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Republika Slovenija
Messaggio del 07-01-2010 alle ore 09:52:26
ti vì facenne se gitarelle, eh?
ti vì facenne se gitarelle, eh?
Messaggio del 06-01-2010 alle ore 10:23:47
belle
belle
Messaggio del 06-01-2010 alle ore 09:46:48
Grazie Ernè
Grazie Ernè
Messaggio del 05-01-2010 alle ore 15:06:17
l'ultima è veramente una bella foto
l'ultima è veramente una bella foto
Messaggio del 04-01-2010 alle ore 13:50:59
Il motore dell’auto si spegne, sbuffa di interruzione. Ne avrebbe ancora lui, lavora bene di rodaggio e di strada, non si spaventa per le ore o un asfalto diverso.
Siamo andati via, come l’ombra che scappa dal sole e si allunga sul terreno, fregandosene delle irregolarità del suolo.
Mi sento sempre povero, al rientro. Povero, e un po’ ladro, senza la cortesia di un Lupin o l’autoassoluzione di un Robin Hood. Sono povero, perché torno svuotato di me. Privo delle idee di partenza, della forza del conoscere, del piacere del nuovo, dell’orgoglio delle albe di risveglio e dei caffè lunghi in piedi, davanti alla finestra, in attesa di un amico. Sono povero perché torno con l’anima leggera, con il cervello sgonfio ed il cuore rallentato, i sensi sopiti da ciò che non conoscevo, senza ignorarlo volutamente. È una nuda povertà però, da vivere col sorriso dei giusti ed il silenzio fiero di chi conosce i rumori dello stomaco.
Mi sento ladro, perché dentro di me porto la stanchezza di una sposa triste, quella balcanica. Ho preso la sua dote di nozze, ho rubato il suo piccolo anello d’oro, le sue promesse di fede e di lealtà. Le ho portato via anche la prima notte di nozze, fuggendo con lei dalle luci appariscenti della piazza. Le ho nascosto le grida dei commensali, ebri di novità e di occidente, con i piedi che danzano ancora barocchi al ritmo di ciò che è stato. Ho preso loro i passi leggeri della strada, la pioggia insistente e passiva battagliera, goccia dal cielo pesante e senza cadenze. Ho rubato ogni stretto passaggio, ogni apertura di cortile, ogni graffito cirillico sui muri affaticati dall’intonaco nuovo. I miei occhi hanno strappato le finestre illuminate sui tetti e i dragoni alle porte del ponte. Le mie orecchie, nel silenzio visivo dello sguardo, hanno portato via ogni corsa del fiume, le spallate delle piccole onde sull’argine: il lento logorio del letto d’acqua, nascosto agli occhi dalle volontà degli uomini, piccoli imbarcazioni come serpenti di ferro. Il mio naso ha lottato come il giorno, attento al moderno e curioso del passato, alternante sentimenti ed umori a seconda della sensibilità vendute, o acquistate. Mille spezie conosciute nel nome e non di papilla, le dita corrotte dalle asprezze dimenticate dal benessere: si boccia la difficoltà, quando si cresce socialmente e di portafoglio.
Mi sento povero, perché sorseggio male il loro caffè. Perché mi cade dalla mani la bustina del tè. Perché non ricordo le zollette. Perché lo vorrei corretto. O macchiato. Mi sento povero perché ho perso la conquista per la consapevolezza, ed ho scambiato una bandiera per del ciottolato. Ma senza vergogna, perché è una nudità volontaria e felice la mia, sopita dalle luci sempre più deboli della notte inoltrata: come chiuso a guscio nel letto, a coprire il mio corpo che non mi piace, sotto una donna conosciuta poco prima ma già amata. Come quella sposa triste che ho rapito, conoscendo il perché del suo sorriso piatto su quel viso spigoloso.
Cade la neve, e la sfido guardandola negli occhi: verso il cielo, che ne butta giù tanta come a rispondere cinico al mio rapimento: intaglierò quel cuore come fa il tempo sulla roccia del Carso, bucando montagne e toccando le nebbie, cantando con l’eco di mille dialetti sconosciuti e giocando con un castello dipinto su un precipizio.
Il motore dell’auto si spegne, sbuffa di interruzione. Ne avrebbe ancora lui, lavora bene di rodaggio e di strada, non si spaventa per le ore o un asfalto diverso.
Siamo andati via, come l’ombra che scappa dal sole e si allunga sul terreno, fregandosene delle irregolarità del suolo.
Mi sento sempre povero, al rientro. Povero, e un po’ ladro, senza la cortesia di un Lupin o l’autoassoluzione di un Robin Hood. Sono povero, perché torno svuotato di me. Privo delle idee di partenza, della forza del conoscere, del piacere del nuovo, dell’orgoglio delle albe di risveglio e dei caffè lunghi in piedi, davanti alla finestra, in attesa di un amico. Sono povero perché torno con l’anima leggera, con il cervello sgonfio ed il cuore rallentato, i sensi sopiti da ciò che non conoscevo, senza ignorarlo volutamente. È una nuda povertà però, da vivere col sorriso dei giusti ed il silenzio fiero di chi conosce i rumori dello stomaco.
Mi sento ladro, perché dentro di me porto la stanchezza di una sposa triste, quella balcanica. Ho preso la sua dote di nozze, ho rubato il suo piccolo anello d’oro, le sue promesse di fede e di lealtà. Le ho portato via anche la prima notte di nozze, fuggendo con lei dalle luci appariscenti della piazza. Le ho nascosto le grida dei commensali, ebri di novità e di occidente, con i piedi che danzano ancora barocchi al ritmo di ciò che è stato. Ho preso loro i passi leggeri della strada, la pioggia insistente e passiva battagliera, goccia dal cielo pesante e senza cadenze. Ho rubato ogni stretto passaggio, ogni apertura di cortile, ogni graffito cirillico sui muri affaticati dall’intonaco nuovo. I miei occhi hanno strappato le finestre illuminate sui tetti e i dragoni alle porte del ponte. Le mie orecchie, nel silenzio visivo dello sguardo, hanno portato via ogni corsa del fiume, le spallate delle piccole onde sull’argine: il lento logorio del letto d’acqua, nascosto agli occhi dalle volontà degli uomini, piccoli imbarcazioni come serpenti di ferro. Il mio naso ha lottato come il giorno, attento al moderno e curioso del passato, alternante sentimenti ed umori a seconda della sensibilità vendute, o acquistate. Mille spezie conosciute nel nome e non di papilla, le dita corrotte dalle asprezze dimenticate dal benessere: si boccia la difficoltà, quando si cresce socialmente e di portafoglio.
Mi sento povero, perché sorseggio male il loro caffè. Perché mi cade dalla mani la bustina del tè. Perché non ricordo le zollette. Perché lo vorrei corretto. O macchiato. Mi sento povero perché ho perso la conquista per la consapevolezza, ed ho scambiato una bandiera per del ciottolato. Ma senza vergogna, perché è una nudità volontaria e felice la mia, sopita dalle luci sempre più deboli della notte inoltrata: come chiuso a guscio nel letto, a coprire il mio corpo che non mi piace, sotto una donna conosciuta poco prima ma già amata. Come quella sposa triste che ho rapito, conoscendo il perché del suo sorriso piatto su quel viso spigoloso.
Cade la neve, e la sfido guardandola negli occhi: verso il cielo, che ne butta giù tanta come a rispondere cinico al mio rapimento: intaglierò quel cuore come fa il tempo sulla roccia del Carso, bucando montagne e toccando le nebbie, cantando con l’eco di mille dialetti sconosciuti e giocando con un castello dipinto su un precipizio.
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