La Piazza

Fier d’etre marseillais
Messaggio del 05-01-2009 alle ore 22:29:20
Qui il nemico lo riconosciamo, è visibile. Non veste come noi, ha la pelle di un colore diverso. Gli occhi, anche. Qui il nemico lo riconosciamo, non si veste come noi: nei vicoli del quartiere, il boss veste come me. Io, con 10 euro ho preso il falso al mercato del sabato; lui, con una spesa cento volte superiore è salito fin su, nel cuore delle botteghe dell’alta moda, ad acquistare l’originale. Ma alla messa di Natale, sotto la flebile luce della candela e lo sguardo stanco del bambinello del presepe, sembriamo uguali: le nostre mani grandi, divorate dal lavoro e dai pugni. I nostri peli neri, che rilsagono le braccia fino alle nocche, come salmoni sul fiume. La nostra barba appena accennata, a coprire le cicatrici della malattie dell’infanzia e della prima lama sotto il mento. I nostri capelli uniformati dalla lacca, come una mannaia profumata che pende sul nostro capo. Ci stringiamo quelle mani accompagnate dal timido sorriso del rapporto cane-padrone: così siamo, scodinzolanti all’osso in volo ed accucciati di fronte al bastone che scende sulla nostra schiena.
Qui, invece, il nemico lo riconosciamo. Veste male, con gli avanzi dei cassettoni della ricca periferia: qui, la città è cresciuta secondo il canone opposto al resto del paese. Il centro, figlio del porto e di un millennio di commistione razziale, ha ereditato la fame dei mesi in mare, le malattie della pioggia fredda, le lotte delle dispense vuote. E le ondate, ondate di figli mezzi nudi negli umidi vicoli dove veleggiano i panni stesi ad asciugare. La periferia è figlia delle industrie, del commercio, dei prodotti tipici confezionati e pronti per l’esportazione; è figlia delle filari di viti, degli ulivi secolari, dei terreni strappati alle unghie del mezzadro e consegnate al portafoglio del signore. La periferia è figlia delle terrene ricchezze di questi prodotti, che fa luccicare i loro bagni e le loro auto, sempre più grandi ma senza figli nei sedili posteriori. Figli che studiano fuori, nelle capitali anglosassoni, e che saranno organigramma di terrore dopo aver conseguito il pezzo di carta: laureati del licenziamento, diplomati della delocalizzazione, baci accademici della ristrutturazione del personale. In centro, il verde è strappato al cemento, è al bordo del marciapiede e incastonato tra due palazzi, con le radici che intersecano le vecchie fognature e rimbalzano da un ciottolo all’altro. In periferia, il verde è massiccio ma artefatto, patrimoniale ma vuoto di storia: piantato con il sudore domenicale del padrone, vive di erba inglese e annaffiatoio regolare, senza respirare le grida del gioco infantile o il passionale litigio fisico di una coppia di innamorati, sdraiati sotto i rami ancora carichi di foglie.
Qui il nemico lo riconosciamo: camminiamo per le nuove strade del centro, dove la pattumiera è oramai satura di uomini e povera di immondizia. Luccicanti neon e nomi internazionali, trattorie in franchising e cambi valuta. Lo riconosciamo, il nemico: cammina disorientato lui, quasi frettoloso ed imbarazzo alla luce del giorno, collerico predatore invece quando il buio fa zittire ogni artificiale rumore trapiantato a forza. Vive della metropolitana, si nutre del suo orario d’apertura e scorrazza poi libero, la notte, in quella che era la sua casa paterna, ora alloggio ad occasionale noleggio per famiglie del nord Europa.
Qui, il nemico, riconosce il suo territorio, ora: palazzoni bianchi, dove i calcinacci sono l’unica neve che scende lungo i fianchi, fino a terra. Auto senza la targa continentale, nipoti ancora di un tempo di divisioni e motorizzazioni provinciali. Saracinesche abbassate, enormi citofoni vuoti di nomi, dove la memoria della conoscenza è l’unica indicazione per una visita di cortesia. Movimenti scostanti ed urla isolate, frenetiche contrattazioni e fantasmi di droga nascosti dietro le colonne, a morire quotidianamente laddove i ricchi trovano lo sballo del fine settimana.
Qui, il nemico, riconosce i suoi odori: la cucina povera ma fantasiosa, l’acqua opaca di sapone e di cenere che scorre lungo i rivoli, fino ad inondare la piazzola dove alloggiano, senza ruote, due motorini dati alle fiamme. L’acrilico e metallico odore della benzina, quello macchinoso della ferraglia in movimento e quello, delicatamente bianco, del passo lento di una giovane madre che, quella stessa notte, andrà ad ingrossare le voglie di un finto colletto milleurista.
Qui il nemico lo riconosciamo: cammina con i pugni in tasca, marcia a testa bassa e cerca il contatto con la tua spalla, pronto a far esplodere quella mano chiusa in una lama. Ma noi ci spostiamo, attraversiamo il marciapiede, guardandoci freneticamente all’indietro un paio di volte. Ma noi acceleriamo il passo, puntiamo rapidi verso il pub in finto legno alla fine della strada, andando a spendere l’illusoria paga in una annacquata mezza pinta, osservando la notte in un taxi verso casa.

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