Cultura & Attualità
Tasse - Articolo interessante
Messaggio del 26-08-2009 alle ore 16:50:04
Quelle tasse sui salari
Scritto da Francesco Giavazzi
mercoledì 26 agosto 2009
Nel suo primo discorso politico, il 6 febbraio 1994, presentando il programma di Forza Italia, Berlusconi disse: «Noi vogliamo un’Italia con meno tasse. Proporremo la riduzione delle aliquote fiscali, perché siamo convinti che aliquote più giuste siano un incentivo al lavoro, all’investimento, al rischio d’impresa, e soprattutto un grande disincentivo all’evasione ».
Sette anni dopo, nel Contratto con gli italiani, prometteva tre sole aliquote: zero, 23 e 33%.
Dal 1994 la pressione fiscale (e cioè il totale delle tasse che famiglie e imprese pagano alle varie amministrazioni pubbliche, e calcolata dall’Ocse in modo omogeneo per tutti i Paesi) è cresciuta di oltre 3 punti. Nello stesso periodo in Germania è scesa di un punto, mentre in Francia è salita, ma meno di un punto (0,7).
Il livello della pressione fiscale italiana (oltre il 43%) è oggi simile a quello francese, ma 7 punti superiore a quello tedesco. Ci superano solo i Paesi scandinavi, di circa 5 punti (negli Stati Uniti la pressione è inferiore al 30%).
Ma in Italia la pressione «ufficiale» non è un buon indicatore del peso del fisco perché è commisurata a un Pil che include una stima dell’economia sommersa, che le tasse non le paga. Questo significa che la pressione fiscale effettivamente subita da chi non evade è maggiore di quella ufficiale, di circa 11 punti. In Italia chi non evade paga più tasse che in Svezia, il Paese dell’Ocse in cui il fisco è più esoso, e la differenza non è piccola, circa 6 punti in più.
Sul lavoro dipendente, dove non si evade e quindi i dati ufficiali sono più attendibili, tra il 2000 e oggi (i dati Ocse non sono disponibili prima del 2000) il carico fiscale è cambiato in modo diverso per diversi lavoratori. Un dipendente che percepisce lo stipendio italiano medio (26.200 euro lordi l’anno) sta un po’ meglio: la sua aliquota marginale è scesa di un punto e mezzo. Ma un dipendente il cui salario è del 30% superiore a quello medio (quindi la gran parte dei lavoratori del Nord, dove i salari lordi sono più alti) ha subito una vera stangata: un aumento dell’aliquota di quasi 8 punti, dal 40 al 49% (questi dati si riferiscono all’aliquota marginale di un lavoratore senza familiari a carico).
A meno di una svolta nella politica economica del governo (che non c’è nel Dpef scritto dal ministro dell’Economia, ma si intravede nella proposta del ministro Sacconi di detassare un’ampia parte dei prossimi rinnovi contrattuali), il ventennio di Berlusconi si chiuderà con una pressione fiscale più alta del giorno in cui egli scese in campo. La bassa crescita di questo ventennio (circa un punto in meno del resto d’Europa) riflette anche l’incapacità dei vari governi che si sono succeduti, anche quelli guidati da Berlusconi, di ridurre il peso del fisco. Un insuccesso che non possiamo giustificare con il livello del debito pubblico ereditato dagli anni ’80: la storia insegna che dal debito si esce o con l’inflazione o con la crescita. Nessun Paese è mai riuscito a ridurre il suo debito con più tasse e bassa crescita. Noi l’inflazione (fortunatamente) non la possiamo più fare, quindi non ci resta che crescere. Il modo per riprendere la crescita lo aveva intuito Berlusconi 15 anni fa: una riforma coraggiosa del fisco.
Corriere della Sera, 26 ago 2009
Quelle tasse sui salari
Scritto da Francesco Giavazzi
mercoledì 26 agosto 2009
Nel suo primo discorso politico, il 6 febbraio 1994, presentando il programma di Forza Italia, Berlusconi disse: «Noi vogliamo un’Italia con meno tasse. Proporremo la riduzione delle aliquote fiscali, perché siamo convinti che aliquote più giuste siano un incentivo al lavoro, all’investimento, al rischio d’impresa, e soprattutto un grande disincentivo all’evasione ».
Sette anni dopo, nel Contratto con gli italiani, prometteva tre sole aliquote: zero, 23 e 33%.
Dal 1994 la pressione fiscale (e cioè il totale delle tasse che famiglie e imprese pagano alle varie amministrazioni pubbliche, e calcolata dall’Ocse in modo omogeneo per tutti i Paesi) è cresciuta di oltre 3 punti. Nello stesso periodo in Germania è scesa di un punto, mentre in Francia è salita, ma meno di un punto (0,7).
Il livello della pressione fiscale italiana (oltre il 43%) è oggi simile a quello francese, ma 7 punti superiore a quello tedesco. Ci superano solo i Paesi scandinavi, di circa 5 punti (negli Stati Uniti la pressione è inferiore al 30%).
Ma in Italia la pressione «ufficiale» non è un buon indicatore del peso del fisco perché è commisurata a un Pil che include una stima dell’economia sommersa, che le tasse non le paga. Questo significa che la pressione fiscale effettivamente subita da chi non evade è maggiore di quella ufficiale, di circa 11 punti. In Italia chi non evade paga più tasse che in Svezia, il Paese dell’Ocse in cui il fisco è più esoso, e la differenza non è piccola, circa 6 punti in più.
Sul lavoro dipendente, dove non si evade e quindi i dati ufficiali sono più attendibili, tra il 2000 e oggi (i dati Ocse non sono disponibili prima del 2000) il carico fiscale è cambiato in modo diverso per diversi lavoratori. Un dipendente che percepisce lo stipendio italiano medio (26.200 euro lordi l’anno) sta un po’ meglio: la sua aliquota marginale è scesa di un punto e mezzo. Ma un dipendente il cui salario è del 30% superiore a quello medio (quindi la gran parte dei lavoratori del Nord, dove i salari lordi sono più alti) ha subito una vera stangata: un aumento dell’aliquota di quasi 8 punti, dal 40 al 49% (questi dati si riferiscono all’aliquota marginale di un lavoratore senza familiari a carico).
A meno di una svolta nella politica economica del governo (che non c’è nel Dpef scritto dal ministro dell’Economia, ma si intravede nella proposta del ministro Sacconi di detassare un’ampia parte dei prossimi rinnovi contrattuali), il ventennio di Berlusconi si chiuderà con una pressione fiscale più alta del giorno in cui egli scese in campo. La bassa crescita di questo ventennio (circa un punto in meno del resto d’Europa) riflette anche l’incapacità dei vari governi che si sono succeduti, anche quelli guidati da Berlusconi, di ridurre il peso del fisco. Un insuccesso che non possiamo giustificare con il livello del debito pubblico ereditato dagli anni ’80: la storia insegna che dal debito si esce o con l’inflazione o con la crescita. Nessun Paese è mai riuscito a ridurre il suo debito con più tasse e bassa crescita. Noi l’inflazione (fortunatamente) non la possiamo più fare, quindi non ci resta che crescere. Il modo per riprendere la crescita lo aveva intuito Berlusconi 15 anni fa: una riforma coraggiosa del fisco.
Corriere della Sera, 26 ago 2009
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