen, ha scritto anche un libro su questo tema e aperto un sito web molto frequentato (www.eco-imperialism.com). Driessen dimostra che «la concezione secondo cui le teorie e i valori ambientali debbano avere la precedenza sul valore della vita umana ha prodotto effetti devastanti nei paesi del Terzo mondo, e queste tragedie che colpiscono i paesi più poveri sono il diretto risultato dell’imperialismo ecologico promosso dai ricchi e ben finanziati ambientalisti del mondo industrializzato».
Lo Stesso Patrick Moore, già co-fondatore di Greenpeace e ora impegnato in progetti di rimboschimento, ha così commentato il libro di Driessen: «Il movimento ambientalista, che io ho aiutato a fondare, ha perso la propria oggettività, moralità e umanità. Il dolore e le sofferenze che stanno infliggendo nelle famiglie dei paesi in via di sviluppo non possono essere più a lungo tollerate. Eco-imperialismo è il primo libro che ho visto che dice la verità su questa vicenda. Per questo deve essere letto da ognuno che ha a cuore le persone e il progresso del nostro pianeta».
Recensioni e commenti favorevoli del libro di Driessen sono State pubblicate in India, Sudafrica, Kenya, Liberia, oltre che negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.
Sempre su questo tema il famoso scrittore Michael Crichton, autore di Jurassic Park e tanti altri volumi di successo, ha scritto in un “messaggio dell’autore” pubblicato in appendice del suo ultimo e più venduto libro Stato di paura: «Concludo che la maggior parte dei principi ambientalisti (come lo sviluppo sostenibile o il principio di precauzione) hanno l’effetto di preservare i vantaggi economici dell’Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei paesi in via di sviluppo. È una bella susa dire: Noi abbiamo ciò che ci spetta e non vogliamo che voi abbiate ciò che vi spetta, perché produrreste troppo inquinamento».
Gli argomenti più controversi che stanno alla base delle accuse di ecoimperialismo riguardano i divieti di utilizzare il DDT contro la malaria e le sementi OGM per le attività agricole.

Perché non debellare la malaria con il DDT?

Nel 1939 il DDT venne usato la prima volta in Svizzera come antiparassitario per i pomodori. In seguito si scoprì che il DDT era molto efficace nella prevenzione della malaria, del tifo, della peste, della febbre gialla, della meningite cerebrospinale, della malattia del sonno e di altre malattie trasmesse da insetti.
Nell’immediato dopoguerra sia gli americani sia gli europei hanno usato, massicciamente e con successo, il DDT per sradicare malaria e tifo.
Alla fine degli anni ‘60 però il nascente movimento Verde si lanciò in una campagna per vietare l’uso del DDT che a loro dire avrebbe sterminato gli uccelli perché riduceva il guscio delle uova. Tale campagna propagandistica fu così efficace che, nonostante l’esiguità delle prove scientifiche il 15 giugno 1972, il segretario dell’Ente per la Protezione dell’Ambiente statunitense (EPA), William Ruckelshaus, decretò la messa al bando del DDT. In seguito tale decisione venne adottata in tutto il mondo e si trattò di una decisione politica. Lo stesso Ruckelshaus confessò che «non esiste alcuna prova scientifica che giustifichi il divieto dell’utilizzo di questa sostanza chimica. È una decisione politica».
Nel 1979 l’Organizzazione Mondiale della Sanità analizzò il DDT e ammise di non aver trovato «nessun possibile effetto nocivo del DDT» e lo giudicò come «il più sicuro insetticida usato per nebulizzazioni residue nei programmi di controllo degli insetti portatori di epidemie».
Dal punto di vista sanitario, mentre scienziati e organismi scientifici hanno stimato in 300 milioni le vite salvate dall’uso del DDT, dal 1972 sono più di 50 milioni le persone morte a causa della malaria in zone dove non si è più utilizzato il DDT.
Nonostante l’evidenza il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), Greenpeace, il WWF e altri gruppi ambientalisti continuano a contrastare l’utilizzo del DDT e proporre misure drammaticamepte inefficaci e più costose.
I gruppi ecologisti propongono di utilizzare le zanzariere che non sono sicure al cento per cento e che non è possibile utilizzare se non quando si è a letto. Sono stati proposti altri antiparassitari più costosi e meno efficaci, o terapie farmacologiche difficili da praticare. Il WWF ha proposto l’uso di pesci che mangiano le larve di zanzare, ma è evidente che si tratta di una proposta ridicola che può aiutare solo in zone particolari.
Ha scritto giustamente il keniota James Shikwati: «I paesi ricchi che dicono alle nazioni povere di mettere al bando i prodotti chimici necessari per combattere gli insetti portatori delle malattie, pretendendo oltretutto di essere responsabili, umanitari e compassionevoli, stanno facendo ipocrisia della peggior specie».

Gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo chiedono la libertà di coltivare OGM

Un altro campo su cui si sta svolgendo la battaglia per lo sviluppo è quello degli organismi geneticamente modificati (OGM).
Sempre più agricoltori, ricercatori, piccoli imprenditori, chiedono di poter utilizzare, commerciare e ricercare sementi e prodotti OGM, ma trovano l’opposizione dell’ideologia ambientalista che li vorrebbe sempre e solo attaccati a tecniche agricole arretrate.
A questo proposito Florence Wambugu, direttore regionale dell’International Service for the Acquisition of Agri-biotech Application, ha scritto sul «Los Angeles Times»: «Gli antiglobal che si oppongono alle biotecnologie, non hanno problemi alimentari e possono scegliere di mangiare come meglio credono. I manifestanti anti-OGM vivono in un mondo prospero e vogliono dirci ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare per alimentare i nostri bambini». «Come africana» ha continuato la Wambugu «so che le biotecnologie non sono la panacea, non possono risolvere il problema della corruzione o della inettitudine dei governi, la mancanza di educazione scolastica e di fondi per la ricerca o la scarsità dei capitali, ma come scienziata posso dire che gli OGM possono risolvere molti dei problemi agricoli dell’Africa. Utilizzando le biotecnologie crescerà la produttività agricola, utilizzeremo meno terreno coltivabile e daremo più spazio agli ambienti protetti. Inoltre le biotecnologie possono aiutare gli africani a conservare le risorse naturali più belle e proteggere la biodiversità. Altrimenti la biodiversità locale sarà distrutta dalle malattie e dai parassiti. Così io dico agli ecologisti no global: “State attenti perché state attaccando proprio coloro che voi dite di voler proteggere”.»
Nel gennaio del 2003, una delegazione di agricoltori e scienziati provenienti dal Sudafrica, dal Kenya, dalla Nigeria, dal Malawi e dall’India è sbarcata a Roma, come tappa di un tour che li ha portati a Bruxelles e a Londra. La delegazione era venuta in Europa su invito personale della Commissione Europea per partecipare alla Conferenza intitolata: “Verso una agricoltura sostenibile per i paesi in via di sviluppo”. Themsite J. Buthelezi portavoce dei piccoli agricoltori della zona nord-est del Sudafrica, conosciuta come Makhathini Flats, ha raccontato che «c’era molta diffidenza all’inizio nei confronti delle sementi di cotone OGM. Ma i risultati hanno cambiato la vita a più di un agricoltore. La differenza di produttività tra il cotone tradizionale e quello OGM è di 13 a 3, ed è dovuta soprattutto alla resistenza ai parassiti». Buthelezi ha spiegato che «mentre per le colture di cotone tradizionali servono 10-11 trattamenti antiparassitari, per quelle OGM ne bastano appena due, con grande risparmio di denaro e salute». «Con questi risultati, in appena un anno» ha affermato Buthelezi «circa l’80% dei 5.000 piccoli agricoltori della zona ha deciso di utilizzare sementi di cotone OGM.»
S. Jaipal Reddy, portavoce della principale Federazione di agricoltori della regione di Andhra Pradesh in India, ha illustrato quanto è importante ridurre i trattamenti antiparassitari. «La coltivazione del cotone in India assorbe il 54% dei trattamenti antiparassitari» ha precisato Reddy «e tra il 1998 e il 2000, 326 agricoltori sono morti a causa del cattivo uso delle sostanze chimiche per combattere i parassiti. Con gli OGM il danno ambientale si riduce, produttività e reddito crescono. Da questo punto di vista» ha concluso Jaipal Reddy «gli ambientalisti che combattono gli OGM non riflettono affatto l’interesse degli agricoltori e dei consumatori». In merito all’agricoltura biologica che nei paesi ricchi viene presentata come una soluzione ai problemi ambientali, l’onorevole Bintony Kutsaira deputato alla Assemblea Nazionale del Malawi ed esperto di botanica ha raccontato che «in Africa l’80% della popolazione lavora in agricoltura. Si tratta di un’agricoltura biologica perché non ci sono soldi per acquistare né antiparassitari né fertilizzanti. I risultati sono miseri e non abbiamo ancora raggiunto la sicurezza alimentare. Per questo motivo non possiamo non utilizzare gli OGM che ci permettono di migliorare la quantità e la qualità dei nostri prodotti. Il nostro governo è povero ma per il 2003 ha impegnato dei fondi per favorire la ricerca di prodotti OGM», ha detto l’onorevole Kutsaira. Una critica diretta all’Europa l’ha rivolta la professoressa Jocelyn Webster, direttore esecutivo di AfricaBio, un centro di ricerca del governo del Sudafrica. «Non riesco a capire» ha detto la Webster «come facciano gli europei a pagare gli agricoltori per non produrre». «Inoltre» ha continuato la docente sudafricana «le politiche contro gli OGM ci stanno penalizzando, perché alcuni paesi come la Namibia che importano il mais giallo OGM da noi prodotto per alimentare gli animali, adesso rifiutano gli OGM perché temono che la UE non voglia importare più la carne». «Questo atteggiamento dei paesi europei» ha detto la Webster «sta penalizzando tutti perché tiene alti i prezzi delle derrate alimentari e penalizza il libero commercio». Il 28 gennaio del 2003 la delegazione di scienziati, imprenditori e agricoltori provenienti da diversi paesi africani e dall’India ha consegnato ai deputati della Commissione Esteri della Camera un messaggio in cui è scritto:
«L’agricoltura africana ha assolutamente bisogno delle biotecnologie e l’indecisione dell’Europa su questa materia potrebbe avere ripercussioni profonde sul commercio in tutta l’Africa».
«Mentre l’Europa continua a dibattere sugli OGM, in Africa la tecnologia biotech è necessaria per affrontare alcuni dei nostri problemi più urgenti» ha sottolineato James Ochanda, docente all’Università di Nairobi, in Kenya, e presidente dell’African Biotechnology Stakeholders Forum in una conferenza stampa al termine dell’audizione a Montecitorio. «Pur non essendo una panacea per tutti i guai dell’agricoltura zambiana,» gli ha fatto eco Luke Mumbe dell’Università dello Zambia «le biotecnologie hanno sicuramente un ruolo da svolgere nell’incrementare la produzione di cibo. E possono servire per ottenere coltivazioni con determinate proprietà, come la resistenza a parassiti e infestanti, la tolleranza alla sicità e migliori caratteristiche nutrizionali».
In questo contesto non stupisce scoprire che in occasione del Summit sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg (agosto-settembre 2002), organizzato dalle Nazioni Unite, un gruppo di scienziati e di agricoltori africani ha manifestato il diritto di utilizzare sementi OGM. In una dichiarazione firmata dagli scienziati africani di sedici differenti paesi, e diffusa alla stampa è scritto: «Contrariamente alla opinione diffusa secondo cui la fame è legata a un problema di distribuzione, la situazione di siccità è uno dei maggiori problemi di mancanza di cibo che affligge gran parte del continente africano. La siccità rende impossibile la coltivazione e costringe gli agricoltori a emigrare verso terreni più fertili, molto spesso in zone dove le foreste sono più dense. Queste foreste vengono sacrificate al fine di poter avere terreno coltivabile, e così facendo si impoverisce la biodiversità e si incoraggiano i cambiamenti climatici, al punto che le piogge diventano irregolari e si favorisce la deforstazione e la desertificazione. Questo circolo vizioso di ricorrenti siccità e deforestazione deve essere fermato. Carestie e fame in Africa devono essere vinte. Le pratiche di agricoltura convenzionale durante i secoli non sono state capaci di fermare la siccità e le sue conseguenze. Gli scienziati africani stanno lottando per sviluppare, piante che possono crescere in aree secche e resistere alla siccità. La siccità distrugge anche la biodiversità, per questo motivo lo sviluppo e la realizzazione di queste nuove piante potranno impedire anche l’emigrazione degli agricoltori. Inoltre si potrebbe impedire la distruzione delle foreste e della biodiversità. A questo proposito, per essere capaci di rispondere alla sfida di sviluppare sementi e colture che resistono alla siccità, gli scienziati africani necessitano di incrementare la collaborazione nazionale e internazionale con gli istituti di ricerca, pubblici e privati, che già stanno lavorando su questo progetto. Ogni quattro secondi muore una persona per fame. L’Africa ha bisogno di soluzioni vere per combattere la fame e le piante che resistono alla siccità sono la risposta. Gli scienziati africani sono convinti che le biotecnologie forniranno un contributo significativo allo sviluppo dell’Africa».
Insieme alle dichiarazioni degli scienziati, agricoltori africani hanno marciato a Johannesburg con striscioni che condannavano l’ecoimperialismo e con magliette su cui era scritto «Biotechnology for Africa».
Messaggio del 04-03-2011 alle ore 20:52:34
2. L’EUROPA IN MANO AGLI ECOLOGISTI

A essere particolarmente inquietante è il fatto che i leader europei siano terribilmente affascinati da questo ritorno alla preistoria: alla guida della Commissione Europea, dopo Romano Prodi che si è addirittura definito “militante di Kyoto”, è arrivato un José Manuel Barroso che si è subito mostrato in sintonia con le posizioni ecologiste più radicali. Al punto da scrivere l’introduzione dei rapporto del WWF e del Global Footprint Network sull’impronta ecologica dell’Europa, presentato a Bruxelles il 14 giugno 2005. Ovviamente il rapporto “dimostra” che l’Europa a 25 ha un deficit ecologico dei 220%, il che vuoi dire che «gli europei si devono ora affidare alle risorse del resto del mondo per poter far fronte alloro crescente deficit ecologico». E la ricetta è chiara: «Ridurre la pressione europea sulla natura è perciò essenziale per la prosperità dell’Europa e la sua credibilità come leader internazionale nello sviluppo sostenibile». Quale sia la “prosperità” che questi signori perseguono lo abbiamo già visto, ma per Barroso - leggiamo dall’introduzione al rapporto sull’impronta ecologica dell’Europa - tutto questo «è un principio chiave per le nostre politiche e azioni, all’interno della UE e sulla scena internazionale». E poi continua affermando che in vista del raggiungimento di «una migliore qualità della vita» è necessario «salvaguardare la capacità della Terra di sostenere la vita in tutte le sue diversità e rispettare i limiti delle risorse naturali del pianeta». Perciò «dobbiamo promuovere una produzione e un consumo sostenibili e raggiungere il giusto equilibrio tra crescita economica e prosperità e la protezione dell’ambiente all’interno e globalmente». Barroso vede poi necessario coinvolgere tutti i cittadini che, però, hanno bisogno di «informazioni chiare sulle sfide e sulle opzioni disponibili per maggiori modelli sostenibili di produzione, consumo e sviluppo».

L’Europa sulle proprie orme

Quelle di Barroso non sono parole di circostanza ma il segno di una continuità nella politica della Commissione Europea. Lo sviluppo sostenibile - concetto intimamente legato all’impronta ecologica - è un obiettivo chiave dell’Unione Europea già dal 1997, visto che è stato recepito nell’articolo 2 del Trattato di Amsterdam. Ma è nel 2001 - con Prodi alla presidenza - che l’impegno europeo in questo campo diventa concreto al punto che la Commissione Europea redige la Strategia dell’Unione Europea per lo Sviluppo Sostenibile, approvata al Vertice di Gothenburg, alla luce della quale deve essere letta anche la Strategia di Lisbona, il piano anti-povertà e per lo sviluppo economico varato nel 2000.
E pochi giorni dopo la presentazione del rapporto sull’impronta ecologica dell’Europa, il Consiglio Europeo di Bruxelles (16-17 giugno 2005) approva la «Dichiarazione sui principi guida dello Sviluppo Sostenibile», in cui si ribadisce il concetto chiave alla base dell’impronta ecologica, ovvero la «salvaguardia della capacità della terra di sostenere la vita in tutte le sue diversità», un riferimento quest’ultimo alla Carta della Terra. E in modo più preciso si invoca “l’educazione dei cittadini” e il coinvolgimento dei vari attori sociali allo scopo di ottenere scelte di “produzione e consumo sostenibile”. Ancora una volta, descrivendo la protezione ambientale come primo obiettivo chiave, afferma che tutto ciò è necessario «per rompere il legame tra crescita economica e degradazione ambientale». Vale a dire che tutto l’impianto dello sviluppo sostenibile e dell’impronta ecologica si basa su un’affermazione falsa, cioè non rispondente alla realtà. E vero invece che la crescita economica - accompagnata da altri fattori culturali, sociali e politici che ne sono condizione - ha comportato un decisivo miglioramento anche degli indicatori ambientali, come abbiamo visto nel precedente volume e come vedremo meglio più avanti.
In ogni caso lo sviluppo sostenibile e la Carta della Terra sono entrati anche nel Trattato costituzionale dell’Europa, il cui iter è stato sospeso dal “no” espresso dai popoli francese e olandese al referendum confermativo. Curiosamente, mentre si è tanto discusso del mancato riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa nel Preambolo della Costituzione, è passata completamente sotto silenzio l’introduzione, nello stesso Preambolo, del concetto di sviluppo sostenibile.
Nell’ultima parte del testo introduttivo della Costituzione si dice infatti: «Certi che, “unita nella diversità”, l’Europa offra loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza della loro responsabilità nei confronti delle generazioni future e della Terra, la grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana...». Come si vede c’è il riferimento esplicito al concetto di sviluppo sostenibile - che si qualifica proprio come responsabilità verso le generazioni future - e più in generale alla Carta della Terra. Vale qui la pena ricordare brevemente che la Carta della Terra, promulgata nel 2000 ma non ancora approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è un tentativo di aderire a dei “valori etici globali” ispirati a un umanitarismo che ha una concezione dell’uomo come parte di una più ampia “comunità della vita” (in pratica tutta la natura, una forma di neo-paganesimo). In questa visione sparisce la centralità dell’uomo nella Creazione: egli non è più dunque il “responsabile”, il custode di un Creato che è comunque al suo servizio, ma piuttosto si deve via, via annullare per consentire la vita di animali e piante. La Carta della Terra affonda le sue radici nel rapporto finale della Commissione Internazionale sull’ambiente e lo sviluppo (meglio conosciuta come Commissione Brundtland, dal nome dell’ex premier norvegese che la presiedeva), che ha formulato proprio il concetto di sviluppo sostenibile, e ha chiesto di stilare una Carta della Terra al fine di «consolidare ed estendere principi legali rilevanti», creando «nuove norme necessarie per mantenere i mezzi di sostentamento e la vita sul pianeta che condividiamo e per guidare i comportamenti delle nazioni durante la transizione verso uno sviluppo sostenibile».

I G10, la lobby ecologista della UE

Questa progressiva radicalizzazione dell’Europa su posizioni ecologiste si spiega anche con una sorta di istituzionalizzazione della lobby ecologista che, tra l’altro, prepara e accompagna i momenti istituzionali più importanti, come i vertici del Consiglio Europeo, e ne verifica l’attuazione. A questo scopo si è costituito un network di dieci associazioni ambientaliste, che si autodefinisce G10 (G sta per Green, verdi), molto influenti sulle politiche ambientali ed economiche della UE. Si tratta di WFF, Greenpeace, BirdLife International, CEE Bankwatch Network, Climate Action Network Europe, European Environmental Bureau, European Federation for Transport & Environment, European Public Health Alliance-Environment Network, Friends of the Earth Europe, International Friends of Nature. Anche in occasione del vertice europeo del 16 e 17 giugno 2006 hanno preparato un dettagliato rapporto che tira le conseguenze politiche ed economiche della Dichiarazione sullo Sviluppo Sostenibile del giugno 2005, ricordando che - secondo la stessa Commissione Europea - «si stima che gli europei usino in media 4,9 ettari di terreno produttivo pro capite per mantenere i loro stili di vita, mentre la media globale dovrebbe essere di 1,8». Da qui il richiamo a «invertire l’attuale direzione di sviluppo che ha conseguenze sulle persone e sull’ambiente in altre parti del mondo». Quindi «l’Unione Europea deve cambiare drasticamente i suoi modelli di consumo e produzione» per diventare leader nel mondo e modello per tutti gli altri paesi quanto a sviluppo sostenibile. A questo scopo nel rapporto vengono offerti gli obiettivi per ciò che riguarda la politica energetica, la sanità, la demografia, l’uso delle risorse naturali, la biodiversità, i trasporti, la lotta alla povertà. Le ricette ecologiste vanno verso l’imposizione di una serie di tasse “verdi” e regolamenti sempre più stretti per l’industria, con l’obiettivo di tagliare le emissioni di gas serra, ritenuti responsabili del cambiamento climatico (e qui addirittura si fissano limiti ancora più stringenti di quelli previsti dal Protocollo di Kyoto) e rientrare entro l’impronta ecologica considerata ideale. E interessante notare che, proprio mentre la Commissione Europea comincia ad accorgersi con colpevole ritardo dei problemi creati dal perdurante calo della fertilità, il rapporto dei G10 invita a considerare gli aspetti positivi della «stabilizzazione e anche di una certa diminuzione della popolazione in Europa» in vista della «riduzione della pressione sull’ambiente» (par. 4.1).

La rieducazione del cittadino

Aldilà dell’attuazione delle singole proposte è bene comunque rendersi conto che tali indirizzi politici sono già operativi. Ne è un esempio la campagna di sensibilizzazione rivolta ai cittadini lanciata all’inizio del giugno 2006 dal presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e dal Commissario all’Ambiente Stavros Dimas. Titolo della campagna: “Il cambiamento climatico: potete controllarlo”. L’iniziativa nasce dalla scoperta che «i nuclei familiari della UE sono all’origine di circa il 16% delle emissioni totali di gas a effetto serra dell’Unione» e perciò gli eco-burocrati hanno deciso di “rieducare” i cittadini. Parola d’ordine della campagna, che punta al risparmio energetico: «Abbassate. Spegnete. Riciclate. Camminate». Sono stati annunciati manifesti e materiale illustrativo per coprire tutte le città europee, incluse mega T-shirt da far indossare alle statue più rappresentative delle rispettive capitali. La campagna si rivolge ai singoli cittadini per cui ci si è preoccupati di fornire dei parametri “oggettivi”, così che ognuno possa misurare i progressi ottenuti con il proprio sforzo. Basta andare nel sito Internet creato per l’occasione (www.climatechange.eu.com) per trovare il “calcolatore di carbonio” che ci fa misurare le emissioni di CO2 (anidride carbonica) per ogni azione che compiamo. Lo scopo è quello di incentivare il cambiamento delle proprie abitudini quotidiane, e nel sito si possono trovare una cinquantina di suggerimenti: abbassare il riscaldamento di un grado, evitare di lasciare in modalità stand-by televisori e computer, usare entrambi i lati di un foglio quando si stampa, la rinuncia all’automobile e così via. Ce ne sono anche di curiosi: mettere il frigorifero lontano da dove si cucina perché più è alta la temperatura della stanza più il frigo consuma (come se si potesse mettere il frigo in camera); oppure “pianta un albero” per assorbire anidride carbonica. Peraltro ogni cittadino, dopo aver preso visione delle abitudini che deve cambiare, è invitato a firmare una dichiarazione di impegno da faxare poi all’apposito ufficio della Commissione Europea, e che recita così: «Io posso controllare il cambiamento del clima e mi impegno a ridurre le mie emissioni di CO2 facendo piccoli cambiamenti del mio comportamento quotidiano». Pare di risentire l’eco delle campagne maoiste in Cina. Ma è evidente dove porta questa strada: come non considerare infatti che ogni persona emette CO2 ogni volta che espira? Per diventare bravi cittadini arriverà dunque il momento in cui ci si dovrà decidere a respirare di meno, evitare lo sport (che fa accelerare i ritmi di respirazione) e si guarderà minacciosamente tutti quelli che avranno un respiro affannoso (ci sono già in commercio dei kit per misurare le proprie emissioni respiratorie di CO2). Per non parlare della flatulenza: quando infatti ruttiamo emettiamo metano, uno dei principali gas serra. Non sembri un’esagerazione: nei consigli al cittadino della campagna in oggetto, la Commissione UE scrive: «Mangia verdure! Produrre carne provoca intensità di emissioni di CO2 e di metano e richiede grandi quantità di acqua. Infatti gli animali ruminanti, come bovini e ovini, sono grandi produttori di metano a causa del loro sistema digerente». In fondo, una ricerca francese del settembre scorso dimostrava come in Francia soltanto i bovini (con i loro 4 stomaci) emettono gas serra tre volte superiori alle 14 raffinerie di petrolio presenti nel paese.
Ebbene queste follie vengono pagate caramente dai cittadini: soltanto per questa campagna la Commissione Europea ha stanziato 4,7 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi alle altre centinaia di milioni di euro che costerà l’applicazione del Protocollo di Kyoto. Un recente studio dell’International Council for Capital Formation (IccF) calcolava infatti che se entro il 2010 l’Italia volesse adeguarsi agli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, avremmo delle ripercussioni economiche quali una riduzione di due punti del Pil, una crescita del 13% del prezzo dell’elettricità e la perdita di 200.000 posti di lavoro.

La chimicofobia

Questione se possibile ancora più seria riguarda la “chimicofobia” che da qualche anno è diventata parte integrante della politica europea, e che ha trovato la sua “migliore” applicazione nel regolamento sulla Registrazione, Valutazione e Autorizzazione delle Sostanze Chimiche (REACH, secondo l’acronimo in inglese), approvato dal Parlamento Europeo in prima lettura il 17 novembre 2005 e dal Consiglio dei ministri della UE il successivo 13 dicembre. Secondo questo regolamento, che dovrà entrare in vigore nel 2007, circa 30.000 sostanze chimiche usate a partire dal 1981 a oggi e che si trovano in prodotti e oggetti che usiamo quotidianamente - dal sapone ai profumi, alla carta - dovranno essere testate e registrate dalle industrie che le usano (non soltanto quelle che le producono). Tutto questo in nome della salute e dell’ambiente, partendo dall’assunto che tutto ciò che è chimico fa male. Infatti la Commissione Europea sostiene che l’introduzione di tale registro possa salvare la vita di 4500 persone, tante sarebbero le morti premature causate da sostanze chimiche. Ora, già qui si possono avanzare alcune riserve. Anzitutto c’è una oggettiva difficoltà nello stabilire con precisione che per la morte di una persona è decisivo un fattore ignorandone altri. Per esempio, si può dire che l’obesità sia un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, ma ci sono persone obese che arrivano tranquillamente ben oltre l’aspettativa di vita media o che muoiono per tutt’altri motivi. Così pure è logico affermare che l’inquinamento atmosferico nelle città non fa bene alla salute, però al contempo bisogna prendere atto che nei paesi sviluppati la vita media è più lunga tra gli abitanti delle città rispetto a quelli delle zone rurali. Evidentemente è difficile se non impossibile isolare una sostanza, un prodotto o una situazione dal contesto generale e dagli altri fattori coinvolti. E ci sarà pure un motivo se nei paesi sviluppati la vita media è ormai prossima agli 80 anni mentre nell’Africa senza auto, senza industrie, molta natura e poca chimica, fa fatica a superare i 40. Il problema, in questo caso, è stabilire il rapporto tra rischi e benefici di un determinato prodotto.
Esempio: ogni anno negli USA almeno 400 persone muoiono per choc anafilattico causato dalla somministrazione di penicillina. Ma se, sulla base di questo dato, la Federal and Drug Administration (FDA, l’ente americano che autorizza la distribuzione dei farmaci) proibisse medicinali a base di penicillina provocherebbe una sommossa generale, visto che la penicillina ha permesso di salvare e salva ancora la vita di milioni di persone. Purtroppo bisogna dire che qualcosa di simile è successo invece con il DDT, messo fuorilegge sulla base di potenziali e mai provati danni all’ambiente e alla salute, malgrado sia stata l’arma principale per sconfiggere la malaria anche nei paesi sviluppati. Il risultato è che la malaria continua a mietere ogni anno milioni di vittime in Africa ipotecando ogni reale possibilità di sviluppo del Continente, ancor più della diffusione dell’AIDS.
Tornando al REACH e alla statistica delle vite “stroncate” dai prodotti chimici, troviamo una contraddizione logica evidente. Ovvero: per poter affermare che una sostanza provoca un certo numero di morti bisogna conoscerne precisamente caratteristiche ed effetti. Ma il REACH, attraverso i test e la registrazione, ha proprio lo scopo di identificare delle sostanze chimiche potenzialmente pericolose, di cui evidentemente gli effetti non si conoscono. Come è possibile affermare allora con precisione che certe sostanze provocano un determinato numero di morti?
E la bizzarria a cui porta l’applicazione del “principio di precauzione” così come formulato dagli ambientalisti e recepito dall’Unione Europea. L’applicazione di tale principio comporta infatti il rovesciamento dell’onere della prova: tocca quindi all’industria, pregiudizialmente colpevole, a provare che i suoi prodotti sono innocui. Ciò vuol dire che i governi possono proibire la produzione e la commercializzazione di certe sostanze, senza alcuna prova della loro nocività. Basta una bene organizzata campagna mediatica, come si è visto molte volte. In pratica siamo in balia di Greenpeace e del WWF, e dei centri studi a loro collegati che lanciano allarmi a piacimento.
È da notare che l’adozione del principio di precauzione, tra i vari effetti ha anche quello di rovesciare un principio giuridico fondamentale nelle società libere, ovvero che ognuno è considerato innocente finché non provato colpevole. Ma soprattutto questa legislazione impone vincoli e costi esorbitanti all’industria - non solo quella chimica - senza peraltro fornire alcun reale miglioramento per la tutela della salute dei cittadini né in fatto di gestione dei rischi.
A proposito dei costi, la Commissione Europea li stima nell’ordine dei 5,2 miliardi di euro in 11 anni, ma i benefici del regolamento - dice la Commissione - permetterebbero di risparmiare 54 miliardi di euro in 30 anni come conseguenza del calo di malattie professionali dovute all’esposizione ad agenti chimici. Ma questa visione ottimistica trova molto scetticismo. Non solo i benefici sono ipotetici e basati su assunti indimostrabili, come abbiamo spiegato sopra, ma i costi appaiono a molti analisti decisamente superiori: 28 miliardi di dollari, secondo il Nordic Council, con i costi indiretti fino a 2,5 volte più alti di quelli diretti. Cifre che sembrano condivise da Federchimica che, solo per l’Italia, parla di costi diretti intorno a 1,2 miliardi di euro (la spesa per un solo dossier di registrazione va da un minimo di 90.000 euro a un massimo di 650.000) e di costi indiretti di 6,3 miliardi di euro. Il provvedimento peraltro colpirà soprattutto le piccole e medie imprese, che pagheranno l’85% dei costi diretti del REACH, un fardello ancora più pesante se si considera che in questo settore sono impiegati i due terzi della forza lavoro in Europa. Tanto per dare un’idea, le imprese europee producono il 31% di tutti i prodotti chimici al mondo, l’industria chimica è la terza per importanza in Europa con 1,7 milioni di lavoratori impiegati e oltre tre milioni di posti di lavoro nell’indotto.
E così, mentre la piccola e media industria vedrà minacciata seriamente la sua competitività, crescerà a dismisura l’apparato burocratico che dovrà necessariamente svolgere una funzione di controllo sia all’interno delle singole industrie sia a livello nazionale ed europeo.

Case più piccole ed ecologiche

Prossimamente ci si potrà anche aspettare che si intervenga sullo stato civile dei cittadini con il pretesto della protezione dell’ambiente. La rivista «Environment, Development and Sustainibility» (Ambiente, Sviluppo e Sostenibiità), importante punto di riferimento internazionale per studi e analisi del rapporto tra sviluppo e ambiente, al proposito ha pubblicato il 1 agosto 2006 un illuminante articolo che mette sotto accusa i single come una potenziale bomba ecologica. L’articolo riporta i risultati di una ricerca condotta dall’University College of London (UCL), secondo cui gli uomini di età compresa tra i 35 e i 45 anni che vivono da soli sono i più grandi consumatori di terra, energia e prodotti per la casa. Sempre secondo i ricercatori inglesi, a preoccupare è il tasso di crescita di questa fascia di popolazione combinato alla sua ricchezza e predisposizione al consumo, tanto da prevedere “una crisi da consumi”. Il problema sembra essere sia quantitativo sia qualitativo. Tra il 1971 e il 2001 - sempre secondo i ricercatori - il numero di case abitate da nuclei monofamiliari è cresciuto dal 12 al 30% del totale. Inoltre se nel passato il tipico nucleo monofamiliare era rappresentato da vedove, spesso con una disponibilità economica molto limitata, oggi c’è invece una rapida crescita di giovani e benestanti single: tanto che i nuclei monofamiliari - secondo le stime del governo britannico - incideranno per il 72% nella costruzione di nuove case tra il 2003 e il 2026.
«Le persone che vivono da sole» si afferma «sono i più grossi consumatori pro capite di energia, terra e prodotti quali lavatrici, televisori, frigoriferi, stereo e così via. Essi consumano in più - pro capite - il 38% di prodotti, il 42% di imballaggi, il 55% di elettricità, il 61% di gas rispetto a un nucleo di 4 persone. Se queste, per esempio, producono ciascuna 1.000 chilogrammi di rifiuti l’anno, il singolo ne produce almeno 1.600 chilogrammi. E produce anche più biossido di carbonio (CO2) a persona».
Ovviamente questa tendenza, nell’ottica di cui sopra, è vista come una sciagura, così il team di ricercatori britannici propone anche delle soluzioni urgenti. Certamente non quella di convincere tutti a sposarsi, ma quello di incentivare nuovi tipi di abitazioni e stili di vita. Per esempio, nell’articolo si suggerisce di incentivare la vita in comune, di estendere gli incentivi per coloro che intendono cambiare casa per essere più vicini al posto di lavoro, di introdurre una “tassa sull’occupazione” che punisca chi vive in spazi troppo ampi; e infine di puntare sulla costruzione di case ecologiche. «Le persone che vivono da sole,» dice la ricerca «sono più ricche che mai e, con la giusta pubblicità, potrebbero voler investire i propri soldi in case e prodotti più ecologici. C’è anche l’opportunità di incoraggiare nuove costruzioni ecologiche prestigiose e ad alta tecnologia, ma gli immobiliari ritengono che per questo siano necessari regolamenti più rigidi nel promuovere gli standard ecologici delle costruzioni».
In realtà l’Unione Europea ha già provveduto a questo con la Direttiva 2002/91/CE “sul rendimento energetico dell’edilizia” che - su proposta della Commissione Europea presieduta da Romano Prodi - è stata approvata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio della UE del 16 dicembre 2002. Con questa si introduce la “certificazione energetica per gli immobili”, obbligatoria per tutti i nuovi edifici. «In altre parole, si attribuisce una sorta di “bollino blu” all’edificio che, rispondendo a determinati parametri europei, sia in grado di ridurre i consumi di energia di suoi abitanti». Il metodo con cui calcolare il rendimento energetico degli edifici può essere differenziato a seconda dei paesi e delle regioni e deve considerare «oltre alla coibentazione, una serie di altri fattori come il tipo di impianto di riscaldamento, l’impiego di fonti di energia rinnovabili e le caratteristiche architettoniche dell’edificio». L’obbligo di certificazione energetica riguarda anche gli edifici vecchi di dimensione superiore ai 1.000 m2, se oggetto di ristrutturazione. Ogni edificio dunque dovrà avere un “attestato di certificazione energetica” che, peraltro, dovrà essere rinnovato ogni cinque anni. Non basta: ogni stato dovrà anche provvedere a regolari ispezioni (ogni due anni) delle caldaie e dei sistemi di condizionamento d’aria. Come si vede, è difficile immaginare un regolamento più rigido. Come spiega Giorgio Spaziani Testa, segretario di Confedilizia, «non ci sono numeri che dimostrino l’effettiva riduzione del ricorso agli idrocarburi, il motivo è semplice: si tratta di un calcolo assai difficile, soggetto a un gran numero di variabili, non soltanto climatiche». Evidentemente però per certo ecologismo non è importante dimostrare i vantaggi di certe leggi, non servono calcoli di costi/benefici, ciò che conta è imporre ai cittadini il cambiamento dello stile di vita imponendo nuove gabelle. E creando una sorta di “polizia ambientale” con ampio potere di giudizio. La possibilità di ispezioni cicliche, con successive revisioni, infatti, produce una nuova casta di tutori dell’ordine in senso ecologico, composta da tecnici e burocrati. Per avere il certificato c’è bisogno di carte e bollini, per mantenerlo anche. Invece di stimolare l’imprenditorialità, si crea soltanto maggiore burocrazia e si favorisce la corruzione: laddove l’applicazione di una legge è molto costosa e complessa - l’esperienza insegna - si tenta infatti di aggirarla in tutti i modi.
Per completezza di informazione la direttiva UE è entrata in vigore in tutti gli stati membri già dal gennaio 2006; in Italia è stata recepita con la Legge 192 del 19 agosto 2005 che, se possibile, la peggiora ancora, includendo nell’obbligo di certificazione energetica anche gli edifici vecchi (non solo quelli maggiori di 1.000 m2) se ristrutturati.

“Volate di meno”, la guerra contro gli aerei

Da diversi anni nel mirino degli ecologisti è finito il traffico aereo, considerate le emissioni di CO2 a questo imputate. Secondo le stime fornite dalla Commissione Europea, attualmente il traffico aereo contribuisce per il 3,5% sul totale delle emissioni dovute ad attività umane, ma questo contributo è destinato a salire al 5% per il 2050: minerebbe così il tentativo di ridurre le emissioni che in ottemperanza al Protocollo di Kyoto si sta facendo per altri settori industriali. Aviation and Environment Federation (F), un’agguerrita associazione britannica già da 30 anni in prima fila per porre un limite allo sviluppo del traffico aereo, aggiunge che a livello mondiale il traffico passeggeri è destinato a crescere del 5% l’anno e che la flotta aerea complessiva raddoppierà per il 2020. Per questo AEF e Green Skies Alliance (associazione che emana da Friends of the Earth e WWF e raggruppa tutte le sigle europee impegnate in questa battaglia) hanno anche lanciato una campagna mediatica denominata “Fly Less” (Vola meno), rivolta soprattutto ai professionisti e basata sulla domanda “È il tuo viaggio davvero necessario?”. «Non c’è motivo,» ha spiegato il coordinatore di questa iniziativa, Jeff Gazzard «per cui le 25 istituzioni della City di Londra non possano usare il treno per andare a Parigi e a Bruxelles, perfino a Colonia, il nostro obiettivo per gli uomini d’affari è ridurre i voli del 20%».
Queste associazioni hanno però puntato soprattutto sul fronte istituzionale, inserendosi nelle varie commissioni trasporti e sviluppo dei singoli paesi e delle istituzioni europee.
Il risultato più importante ottenuto finora con questa sistematica azione di lobby è senz’altro l’approvazione al Parlamento Europeo, il 4 luglio 2006, della risoluzione denominata “Ridurre l’impatto dell’aviazione sui cambiamenti climatici”. La risoluzione (non vincolante, ma sicuramente importante quale indirizzo politico) contiene la richiesta di “immediata introduzione” di una tassa sul carburante degli aerei per tutti i voli all’interno dell’Unione Europea, il che equivarrà a un sovrapprezzo sul costo del biglietto di almeno 30 euro per tratta (60 euro per un qualsiasi volo andata e ritorno). Inoltre gli europarlamentari chiedono di inserire anche l’industria aeronautica nello Schema di Commercio delle Emissioni (ETS secondo l’acronimo in inglese), che costringerà dal 2008 le compagnie aeree a comprare le autorizzazioni a emettere anidride carbonica. Il che si tradurrà in ulteriori costi che saranno scaricati sui viaggiatori.
A essere maggiormente punite saranno le compagnie low cost, per i cui viaggiatori l’eventuale “tassa verde” raddoppierà o triplicherà il prezzo del biglietto. Queste compagnie, peraltro, coprono tratte quasi esclusivamente continentali e diventano perciò il principale obiettivo dei provvedimenti UE. Non c’è dubbio che è proprio alle compagnie low cost come RyanAir, EasyJet e altre che si deve un grande aumento del traffico passeggeri in Europa. Nell’aprile 2001 vi erano in Europa 142.000 voli garantiti dalle compagnie low cost, nell’aprile 2006 erano 300.000 e rispetto al 2005 c’è stato un aumento del 24%. Una fetta di mercato importante per questo tipo di viaggi si è aperta con l’ingresso dei paesi dell’Europa orientale nell’Unione Europea, così che i collegamenti tra l’Est e il resto d’Europa sono cresciuti del 13% nel 2006 rispetto al 2005. La tendenza peraltro è mondiale, visto che il 14% di tutti i voli operati nel mondo (e il 17% dei biglietti venduti) si deve alle compagnie low cost. Per questo già da molti anni le organizzazioni ambientaliste hanno preso di mira queste compagnie che hanno profondamente cambiato il modo di viaggiare: «I prezzi più bassi hanno aumentato le aspettative della gente, adesso tutti vogliono viaggiare all’estero per pochi giorni, e lo fanno diverse volte l’anno. Ma il governo non fa niente per informare la gente sull’impatto ambientale dei voli», lamentava già nell’ottobre 2002 in Gran Bretagna Simon Bishop, dell’Institute of Public Policy Research (IPPR).
Dall’altra parte, le compagnie aeree rispondono sottolineando l’aumentata efficienza energetica dei loro vettori, con riduzione dell’inquinamento atmosferico e di quello acustico che bilanciano l’aumento del traffico aereo. Ma la guerra contro i voli non conosce soste e si combatte su diversi fronti: per esempio il governo britannico il 6 giugno 2006 ha alla fine accolto una delle richieste dell’AEF introducendo severe restrizioni sui voli notturni nei principali aeroporti londinesi, Heathrow, Gatwick e Stansted. E sempre in Gran Bretagna trovano grossi ostacoli i progetti di ingrandimento degli aeroporti (Heathrow) o di aumento del traffico aereo (Stansted).
Inoltre, il clima ostile che si sta creando attorno ai voli fa sì che il biglietto aereo diventi un facile obiettivo per governi che siano a caccia di beni e azioni da tassare, anche se non direttamente motivate dai cambiamenti climatici. E il caso della Francia, dove dal 10 luglio 2006 è entrata in vigore una nuova tassa su tutti i biglietti aerei - da 1 a 40 euro a seconda della tratta e della classe - per finanziarie gli aiuti allo sviluppo. E il presidente francese Jacques Chirac ha invitato tutti i governi dei paesi ricchi a fare lo stesso. E un altro passo verso la tassa globale sui voli, la cui proposta trova purtroppo crescenti consensi in sede di Nazioni Unite.

La “Diplomazia Verde”

La dittatura ecologista non riguarda soltanto la legislazione interna della UE, ma ha la pretesa di usare l’Unione Europea come un’avanguardia che dovrebbe trascinare con il suo esempio il mondo intero. E d’altra parte, da lungo tempo leader e burocrati europei hanno individuato i temi ambientali e lo sviluppo sostenibile come il terreno su cui costruire la propria identità originale, soprattutto in contrapposizione agli Stati Uniti. Non si tratta soltanto delle conseguenze internazionali di certe scelte europee, che pure sono importanti visto il crescente fenomeno della globalizzazione. Per esempio, la legislazione sull’uso e la registrazione delle sostanze chimiche ha provocato forti reazioni tra i partner commerciali dell’Europa, dai paesi in via di sviluppo - preoccupati per le conseguenze sulle esportazioni della loro piccola e media industria, la più colpita dai nuovi regolamenti - ai paesi industrializzati, che temono un indiscriminato “effetto lista nera” sulle sostanze chimiche con disastrose ripercussioni economiche e commerciali. Tanto che l’8 giugno 2006 le missioni diplomatiche a Bruxelles dei paesi partner della UE - Australia, Brasile, Cile, Corea del Sud, Giappone, India, Israele, Malaysia, Messico, Singapore, Stati Uniti, Sudafrica e Thailandia - hanno pubblicato una dichiarazione comune per chiedere all’Unione Europea di rivedere la nuova legislazione sulle sostanze chimiche.
Ciò che però è più importante per la nostra trattazione è l’iniziativa chiamata “Diplomazia Verde”, varata dal Consiglio Europeo svoltosi a Salonicco nel giugno 2003, che ha lo scopo dichiarato di integrare le politiche ambientali nelle relazioni che la UE ha con gli altri paesi. I capi di stato e di governo dell’Europa hanno quindi dato il via al Green Diplomacy Network (la Rete per la Diplomazia Verde), che ha lo scopo di mobilitare tutte le risorse diplomatiche facenti capo all’Europa (ministeri degli Esteri, ambasciate, agenzie di cooperazione e sviluppo internazionale) per promuovere la visione europea sullo sviluppo sostenibile e sull’ambiente. Le cinque priorità stabilite dal programma di lavoro approvato a Salonicco furono:
- convincere la Russia a ratificare il Protocollo di Kyoto (obiettivo raggiunto con il contrastato sì di Mosca il 30 settembre 2004, che ha permesso al Protocollo di Kyoto di entrare ufficialmente in vigore il 16 febbraio 2005);
- ridurre il tasso di perdita della biodiversità e assicurare controlli più rigidi sul commercio degli Organismi Geneticamente Modificati (0GM);
- promuovere l’agenda della UE sulle energie rinnovabili;
- rafforzare la protezione dell’ambiente marino;
- promuovere una governance internazionale dell’ambiente.
Secondo le linee guida approvate il successivo 3 novembre, il Network è incaricato di promuovere campagne per portare il messaggio della UE in tutti i paesi del mondo. Allora vediamo un paio di esempi di come sta funzionando la Diplomazia Verde.
Il primo esempio è il modo in cui si è giunti a convincere la Russia a ratificare il Protocollo di Kyoto. Lo ricaviamo dalla testimonianza resa in diverse occasioni da Andrei Illarionov, consigliere economico del presidente russo Viadimir Putin e responsabile della delegazione di esperti russi incaricata di verificare le basi scientifiche del Protocollo di Kyoto. All’inizio dell’ottobre 2003 si svolge a Mosca una conferenza mondiale sui cambiamenti climatici, dove in molti si aspettano che il presidente russo Putin annunci la decisione di aderire al Protocollo di Kyoto. Putin invece, nel suo discorso di apertura dei lavori denuncia le forti pressioni che sta ricevendo per l’adesione e prende tempo, annunciando la volontà di analizzare meglio la questione con le possibili conseguenze della ratifica. Ad analisi completata, dice Putin, sarà presa una decisione «in sintonia con gli interessi nazionali della Russia» Illarionov, da parte sua, proprio per favorire l’attenta analisi richiesta dal presidente russo, durante la conferenza pone dieci domande a Bert Bolin, famoso meteorologo svedese tra i fondatori dell’Ipcc” (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’istituzione voluta dall’ONU per studiare i cambiamenti climatici di cui Bolin è stato direttore tra il 1988 e il 1997. Le domande riguardano l’attendibilità dei dati sulla evoluzione della concentrazione di CO2 e dei modelli per le previsioni, la presunta peculiarità dell’attuale riscaldamento globale nonché la certezza sul ruolo delle attività umane in tale fenomeno; infine una stima realistica dei costi del Protocollo di Kyoto.
«Purtroppo a nessuna delle domande è stata data una risposta,» denuncia nell’occasione Illarionov «malgrado esse non siano una novità, visto che sono le domande che ricorrono da almeno vent’anni a ogni conferenza, incontro e seminario sul clima».
In ogni caso gli scienziati ed esperti russi attendono mesi, continuano a organizzare incontri, tempestano di domande l’IPCC ma senza esito. Finché l’Accademia nazionale delle Scienze - considerate anche le forti pressioni della Gran Bretagna e dell’Unione Europea sul governo russo - decide di organizzare a Mosca per l’inizio di luglio 2004 un seminario sui cambiamenti climatici invitando scienziati stranieri di diverse opinioni. Ed ecco alcuni stralci del resoconto che ancora Illarionov fornisce nella conferenza stampa dell’8 luglio 2004, a conclusione del seminario: «In due giorni abbiamo sentito più di 20 rapporti: abbiamo fatto discussioni dettagliate e ora possiamo dire che diverse questioni si sono chiarite [...].
Vorrei riassumere le mie conclusioni in sei punti. Il primo: [...] fondamentalmente, nessuna delle asserzioni fatte nel Protocollo di Kyoto e le teorie “scientifiche” sulle quali esso è basato, è supportata dai dati reali. Non stiamo assistendo a una maggiore frequenza di situazioni o eventi d’emergenza. Non c’è alcun incremento di alluvioni. Così come non c’è alcun incremento di periodi di siccità. Possiamo vedere che la velocità del vento, durante le grandinate, in alcune aree è diminuita, contrariamente alle affermazioni di persone che sostengono il Protocollo di Kyoto. Non c’è un’incidenza più alta di malattie contagiose, e laddove c’è non è in relazione con il cambiamento climatico. [...]
[...] Il secondo punto riguarda il modo in cui si sono presentati al seminario i rappresentanti ufficiali del governo britannico e della scienza climatologica ufficiale. Sono stato molto sorpreso del contenuto davvero povero degli studi presentati. Negli ultimi due anni ho preso parte a molti incontri internazionali, seminari, conferenze e congressi su tali questioni, sia in Russia sia in molti altri paesi. Sinceramente questi documenti sono drammaticamente al di sotto degli standard abituali. Allo stesso tempo non sono stati letteralmente in grado di spiegare le millantate attività professionali degli autori di questi lavori. Non soltanto ai dieci quesiti di nove mesi fa, ma neanche a una delle domande fatte durante il seminario sono stati capaci di dare una risposta.
Quando la loro difficoltà si è resa manifesta, per cavarsela hanno usato tre espedienti. Primo, hanno cercato di introdurre una forma di censura durante il seminario. Il consigliere scientifico capo del governo inglese, David King, ha preteso - nella forma di un ultimatum - il cambiamento del programma con relativa cancellazione degli interventi di due terzi degli invitati, [...] in quanto “scienziati indesiderati “, malgrado fossero stati personalmente invitati dal presidente dell’Accademia Russa delle Scienze Yuri Sergeyevich Osipov. King aveva preparato un suo programma dei lavori» - (a questo punto Illarionov ne fa distribuire una copia a tutti i partecipanti alla conferenza stampa, N.d.R.) - «che ha tentato di imporre. Nel corso della trattativa, King ha detto di aver contattato il ministro degli Esteri inglese Jack Straw, in quel momento a Mosca, e l’ufficio del primo ministro inglese Tony Blair, in modo da contattare i loro omologhi in Russia per esercitare pressioni sull’Accademia Russa delle Scienze al fine del cambiamento del programma.
Quando il tentativo di censura è fallito, altri tentativi sono stati fatti per far fallire il seminario. Almeno quattro volte sono state create ad arte brutte scene per ostacolarne lo svolgimento. Il risultato è stato di aver perso almeno quattro ore di lavoro per cercare di risolvere questi problemi. Durante questi eventi, King citava le sue conversazioni con l’ufficio del primo ministro inglese, che gli avrebbe dato il via libera per tali azioni. Infine, quando la procedura normale del seminario è stata ripristinata e si è potuto continuare a dibattere seriamente sulle questioni davanti a domande cui erano incapaci di rispondere. King e gli altri membri della delegazione se la sono filata, abbandonando la sala del seminario senza finire il loro intervento. [...]
[...] Il prossimo punto ci porta direttamente al Protocollo di Kyoto o più specificatamente alle basi ideologiche e filosofiche su cui esso è costruito. La base ideologica può essere affiancata e paragonata, come il professore Renter ha già fatto, con l’ideologia totalitaria che ha sfortunatamente attraversato il XX secolo: nazionalsocialismo, marxismo, eugenetica e così via. Tutti i metodi esistenti per distorcere l’informazione sono stati usati per provare le validità di queste teorie. Cattiva informazione, falsificazione, fabbricazione, mitologia, propaganda. Perché tutto ciò che viene proposto non può che essere qualificato come mito, non senso e assurdità.
Infine, quando vediamo uno dei più grandi, se non il più grande avvenimento internazionale [il Protocollo di Kyoto, N.dR.] essere fondato su una ideologia totalitaria che odia l’uomo [...] è difficile pensare a un’altra parola che descriva tutto questo, se non la parola “guerra”. Con nostro rammarico, questa è una guerra ed è una guerra contro il mondo intero. Ma in questo caso particolare nel mezzo della guerra c’è il nostro paese. Non è piacevole dirlo, ma questa è una guerra dichiarata contro la Russia, contro l’intero paese, contro la destra e la sinistra, contro i liberali e i conservatori, contro il mondo degli affari e il servizio di sicurezza federale, contro i giovani e i vecchi che vivono a Mosca e nelle province. Questa è una totale guerra contro il nostro paese, una guerra che usa mezzi di tutti i tipi. [...]
[...] C’è solo una conclusione da trarre per ciò che abbiamo visto, sentito e ricercato: la Russia non ha motivi materiali per ratificare questo documento. Per di più tale ratificazione significherebbe solo una cosa: una completa capitolazione alla pericolosa e dannosa ideologia e alla pratica che ci sono state imposte dalla diplomazia internazionale [...]».
Malgrado il parere negativo dei suoi scienziati ed economisti, Putin ha comunque deciso di firmare il Protocollo di Kyoto. Perché? Molto probabilmente perché «Putin, cogliendo al volo il grande interesse della UE per la faccenda, ha deciso di usare la ratifica di Kyoto come merce di scambio per ottenere i soliti vantaggi politici. Così ha tirato in lungo la trattativa, facendo evidentemente alzare il prezzo della propria adesione, fissato sostanzialmente in una più salda collaborazione politica ed economica con l’Unione Europea, a cominciare dal pieno sostegno che la UE darà all’ingresso della Russia nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)».
Un altro illuminante capitolo della “Diplomazia Verde” è il boicottaggio dei prodotti agricoli provenienti dai paesi africani i cui governi hanno deciso di usare il DDT per combattere la malaria. Bisogna ricordare che la malaria uccide ogni anno nel mondo da 1 a 3 milioni di persone, 70% delle quali sono bambini minori di 5 anni. Il 90% delle vittime si trova nell’Africa Sub-sahariana e l’Uganda ha uno dei più alti tassi al mondo di malati di malaria, con circa il 93% della popolazione a rischio e spende quasi 350 milioni di dollari all’anno per la malaria, dedicando fino al 40% delle sue cure ambulatoriali ai pazienti che ne soffrono. Nel 2002, 80.000 ugandesi sono morti per la malaria, metà erano bambini.
La malaria inoltre causa ogni anno perdite pari a 12 miliardi di dollari per produttività perduta. Le famiglie povere africane devono spendere più del 25% del proprio reddito in cure e prevenzione della malaria. Il prodotto interno lordo dell’Africa sarebbe di 400 miliardi di dollari invece che di 300, se la malaria venisse spazzata via.
Storicamente l’unica arma efficace per sconfiggere definitivamente la malaria è il DDT, come avvenuto del resto in Europa. Il prodotto è stato messo fuorilegge nel mondo all’inizio degli anni ‘70 dopo una fortissima quanto scientificamente infondata campagna ecologista che accusava il DDT di danni permanenti all’ambiente e alla salute delle persone. In realtà non c’è mai stata alcuna evidenza scientifica sui rischi connessi all’uso del DDT: in questo senso si pronunciò nel 1972 anche un giudice amministrativo dell’EPA (l’Ente americano per la protezione dell’ambiente) dopo sette mesi di inchiesta e 9.000 pagine di testimonianze. Ciononostante il DDT è stato bandito e dal 1972 cinquanta milioni di persone sono morte a causa della malaria. Recentemente molte voci si sono alzate per chiedere il riutilizzo del DDT, anche per gli evidenti fallimenti dell’apposito programma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che si chiama Roil Back Malaria (RBM), ed è stato creato nel 1998 con l’obiettivo di dimezzare le vittime della malaria entro il 2010. In realtà in sette anni i malati sono aumentati del 15%. Anche il nuovo direttore del Programma dell’OMS contro la malaria, Arata Kochi, ha chiaramente detto in una intervista al settimanale tedesco «Der Spiegel» che «abbiamo bisogno di una campagna di DDT di tipo militare, su larga scala, nello stile degli anni ‘50».
Così oggi alcuni paesi africani stanno cercando di reintrodurre l’uso del DDT per fare fronte a questa emergenza sanitaria e gli Stati Uniti, con una storica decisione, il 3 maggio 2006 hanno deciso di tornare a finanziare progetti per l’uso del DDT nei paesi dell’Africa Sub-sahariana, proprio perché convinti della necessità di questo intervento per garantire lo sviluppo dell’Africa (peraltro oggi il DDT viene prodotto soltanto in India e Cina).
Tra i paesi africani a voler reintrodurre l’uso del DDT è l’Uganda che ha ingaggiato un duro braccio di ferro con l’Unione Europea, al punto che gli esportatori agricoli dell’Uganda hanno chiesto al presidente Museveni di fermare l’annunciato progetto di riutilizzo del DDT nella lotta contro la malaria. L’appello non è per motivi di salute, ma semplicemente perché il rappresentante della UE in Uganda ha già fatto sapere che i prodotti agricoli ugandesi saranno boicottati in Europa non appena comincerà l’uso del DDT.
L’appello al presidente, che porta la data del 25 aprile 2006, sostiene che per evitare il boicottaggio della UE non è sufficiente limitare l’uso del DDT ai locali chiusi, come assicurato dal governo.
L’appello è firmato dai rappresentanti di organizzazioni che esportano prodotti tradizionali e non tradizionali. Da anni ormai in Uganda le esportazioni agricole non tradizionali hanno superato la produzione di colture tradizionali come caffè, tè, tabacco e cotone. Le esportazioni di prodotti non tradizionali (latticini, miele, prodotti biologici, pesce) sono cresciute dai 182 milioni di dollari nel 1998 ai 408 milioni di dollari nel 2004, mentre le esportazioni di prodotti tradizionali sono scese nello stesso periodo da 353 a 245 milioni di dollari.
Cifre che per l’Europa possono essere marginali, ma che sono decisive per l’Uganda. Il fatto è che il ricatto della UE è stato lanciato malgrado la decisione del governo ugandese sia in perfetta sintonia con gli accordi presi in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio.
Tom Vens, rappresentante del Settore economico e commerciale della delegazione UE in Uganda ha detto di aver «avvisato il governo ugandese del rischio cui va incontro se andrà avanti nella decisione di usare il DDT». Non ci sarà ovviamente un bando ufficiale dei prodotti agricoli ugandesi, ha spiegato Vens - anche perché sarebbe in palese contrasto con gli accordi commerciali internazionali - ma le organizzazioni dei consumatori reagirebbero sicuramente. Insomma, un vero avvertimento mafioso che aggira le leggi internazionali facendosi scudo delle associazioni dei consumatori. Vale a dire che, se l’Uganda persisterà nella sua decisione, dobbiamo aspettarci l’abituale circo di ecologisti che creerà il solito allarmismo alimentare per provocare il terrore dei consumatori.
Il governo ugandese per ora ha risposto che andrà avanti perché «il nostro programma è all’interno di un accordo del WTO e non c’è nulla di nuovo. Spruzzeremo soltanto in locali chiusi e ciò significa che il DDT non entrerà in contatto con la catena alimentare. E nello stesso tempo il governo ha già avviato una campagna di educazione al pubblico sull’uso del pesticida».
Ma l’Europa della Diplomazia Verde se ne infischia della realtà, è troppo interessata a realizzare la propria agenda politica. Poco importa se a pagare con la vita sono milioni di persone dei paesi poveri, anzi, visto il grande impegno europeo a sostenere i programmi di controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo, si può anche pensare che questo non sia un effetto indesiderato.
Messaggio del 04-03-2011 alle ore 21:01:36



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Messaggio del 04-03-2011 alle ore 22:57:15
Messaggio del 06-03-2011 alle ore 12:45:47
Le persone intelligenti non si lasciano deviare da Jena Plissken, ma leggono comunque...

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SDC

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